Follie. Il nostro capocomico è un tipo strambo. Dice che, per connetterci all’Anima, basta un’immagine. E se stasera ci ha qui radunati, è perché, dice, prima di salire sul palco, vuole che afferriamo lo spirito di ciò che andiamo a danzare. Dice che i versi di Parmenide, in tanto possono e devono essere danzati, in quanto non sono che un inno alla Spiritosa: all’Immagine cioè che lo introdusse nello Spirito Umano. Dice che è lei la Bella Addormentata nel bosco, dice che è la Dimenticata. E che, a noialtri, non rimane che danzare il nostro proprio Oblio, per rifare a ritroso il viaggio immaginario del Poeta.
Siamo perplessi.
Ma lui insiste: un due tre … un due tre … e, voilà, quando si alza il sipario, vuole che quattro di noi (già, mi scordavo di dire che noi della Compagnia siamo tutte femmine) danzino le ruote del Carro. Perché è un viaggio, insiste a ripetere: è un viaggio in carrozza che andiamo a danzare. E sulla carrozza c’è lui, nu guagliuncielle, entusiasta.
La Carrozza viene dal mare: sono le onde, le «cavalle» a portare il viandante a spasso. Alcune di noi (quelle con le lunghe criniere) danzeranno dunque, su e giù, le onde del suo «entusiasmo» fino a spingere la Carrozza sulla spiaggia.
Ti ricordi del delfino di Arione? e della conchiglia di Venere?
Sono tutti «veicoli» della connessione all’Anima. E ciò che «veicolano» è l’immagine che a caso il viandante scorge sulla schiuma dell’onda. Quello è il suo «dono». Il «dono» che più si confà al suo spirito. È il Miraggio in cui il viandante, nu guagliuncielle, ha il precoce presentimento della «felicità» nel cui cuore più volentieri si addormenterebbe la sua inquietudine. Ci intravede la «vita» nelle cui occupazioni più facilmente si scioglierebbe il nodo della sua disperazione. E la vede «danzare», su e giù tra le onde. E la «insegue», fin dove ha l’ardire d’inseguirla.
C’è però che nu guagliuncielle non lo sa. Non lo può sapere. A tirarlo fuori dall’Oblio e dall’Incoscienza, a farlo venire in superficie, è l’Eterno Femminile.
Ogni cosa che passa
è solo una figura.
Quello che è inattingibile
qui diviene evidenza.
Quello che è indicibile
qui si è adempiuto.
L’eterno Elemento Femminile
ci trae verso l’alto.
(Goethe, Faust: 12104-12111)
***
Tutto ciò che passa e «scorre via», è un flusso immaginario, un susseguirsi di figure e immagini che, accavallandosi l’una nell’altra, qua e là schiumano sull’Onda. E ogni flusso è un rivolo del Grande Fiume Celeste, Okéanos, Nilo o Gange che si chiami. Ogni figura è una figura di Anima, ogni immagine è Immaginazione a produrla. Nelle acque del suo vasto mare «scorre» l’eterna Fecondatrice: Afrodite.
Perciò dipende da quale via stai percorrendo.
Dipende: se vieni dalla filosofia, dalla logica o dalla geometria, non è lo stesso Parmenide che incontri. Ma se per caso vieni da una via fuori mano, se per es. vieni da un paese sconosciuto a tutte le scienze, e se come un segugio annusi solo le tracce «femmine» e tutte le altre, tutte quelle che nella polvere della via con esse si confondono, le lasci perdere – se nient’altro ti guida che ciò che per le femmine Amore «ti ditta dentro», nient’altro che l’ordine erotico che fu intimamente impartito alla tua curiosità analfabeta, se ti fidi ad andare solo là dove le femmine «fecondano», e se docile vai solo dove sono state amate e desiderate, seguite e inseguite, e se per caso domandi se c’è chi di esse serbi ancora notizie, che nelle sue parole conservi ancora la scia del loro profumo, può essere che lo stesso incontri Parmenide, ma è un altro Parmenide, è un Parmenide ignorante quello che scopri. Ignorante, e perciò curioso fino all’intrepido.
Scopri che geometria logica e filosofia, insomma che tutte le scienze a chi come a nu guagliuncielle di scienza nulla sa, in sembianze di donne appaiono. Chiedilo a Dante: ogni cielo – ti dirà – è una donna, e ogni donna è una mia scienza: trivio e quadrivio, tre donne intorno al cor mi son venute, e quattro ruote ha il carro che di donna in donna mi ha portato a spasso per i paesi di Anima.
Qualcuno l’ha già notato: tutto il poema di Parmenide, dal principio alla fine, è una sequenza di sole presenze femminili. Dalle cavalle alla dea della soglia, passando per le fanciulle che guidano il suo carro, Parmenide ci ha lasciato una sorta di alfabeto di cui ogni lettera fa le veci d’una donna, e ogni donna custodisce le chiavi di una sapienza inaccessibile al maschio – a meno che il maschio non «rapisca» al suo proprio ermafroditismo infantile una qualche metafora per farsene un’idea.
Tu si’ guaglione, tu nun canusc’e femmene – diceva la canzone. Diceva che essere cullati dalle donne, essere allattati dalle donne, essere ammaestrati dalle donne – per poi perdere, assieme all’ermafroditismo, anche i loro insegnamenti – diceva che è questo, ahimé, il destino di ogni cucciolo maschio.
Forse.
