Kierkegaard – La fortuna d’essere (stati) disperati

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Come il medico può certamente dire che forse non esiste un solo uomo che sia del tutto sano, così, se si conoscesse bene l’uomo, si dovrebbe dire che non vive un solo uomo che non sia un po’ disperato, che non porti in sé un’inquietudine, un turbamento, una disarmonia, un’angoscia di qualche cosa che egli non conosce o che non osa ancora conoscere, un’angoscia di una possibilità dell’esistenza o un’angoscia di se stesso, in modo che, come il medico parla di una malattia che cova nel corpo – così cova anche lui una malattia, cova e porta con sé una malattia dello spirito, la quale ogni tanto, a guisa di un lampo, mediante e insieme a un’angoscia incomprensibile per lui stesso, fa sentire che c’è dentro. […]

Questa considerazione sembrerà certamente a molti un paradosso, una esagerazione e, per di più, una concezione della vita cupa e deprimente. Ma nulla di tutto ciò.
Non è cupa, anzi essa cerca di portar luce in ciò che di solito si lascia stare in una certa oscurità; non è deprimente, anzi essa eleva perché considera l’uomo sotto la determinazione dell’esigenza più alta, cioè quella di essere spirito; e non è neanche un paradosso, anzi, è una concezione fondamentale della vita, sviluppata coerentemente; quindi non c’è alcuna esagerazione.

La considerazione comune della disperazione, invece, si ferma all’apparenza ed è perciò una considerazione superficiale, vale a dire non è alcuna considerazione. Essa suppone che ogni uomo sappia per suo conto se egli è o no disperato. Chi dice di essere disperato, donna-disperatasi ritiene disperato, ma chi crede di non esserlo non si ritiene tale.
Di conseguenza, la disperazione diventa un fenomeno piuttosto raro, mentre invece è un fenomeno del tutto generale. Il caso raro non è che uno sia disperato; no, è raro, rarissimo che uno per davvero non lo sia.

Ma la considerazione volgare s’intende molto poco della disperazione. Così, fra l’altro, le sfugge del tutto (ricordare soltanto questo fatto che, giustamente interpretato, permette di classificare migliaia e migliaia e milioni sotto la determinazione della disperazione), le sfugge del tutto che è proprio una forma di disperazione quella di non essere disperato, di non avere coscienza di esserlo.
Succede alla considerazione volgare – ma in un senso molto più profondo – quando si tratta di concepire la disperazione, quel che le succede talvolta quando vuole determinare se un uomo sia o no malato – ma in un senso molto più profondo; infatti, la considerazione volgare si intende ancora molto meno di ciò che è lo spirito (e senza questo non ci si può intendere neanche della disperazione) che di malattia e sanità.

Di solito si suppone che un uomo, se egli stesso non dice di essere malato, sia sano, tanto più se egli stesso dice di essere sano. Il medico, invece, giudica la malattia altrimenti. E perché?
Perché il medico ha un’idea determinata e ben sviluppata di ciò che vuol dire essere sano, secondo la quale esamina lo stato di un uomo. Il medico sa che, come esiste una malattia che non è altro che immaginazione, esiste pure una sanità immaginaria; perciò in quest’ultimo caso, egli adopera dapprima i mezzi per rendere manifesta la malattia.

In generale il medico, appunto perché è medico (cioè uno che è dotato d’intuizione), non ha fiducia assoluta in ciò che un uomo dice sul proprio stato di salute. Se ci si potesse assolutamente fidare di ciò che ogni uomo pensa del suo stato di salute, se è sano o malato, di che cosa soffre e via dicendo, sarebbe un’illusione fare il medico.
Perché un medico non ha soltanto da prescrivere le medicine, ma anzitutto e soprattutto deve fare la diagnosi della malattia, cioè accertarsi, in primo luogo, se il presunto malato è realmente malato o se il presunto sano è forse, in realtà, malato.

