Lacan – La gelosia-simpatia tra il Gatto e la Volpe

mani-in-fronte

C’è un illusorio perfettamente oggettivo, dicevamo.
In questa prospettiva cosa avviene dell’io? L’io è un oggetto bell’e buono. L’io, che voi percepite, diciamo così, all’interno del campo di coscienza chiara come ne fosse l’unità, è precisamente ciò nei cui confronti l’immediato della sensazione è messo in tensione.
Questa unità non è per niente omogenea con ciò che capita alla superficie di questo campo, che è neutro. La coscienza come fenomeno fisico è precisamente ciò che genera questa tensione.

Tutta la dialettica che vi ho dato come esempio sotto il nome di stadio dello specchio è fondata sul rapporto fra, da una parte, un certo livello delle tendenze, sperimentate – diciamo, per ora, a un certo momento della vita – come sconnesse, discordanti, frammentate – e ne resta sempre qualcosa – e, dall’altra, un’unità con la quale essa si confonde e si accoppia.
Questa unità è ciò in cui il soggetto per la prima volta si conosce come unità, ma come unità alienata, virtuale. Essa non partecipa dei caratteri di inerzia del fenomeno di coscienza nella sua forma primitiva, ma al contrario ha un rapporto vitale, o controvitale, col soggetto.

Sembra che l’uomo abbia qui un’esperienza privilegiata. Forse c’è, dopotutto, qualcosa di quest’ordine in altre specie animali. Questo punto non è cruciale per noi. Non forgiamo ipotesi. Questa dialettica è presente nell’esperienza a tutti i livelli della strutturazione dell’io umano, e questo ci basta.
Per farvi cogliere questa dialettica, vorrei rappresentarvela con un’immagine di cui non cieco-paraliticoavete avuto il tempo di usare l’effigie poiché non ve l’ho ancora data: quella del cieco e del paralitico.

La soggettività a livello dell’io è paragonabile a questa coppia, introdotta dall’iconografia del XV secolo – e senza dubbio non senza ragione – in un modo particolarmente accentuato.
La metà soggettiva prima dell’esperienza dello specchio è il paralitico, che non può muoversi da solo se non in modo scoordinato e maldestro. Ciò che lo domina è l’immagine dell’io, che è cieca e che lo porta.
Contrariamente alle apparenze, ed è tutto il problema della dialettica, non è, come crede Platone, il padrone a cavalcare il cavallo, cioè il servo; è il contrario. E il paralitico, a partire dal quale si costruisce questa prospettiva, non può identificarsi alla propria unità che nella fascinazione, nell’immobilità fondamentale con cui viene a corrispondere allo sguardo sotto il quale è preso, lo sguardo cieco.

Un’altra immagine è quella del serpente e dell’uccello, ammaliato dallo sguardo. La fascinazione è assolutamente essenziale al fenomeno di costituzione dell’io.
È perché ammaliata che la diversità scoordinata, incoerente della frammentazione primitiva assume la propria unità. Anche la riflessione è fascinazione. Vi mostrerò questa funzione della fascinazione, anzi del terrore, sotto la penna di Freud, precisamente a proposito della costituzione dell’io.

Terza immagine. Se le macchine potessero incarnare ciò di cui si tratta in questa dialettica, vi proporrei il seguente modello.
Prendiamo una di queste piccole tartarughe o volpi che da qualche tempo sappiamo fabbricare e che sono il passatempo dei dotti della nostra epoca – gli automi hanno sempre avuto un grande ruolo, e nella nostra epoca hanno un ruolo rinnovato –, una di quelle macchinette a cui oggi sappiamo, grazie a ogni sorta di organi intermediari, dare un’omeostasi e qualcosa che rassomigli a dei desideri.

Supponiamo che questa macchina sia costituita in modo tale da essere incompiuta, che si bloccherà, che non si strutturerà definitivamente in un meccanismo se non percependo – in un modo qualsiasi, una cellula fotoelettrica per esempio, con relais – un’altra macchina del tutto simile, ma con una sola differenza, che questa abbia già completato la sua unità in corso, diciamo, di un’esperienza precedente – una macchina può fare esperienze.
Il movimento di ogni macchina è così condizionato dalla percezione dello stadio a cui un’altra è arrivata. Questo corrisponde all’elemento di fascinazione.

stampelle-desiderio

Vedete quale cerchio può, in un sol getto, installarsi. Nella misura in cui l’unità della prima macchina è sospesa a quella dell’altra, e l’altra le dà il modello e la forma stessa della sua unità, ciò verso cui la prima si dirigerà dipenderà sempre da ciò verso cui si dirigerà l’altra.
Ne risulterà niente di meno che la situazione in impasse che è quella della costituzione dell’oggetto umano. Questa, infatti, è interamente sospesa a quella dialettica di gelosia-simpatia che è esattamente espressa nella psicologia tradizionale dall’incompatibilità delle coscienze.