Il viaggio è di là, è dal mare, «a venire a conoscere le femmine», a ricostruire cioè le «scienze» perdute per strada, a ripercorrere l’Inizio immaginale del nostro sapere e del nostro dire simbolico. A conoscere le femmine, non è che emergere alla Coscienza – tuffandosi nell’immagine con cui il Femminile Eterno ci seduce, e insieme ci rivolta sottosopra lo sguardo sul mondo. Perciò, là dove un tempo furono le Ondine, i Filosofi non vedono spuntare altro che le loro precarie «verità». Non le radici vedono, ma le piante che vi sono cresciute.
Anche il Filosofo, certo, s’interroga sugli «inizi», sull’arkhé del Viaggio, ma se diciamo che Parmenide è «poeta afrodisiaco», è proprio per dire che in lui la domanda «filosofica» è restituita al balbettio immaginario.
È la domanda i nu guagliuncielle, che filosofo non è, che non interroga, ma si trova lui a essere interrogato e messo alla prova dalle circostanze del suoi propri «inizi», e a percepire questa interrogazione, e a passare questa prova, «in modo iniziale»: ossia con la povertà di dottrina propria di chi nulla sa, e non già con la sapienza di un dottore nato cresciuto e pasciuto nelle arti, nelle lettere o nelle scienze.
La domanda è: se nu guagliuncielle non parla ancora le parole fondate su spazio e tempo, non ancora le parole che parlano tra ordinate e ascisse del dicere sociale, chi è che lo guida a parlarle? Quale movente lo mosse fin sulla soglia del Dicere Umano? Fu per caso un avverso destino che lo «sviò» dai sentieri del «già noto», del «già saputo», lontano dal «solito»? O da quella solitaria esperienza dell’Insolito, la sua misteriosa Guida l’avrebbe spinto fino al cospetto dei dottori del tempio?
La domanda, proviamo a girarla a Parmenide, e vediamo lui cosa risponde.
Domandiamogli: prima che iniziasse il mondo, puoi tu testimoniare qualcosa in proposito? Hai tu una credenza che sia credibile anche per noi che ad altri dèi crediamo? Per noi che siamo l’avvenire a cui narrasti la tua avventura? Per noi mille e mille e ancora mille anni da te distanti? Dicci, maestro: conosci tu un modo per mettere ordine nella babele delle credenze e delle dicerie umane? Un ordine che però non sia la Legge: quantomeno non una Legge che vieti di avventurarsi fin là dove ti sei avventurato tu?
Non so se più stizzito o se più compiaciuto, so però che il mio Parmenide mi risponderebbe: «Sissignori! ero nu guagliuncielle, poco più che bambino, e la mamma mi chiamò Ciro. Mi accolse nel suo mondo chiamandomi per nome: ώ κούρε. Mi chiamò insomma: anonimo figlio di Nessuno. Ciro non è forse il nome che a Napoli si dà agli orfanelli? E non è il nome anche di quel Re dei giochi che fece della Persia un impero? Rifletti: come Ciro il Grande, tutti i bambini sono orfanelli, e senza padre né madre devono trovare da soli la via che li porti sulla soglia del mondo umano. E là sulla soglia trovano ognuno la sua mamma, la sua immagine, e ognuno da quella sua mamma, dalla Mamma del suo Gioco, riceve il nome. Comprendi? – mi risponderebbe il mio Parmenide da Casalvelino – comprendi che vi è qui un’allusione a Matelda?».
***
Vediamo: nu guagliuncielle jeve ‘n carrozza… addò jeve nun ‘u sapeva, u guagliuncielle jeve addò a carrozza u purtava…
Heidegger dice: voglio avventurarmi più in là di Platone e di Aristotele, voglio esplorare il «pensiero iniziale», l’acerbo pensiero da cui è poi spuntata la nostra Europa – il «pensiero» pensato sì in lingua greca, ma prima che Platone e Aristotele vi gettassero sopra il velo della loro scrittura. Prima che la «parola filosofica» osasse scendere dal canto e dalla musica, per mettersi a legiferare in bocca ai Solone o ai Socrate. Prima che il pensiero del «bambino muto», come dice il Poeta, si rassegnasse a indossare l’abito del grillo. Prima di trovarsi prigioniero della prosa. Prigioniero delle spiegazioni. Prigioniero delle essenze e delle sostanze. Prigioniero, ahimé, di una lingua troppo adulta, troppo adulterata, per rendere onore alla «madrelingua» di tutte le lingue, all’Afrodite che schiuma sull’onda di ogni «immagine iniziale».
Parmenide canta – e quel che canta non è «filosofia».
Parmenide è un cantautore, non un filosofo. Egli non discute di sostanze, ma canta il suo «entusiasmo», la sua eccitazione, la sua smania, e di come questa sua smania non si perse nel mare magno delle emozioni, ma si sigillò in un ritmo, e questo ritmo si scandì in una sequenza – in quella «sequenza madre» che doveva generare tutte le sue canzoni a venire.
Se gli riesce perciò di cantare un’eco di quella sequenza, se tutte le canzoni che su quella sequenza ha soprascritto, ancora un’eco serbano della smania originaria – della smania per quell’Immagine da cui ogni sua credenza ebbe origine, allora forse torneranno a prendersi la scena dell’Inizio le nude Signore dell’onda: le Frequenze senza le quali non sarebbe possibile nessuna metrica.
Né arsi né tesi ci sarebbero, né levare né battere. Né sopra né sotto. Né «di qua» né «di là».
Tutto resterebbe avvolto in una Nube priva di segni. E l’inattingibile non sarebbe come invece paradossalmente è: Evidente. E nessuna Figura danzerebbe. Nessuna follia passerebbe per la mente del nostro capocomico. Non direbbe le scemenze che dice, se non lo «fecondasse» ancora alla sua età il Femminile.