«Dove sono le mie scarpe?».
Chi era che ha chiamato: «Sohrab?».
Era familiare la voce, come l’aria col corpo della foglia.
Mia madre dorme.
E così anche Manuchehr e Parvane, e forse tutta la gente della città.
Questa notte di Giugno con la calma di un’elegia passa sopra i minuti
e una fresca brezza, dai verdi margini della coperta, mi spazza via il sonno.
Si sente l’odore della migrazione:
il mio cuscino è colmo del canto delle ali di rondini.
Sarà mattino
e a questa ciotola d’acqua
il cielo migrerà.
Stanotte devo partire.
Io che dalle finestre più aperte ho parlato con la gente di qua
non ho sentito proferire parola sulla materia del tempo.
Nessun occhio appassionatamente fissava la terra.
Nel vedere un giardino nessuno era rapito.
Nessuno ha preso sul serio una cornacchia sopra un campo.
Il mio cuore come una nuvola si contrae
quando dalla finestra vedo che Urì,
la figlia adolescente del vicino,
ai piedi del più raro olmo della terra
studia teologia.
Vi sono cose, istanti colmi di pienezza
(per esempio ho veduto una poetessa
così annientata nella contemplazione dello spazio che nei suoi occhi
il cielo deponeva l’uovo.
E una notte di quelle
un uomo mi chiese
fino allo spuntare dell’uva, quante ore abbiamo?)
Stanotte devo partire.
Stanotte devo prendere la valigia
spaziosa quanto la veste della mia solitudine
e andare verso una direzione
in cui sono visibili epici alberi
dinanzi a quella vastità senza parola che perennemente mi chiama.
Una voce ancora ha chiamato: «Sohrab!
dove sono le mie scarpe?».
(Sohrâb Sepehri, Volume verde)