Ciò non vuol dire che una coscienza non possa concepire un’altra coscienza, ma che l’io interamente sospeso all’unità di un altro io è strettamente incompatibile con lui sul piano del desiderio. Un oggetto ambito, desiderato, l’avrà o lui o io, bisogna che sia o l’uno o l’altro. E quando è l’altro ad averlo, è perché mi appartiene.
Questa rivalità costitutiva della conoscenza allo stato puro è evidentemente una tappa virtuale. Non c’è conoscenza allo stato puro, poiché la stretta comunanza dell’io e dell’altro nel desiderio dell’oggetto innesca tutt’altra cosa: il riconoscimento.

Il riconoscimento suppone in modo molto evidente un terzo. Affinché la prima macchina bloccata sull’immagine della seconda possa arrivare a un accordo, e non siano costrette a distruggersi sul punto di convergenza del loro desiderio – che è insomma lo stesso desiderio, poiché a questo livello non sono che un solo e medesimo essere –, bisognerà che la macchinetta possa informare l’altra, dirle – Io (je) desidero questo.
Non è possibile. Ammettendo che ci sia un io (je), questo si trasforma immediatamente in radiolarianun tu desideri questo. Io (je) desidero questo vuol dire – Tu, altro, che sei la mia unità, tu desideri questo.

Si può pensare che ritroviamo qui quella forma essenziale del messaggio umano che fa sì che si riceva il proprio messaggio dall’altro, in forma invertita. Non credeteci. Ciò che vi racconto qui è puramente mitico.
Non c’è modo che la prima macchina dica alcunché, poiché essa è prima dell’unità, è desiderio immediato, non ha la parola, non è nessuno. Essa non è qualcuno più di quanto non lo sia il riflesso della montagna nel lago.
Il paralitico è afono, non ha niente da dire. Perché capiti qualcosa, bisogna che ci sia un terzo, che si metta all’interno della macchina, per esempio della prima, e pronunci un io (je). Ma questo è del tutto impensabile a questo livello dell’esperienza.

Questo terzo, noi lo troviamo nell’inconscio. Ma, appunto, è nell’inconscio – là dove dev’essere situato affinché si metta in moto il balletto di tutte le macchinette, ossia al di sopra di esse, in quell’altrove in cui Claude Lévi-Strauss l’altro giorno vi ha detto che si situa il sistema degli scambi, le strutture elementari.
Bisogna che nel sistema condizionato dall’immagine dell’io, intervenga il sistema simbolico, perché possa esserci uno scambio, qualcosa che è, non conoscenza, ma riconoscimento.

Vedete così che l’io non può essere in alcun caso che una funzione immaginaria, anche se determina a un certo livello la strutturazione del soggetto. È ambiguo come lo è l’oggetto stesso, di cui è in un certo modo, non solamente una tappa, ma il correlato identico.
Il soggetto si pone come operante, come umano, come io (je), a partire dal momento in cui appare il sistema simbolico. E questo momento non è deducibile da alcun modello che appartenga all’ordine di una strutturazione individuale.
Per dirla con altre parole, bisognerebbe, affinché il soggetto umano appaia, che la macchina, nelle informazioni che dà, contasse se stessa come un’unità fra le altre. Ed è precisamente la sola cosa che non può fare. Per poter contare se stessa, bisognerebbe che non fosse più la macchina che è, poiché tutto si può fare, tranne che una macchina addizioni se stessa in quanto elemento a un calcolo.

(Lacan, Il Seminario: 2)

***

Kush-onde-oceano

C’è un nervo, un fascio di nervi (perché no? – le «cavalle» di Parmenide), che si mette in tensione «nei confronti dell’immediato della sensazione».
Nell’immediato – nel «senza mediazioni» – che viene incontro ai sensi, quel fascio di nervi si tende, cambia l’intensità di frequenza delle sue onde.

