Bororo – L’origine del nome delle stelle

Un indigeno, accompagnato dal figlioletto, era a caccia nella foresta quando scorse nel fiume una pericolosa razza uncinata. Non indugiò a ucciderla. Il bambino aveva fame e pregò il padre di farla cuocere. Questi acconsentì di mala grazia, poiché avrebbe preferito continuare la sua pesca.bimbo-piange
Accese un piccolo fuoco e, non appena ci fu un po’ di brace, vi mise sopra il pesce dopo averlo avvolto in alcune foglie. Poi tornò al fiume, lasciando il bambino vicino al fuoco.

Dopo pochissimo tempo, il bambino credette che il pesce fosse cotto e chiamò il padre. Da lontano, questi lo esortò ad avere pazienza, ma poiché il bambino insisteva, il padre, seccato, tornò, tolse il pesce dal fuoco, l’ispezionò e, constatato che non era cotto, lo gettò in faccia al figlio e se ne andò.

Bruciato e accecato dalle ceneri, il bambino si mise a piangere e, cosa strana, grida e rumori gli facevano eco nella foresta.
Il padre, terrorizzato, fuggì; piangendo più di prima il ragazzino agguantò un germoglio di bokaddi, che chiamò «nonno» e che supplicò di crescere e di portarlo in alto con lui. L’albero crebbe subito, mentre ai suoi piedi si udiva un terribile baccano.

Erano gli Spiriti /kogae/ che non si allontanavano mai dall’albero, nei cui rami si trovava ora il bambino. Di notte questi osservò dal suo rifugio che, ogniqualvolta sorgeva una stella o una costellazione, gli Spiriti la salutavano per nome ricorrendo a un linguaggio fischiato. Il bambino ebbe cura di tenere a mente tutti questi nomi che allora erano sconosciuti.
Approfittando di un momento di distrazione degli Spiriti, egli pregò l’albero di decrescere: non appena poté saltare a terra, fuggì. È da lui che gli uomini appresero il nome delle costellazioni.

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Sul piano acustico, il linguaggio fischiato gode della stessa ambiguità che nella mitologia Bororo caratterizza sul piano olfattivo la lordura e il fetore: il linguaggio fischiato appartiene a spiriti che generano un baccano terrificante; eppure, benché sia più vicino surreal-fischioal rumore che alla parola articolata, impartisce un’informazione che questa parola sarebbe incapace di trasmettere poiché, all’epoca del mito, gli uomini non conoscevano i nomi delle stelle e delle costellazioni. Il linguaggio fischiato è dunque qualcosa di più e di meglio di un linguaggio [verbale]. […]

Secondo i Bororo, per mezzo del linguaggio fischiato, l’uomo poteva parlare alle piante in un’epoca in cui queste erano esseri personali, capaci di comprendere tali messaggi e di crescere spontaneamente. Attualmente però questa comunicazione è interrotta, o piuttosto si perpetua attraverso una divinità agricola che parla agli uomini e alla quale gli uomini rispondono bene o male. Il dialogo si stabilisce quindi fra il dio e gli uomini, le piante non ne sono più se non l’occasione.

Tra i Machiguenga peruviani è il contrario. Figlie del dio, quindi esseri personali, le piante dialogano col padre. Gli uomini non dispongono di nessun mezzo per afferrare questi messaggi, ma, poiché è di loro che si parla, essi ne sono pur sempre l’occasione.
Tuttavia, la possibilità teorica di un dialogo diretto esisteva nei tempi mitici, ma a quell’epoca le piante erano persone solo per metà, dotate di linguaggio benché afflitte da una elocuzione difettosa che impediva loro di impiegare quel linguaggio per la comunicazione.

Integrati l’uno con l’altro, i miti Bororo e Machiguenga restituiscono quindi un sistema globale dotato di vari assi. I Salesiani indicano che il linguaggio fischiato dei Bororo assolve a due funzioni principali: assicurare la comunicazione fra interlocutori troppo lontani perché possano condurre una conversazione normale; oppure eliminare ascoltatori indiscreti, che capiscono la lingua Bororo ma non sono al corrente degli arcani del linguaggio fischiato. Quest’ultimo offre quindi alla comunicazione delle possibilità più ampie e al tempo stesso più limitate. Superlinguaggio per gli interlocutori diretti, è un infralinguaggio per i terzi.

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Il linguaggio parlato delle piante possiede caratteri esattamente opposti. Rivolto a quell’interlocutore diretto che è l’uomo, è un farfugliamento incomprensibile, mentre il linguaggio chiaro taglia fuori l’uomo. Egli non lo percepisce, benché vi si parli solo di lui.
Linguaggio fischiato e parole indistinte formano quindi una coppia di opposizioni.
Secondo i Bororo, il dio parla (chiaro) con gli uomini a proposito delle piante, e gli uomini parlano alle piante con il linguaggio fischiato (superlinguaggio).
Secondo i Machiguenga invece, il dio parla (chiaro) con le piante a proposito degli uomini, e le piante parlano agli uomini con una elocuzione confusa (sotto-linguaggio).

(Lévi-Strauss, Dal miele alle ceneri)

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Il fischio è, a occhio e croce, a mezza via tra il rumore (naturale) e la parola (culturale). Più prossimo, da un lato, al rumore e dunque ancora allo stato di infralinguaggio, dall’altro tuttavia permette una comunicazione laddove la parola chiara e articolata del linguaggio verbale è invece impedita (ad es., tra interlocutori troppo distanti tra loro) o al contrario troppo diffusa (quando raggiunge ascoltatori che dovrebbero essere tenuti all’oscuro ed esclusi dalla comunicazione).
Il fischio è, quindi, insieme al di qua e al di là del linguaggio verbale. È, come il mito stesso ci spinge a dedurre, il linguaggio di «persone a metà», quali sono per es. le piante – albero-loquentele «nutrici» alimentari dell’uomo – ma anche i seduttori animali – i «nutritori» sessuali delle donne.