È l’Oceano che «genera» flutti sugli scogli. È la Coscienza, l’Anima che «ondeggia», ovunque. È il Soggetto Illusorio, la sedicente Persona Immortale, al di là di tutti gli individui della Specie che essa incorporeamente «incarna», a diffondere ovunque i fili della sua Alta Tensione.
Chi tocca i fili muore … mentre chi sopravvive alla Scossa, è quell’altro: l’io, il je.

Per sapere di quest’«io», della sua costituzione, della sua genesi – dobbiamo riandare, come il Dottore consiglia, allo «stadio dello specchio», tornare cioè all’età di sei mesi, a quando da poco c’era spuntato in bocca il primo sorriso, un fascio, cioè, di nervi distesi nella loro prima tensione rilassata.
A quel tempo, nell’«immediatezza dello sguardo» di cui godevamo allora, senza essere ancora questo o quell’«io», addirittura senza parola, e dunque senza fronzoli né gingilli per la mente, le nostre «visioni» erano sconnesse, discordanti, frammentate. Esse succedevano l’una all’altra: erano il molteplice senza la mediazione della benché minima idea di molteplicità, l’innumerevole senza neanche il più vago concetto di numero.

In quel «disordine», in quel «mondo delle visioni», più arcaico del platonico «mondo delle idee», in quell’Oceano d’onde al di là del Bene e del Male, cosa possiamo noi, oggi, Vilella-genesiimmaginare all’opera, se non (siamo dinanzi allo specchio del Mondo, non ce lo scordiamo!), cosa se non «immagini»?
Immagini cieche, sottolinea il Dottore. Frantumi visionari che tra loro non hanno altro legame che … una copula temporale: questa e poi quest’altra, e poi quest’altra ancora – donde la formula (…) e (…) con cui proviamo a farcene una rappresentazione nel nostro logos simbolico, nel logos che parliamo oggi.

A dare «unità» al nascituro soggetto umano, non è che quel misero brandello copulativo che unifica in una sequenza (puramente additiva, illogica, caotica) il molteplice senza ordinarlo. Lo tiene in qualche modo assieme, nel momento stesso in cui lo scompone: (…) e (fu sera) e (fu mattina) e (…).
L’umano che ogni volta ri-nasce è il Soggetto-Coscienza, è l’Oceano che viene a trascinare il nuovo venuto, l’ultimo arrivato, quest’altro «pezzo di legno», l’ennesimo «oggetto» anonimo, nel gorgo della sua corrente «eraclitea». Viene a risucchiarlo nel campo delle sue tendenze «elettriche».

Il nascituro prende la Scossa «la prima volta che si conosce come unità»: a differenza del Soggetto-Coscienza, egli è vivo, in carne e ossa, e perciò non gode dei caratteri dell’inerzia. No, i suoi nervi reagiscono, si tendono, quando il Soggetto li «tocca», e il Ricco Pescatore li stringe nella sua Rete.
Non è ancora niente di «umano», si tratta solo di un pezzo di legno, anche se si dà tante arie da burattino. Non è Nessuno – ma il Soggetto che l’assoggetta, il Mangiafoco di turno, l’Anima che lo anima lo «esamina», lo mette alla prova, lo collauda.

Come? è presto detto: assegnandogli per (losca) compagnia il Gatto e la Volpe. Pardon: il cieco e il paralitico. Il cieco che si carica sulle spalle e porta a spasso l’Astuzia, per quanto spelacchiata, dell’Ingannatore destinato a farsi ingannare da ciò che vede, e tanto più se ciò che «vede» è, come dice il Dottore, «fascinoso» miraggio: sommo terrore e somma goduria insieme, in una sola Sorpresa.
Il cieco, il Gatto, il «servo» porta sulle spalle il paralitico, la Volpe zoppa, il «padrone»… a volte lo porta in carrozza, o forse è sempre così. Finché è in braccio alla Mamma, sebbene veda, non è lui però a decidere da che parte andare. Perciò, dunque: che razza di mamma-bimbo-specchiopadrone è mai questo, se è Anima a portarlo a spasso?  a portarlo dove Anima vuole. Dove vuole il cieco, il Gatto. Del resto, è lui che sopporta il peso del viaggio.