Gli uomini per parlare alle piante fischiano. Guai a chiamarle per nome: la nostra parola articolata è una lingua che le piante non comprendono. Perciò, è facile che prendano per ingiurie perfino le nostre parole più gentili.
È in fondo ciò che è successo secondo il mito: una volta infatti le piante crescevano spontaneamente, l’uomo non doveva sudare per nutrirsi dei loro frutti – e così fu fino al giorno in cui le piante non si sentirono «offese» dall’uomo, da Colui che era diventato per intero «persona», fino al punto di non parlare più la lingua comune a lui e alle piante: il linguaggio fischiato, appunto.

Da quel giorno si è interrotta la comunicazione diretta con le nostre Nutrici alimentari, con le nostre antiche Datrici di Miele – con la Donna Miele del nostro paradiso perduto. Si è interrotta dacché parliamo parole umane, parole articolate, nomi propri e nomi comuni – parole che vanno bene sì per parlare col dio o con gli dèi, e parlare casomai proprio di Lei, di Miele in persona, ma che hanno la potenza malefica di cacciare via di casa la nostra antica Benefattrice – la Seduttrice Vegetale, Colei che ci sedusse il gusto, il palato, quando ancora non parlavamo per mezzo di segni esclusivi della nostra Specie, quali sono le parole.

Anche per chiamare il Seduttore animale, Colui che mette incinte le nostre donne e assicura il perpetuarsi della Specie, è consigliato l’uso del linguaggio fischiato. Solo che in questo caso, se lo si chiama per nome, o battendo un bastone per terra, sull’acqua, sulla zucca, ecc. – non si produce lo stesso effetto di metterlo in fuga. Il Seduttore (il Malfattore, dice il mito) non se ne va, non si ritrae, non scompare – anzi, più gli dai da parlare, ora in questa ora in quell’altra lingua, e quello più si attacca.

La differenza dei due casi (Nutrice alimentare vegetale, Consumatore sessuale animale) ci dice questo: che il Seduttore Animale – perlopiù un tapiro, ma talvolta anche un giaguaro, un serpente, un caimano (nel Nordamerica un orso) – risponde a ogni sorta di richiamo, in quanto la sua capacità d’intendere (e di volere) copre tutto il campo della ragazza-albero-parlanocomunicazione: dal rumore, dal colpo battuto su un tronco, sull’acqua o su una ciotola di zucca, da questi elementari primitivi «segnali» dell’infralinguaggio, fino alle parole articolate del linguaggio verbale, ai segni propri della Cultura Umana, e ancora più su, fino al superlinguaggio fischiato.

Viceversa, la Seduttrice Alimentare appare non chiamata, si presenta per così dire spontaneamente, di sua iniziativa, all’uomo – dono di grazia che la Natura gli accorda una tantum. Una sola congiunzione, nient’altro che una copula (… e …) gli concede. Dopo, la si può solo perdere – e assieme a lei perdere tutto il paradiso del nostro linguaggio immaginario.
Dopo, si tratta solo di capire come fare a trattenerla, ovvero cosa non fare per evitare di disgiungersi da lei. Non c’è lingua che possa richiamarla in vita. Quando la Fata se ne va, è la Favola stessa a sentirsi in colpa. Tutto ciò che ha costruito su di lei, crolla nella sua propria contraddizione linguistica: la Favola sa che l’ha persa dacché ne parla. E forse sa anche che, più ne affida la cerca alle parole, e più da sé la allontana.

Oh, sapesse il Narratore fischiare! sarebbe tutta un’altra cosa. Non servirebbe certo a re-instaurare la «felice» congiunzione di quella sola volta là. Quella congiunzione fu «gratuita», non sudata, e soprattutto non nominata in nessun linguaggio.
E dunque: il fischio che dovrebbe saper fischiare, non è quello che lo farebbe regredire tout court nell’infralinguaggio perduto (diciamo, per intenderci, alla maniera dada – a distruggere la fondatezza delle parole), ma quello che lo eleva all’empireo del linguaggio – non al di sotto, ma al di sopra della parola articolata, al di là del Canto, quando cioè la Parola incantata ha già parlato della sua Incantatrice, ha già per così dire compiuta tutta la sua missione, attraversati tutti i cieli della sua illusione canora, per consegnarsi alla Musica.

Eccola qua, l’ambiguità del linguaggio fischiato.
Il fischio non sta solo tra il rumore e la parola articolata, non è prigioniero di questa posizione arcaica, ma sta anche tra la parola articolata e la musica, aperto cioè a nuovi orizzonti linguistici, che la Parola, perfino la Parola poetica, la Parola cantata, non può esplorare.
Perché le parole, i nomi, i segni, creano «discontinuità» e «differenze», che poi sono impotenti a ricucire: strappi che non possono rimarginare, ferite a cui non possono trovare rimedio. Il fischio invece, in quanto abbozzo di linguaggio musicale, e poi la musica stessa, essi sì che possono rivedere – sia pure solo metaforicamente – quegli orizzonti del Continuo di cui, nel linguaggio acerbo dell’infanzia, si faceva garante Lei, la Copula (… e …), la Fata, Cenerentola tra le due «sorellastre».