È il Gatto che, per la Volpe, decide la via – finché la Volpe non sarà in grado di camminare sulle sue zampe. È il «non vedente», in realtà, il padrone degli spostamenti.
Prima dell’esperienza dello specchio, prima di giungere al cospetto del suo «demone», il bebè a stento si regge in piedi, traballa, e non si muove «se non in modo scoordinato e maldestro».
Insomma: non è u guagliuncielle a «cavalcare» l’onda delle cavalle, sono le cavalle a tirarlo nella loro frequenza d’onda. E così continua a essere finché u guagliuncielle non incappa nella Sorpresa – nella Fascinazione Immaginale: ovvero quando finalmente vede la sua via. Fino ad allora a «guidarlo» è il Gatto cieco – a decidere il destino del suo viaggio è Polifemo il guercio.

Ma in cosa consiste questa «fascinazione»? dov’è che u guagliuncielle vede «fascino», se non nell’Adulto? dove se non nella «percezione dello stadio a cui è già arrivata un’altra esperienza» di viaggio su quella stessa via? Lo affascinano le orme, le impronte lasciate sulla via, le tracce che altre Volpi hanno tracciato prima di lui. Sono là, gli vengono addosso, vengono dal mare le Forme dell’immaginazione umana, e i Personaggi del suo Teatro.
L’affascina «recitare una citazione», reinterpretare l’Esemplare, il Modello.

In quanto a quel «pezzo di legno» che si dava tante arie da burattino, lo sappiamo, ad affascinarlo è la Fata Turchina: sarà lei a tracciargli la via all’Umano. Per l’intanto, lui se la fa col Gatto e la Volpe.
I quali Gatto e Volpe non sono che due loschi compari, a vederli dalla sala. Forse a noi di qua non giunge che una rara eco dei loro continui bisticci, là, sul palcoscenico, dove si contendono in continuazione gli zecchini di Pinocchio, il desiderio di uno stesso «oggetto» a cui anelano entrambi. E se pure in apparenza si accaniscono a circuire lui, Pinocchio, se almeno in questo punto di «convergenza del loro desiderio» sono l’uno in simpatia con l’altro, c’è però tra loro, ineliminabile, una «gelosia»: o io, o tu. Perciò, se surreal-tensionenon si chiariscono tra loro, se non s’informano delle loro intenzioni, finiranno per «distruggersi», proprio là, «sul punto di convergenza del loro desiderio». Si litigheranno i cinque zecchini, prima ancora d’averli scippati all’idiota.

Solo un Terzo può mettere pace tra loro – solo Pinocchio può essere la loro «salvezza». Finché saranno solo loro due a tirare i nervi, ora di qua ora di là, lo zoppo, la Volpe, u guagliuncielle, non troverà uno sbocco alla loro tensione. Nelle sequenze immaginarie (… e …) non c’è spazio che per la sola copula che le tiene assieme. Lo sbocco non è né dalla parte del Gatto, né da quella della Volpe. Lo sbocco è nello spazio simbolico. È passando per la porta del Simbolo che si va al Paese degli scambi (perfino dei lutti in gioie, per non dire della morte in vita).

La «salvezza» del Gatto e della Volpe è rimessa nelle mani di Pinocchio. Se lo sapesse, Pinocchio sarebbe già, in anticipo sui tempi, uomo.
Ma, domandiamoci appresso al Dottore, chi è il loro Pinocchio? chi l’idiota a cui vogliono sottrarre il tesoro?
Il Dottore dice: è l’inconscio, non può essere che l’inconscio se, allo stadio a cui la metafora ci rinvia, la Volpe, anche se camminasse già sulle sue zampe, non avrebbe comunque niente da dire. Sta lì per «rubare», non per «dire» qualcosa a proposito dei suoi «furti» (dicesi silenzio ermetico).

L’Anima che viene dal mare – non è fatta solo di onde che schiumano a colpo d’occhio. Non ci inganna solo coi colori dell’arcobaleno. Ci strega e ci affascina anche l’odore della salsedine. Perché il mare è diventato salato: ecco perché la Volpe punta sull’Astuzia per procurarsi un po’ di miele.
L’Anima non è solo Coscienza, ma anche inconscio. Non è solo memoria del «detto», ma anche del «taciuto». E questo «taciuto» è più profondo, più intimo all’Anima. È, direbbe Kierkegaard, il silenzio della sua disperazione che lo stesso ci parla – a uno per uno, parla a ogni guagliuncielle.