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Eguale è la situazione dello psicologo di fronte alla disperazione. Egli sa che cos’è la disperazione, egli la conosce e perciò non si accontenta delle affermazioni di un uomo, né quando dice di non essere disperato, né quando dice che lo è. Perché bisogna notare che in un certo senso non sono neanche sempre disperati coloro che dicono di esserlo. Si può affettare la disperazione o si può sbagliare scambiando la disperazione, che è una determinazione dello spirito, con vari stadi transitori di depressione, di laceramento, che poi passano senza portare l’uomo alla disperazione.
Lo psicologo, tuttavia, ritiene giustamente che anche queste siano forme di disperazione: egli vede benissimo che si tratta di affettazione – ma per l’appunto questa affettazione è la disperazione: egli vede benissimo che questa depressione, ecc., non ha grande importanza – ma proprio il fatto che essa non ha e non è capace di avere grande importanza, è disperazione.

Inoltre, alla considerazione volgare sfugge che la disperazione, in confronto a una malattia, è dialettica in un altro senso di ciò che di solito si chiama malattia, perché essa è una malattia dello spirito. E questo momento dialettico, giustamente interpretato, ci fa classificare di nuovo migliaia di uomini sotto la determinazione della disperazione. Perché se un medico, in un dato momento, si è assicurato che quel tale è sano, e costui in un altro momento diventa malato: allora il medico può aver ragione a dire che quella volta egli era sano, ora invece è malato.

Per la disperazione il caso è diverso. Appena si manifesta la disperazione, si fa evidente uomo-disperatoche l’uomo era già disperato. Perciò non si può in nessun momento decidere alcunché sullo stato di un uomo che non sia stato salvato per il fatto di essere stato disperato. Infatti, quando succede ciò che lo porta alla disperazione, si manifesta, nello stesso momento, che egli durante tutta la sua vita precedente è stato disperato.
In nessun modo, invece, si può dire quando a un uomo viene la febbre, che ora risulta che egli ha avuto la febbre durante tutta la sua vita. Al contrario, la disperazione, essendo una determinazione dello spirito, si rapporta all’eterno e perciò ha nella sua dialettica qualcosa di eterno.

La disperazione non è dialettica in senso diverso da una malattia; solo che, riguardo alla disperazione, tutte le caratteristiche sono dialettiche; perciò la considerazione volgare s’inganna così facilmente nel determinare se la disperazione c’è o non c’è.
Perché il non essere disperato può significare proprio essere disperato e, d’altra parte, può significare essere stato salvato dalla disperazione. Sicurezza e tranquillità possono significare essere disperato; proprio quella sicurezza, quella tranquillità può essere disperazione; ma possono significare anche aver superato la disperazione e ottenuto la pace.
Non è lo stesso essere disperato ed essere malato; perché il non essere malato non può di certo identificarsi con l’essere malato, mentre il non essere disperato può indicare proprio l’essere disperato. Nella disperazione non vale, come in una malattia, che il malessere sia la malattia. Per nulla. Il sentirsi male, a sua volta, è dialettico. Non aver mai sentito quel malessere, ecco cos’è essere disperato.

Questo vuole dire, ed ha la sua ragione in questo, che se l’uomo si considera come spirito (e se si deve parlare di disperazione bisogna considerare l’uomo sotto la determinazione dello spirito) il suo stato è sempre critico. Si parla di crisi rispetto a una malattia, ma non rispetto alla salute. E perché no?
Perché la salute fisica è una determinazione immediata che diventa dialettica soltanto nello stato di malattia, dove quindi si comincia a parlare di crisi. Ma nel campo dello spirito, ovvero quando l’uomo si considera come spirito, è critica tanto la salute quanto la malattia; non si dà una salute immediata dello spirito.

Appena non si considera l’uomo sotto la determinazione dello spirito (e in tal caso non si può neanche parlare di disperazione), ma soltanto come sintesi di anima e corpo, la salute è una determinazione immediata e soltanto la malattia dell’anima e del corpo è la determinazione dialettica.
Ma la disperazione consiste proprio in questo, che l’uomo non è consapevole di essere determinato come spirito. Persino quanto c’è, umanamente parlando, di più bello e di fanciulla-disperatapiù amabile, una giovinezza femminile che è pura luce, armonia, gioia: anche questa è disperazione.

È infatti felicità, ma la felicità non è una determinazione dello spirito; e nel più intimo dell’anima, nel nascondiglio più segreto della felicità, abita pure l’angoscia che è disperazione; essa cerca tanto di poter stare là dentro, perché questo è il luogo più caro alla disperazione, il luogo più ambito fra tutti per abitarci: nel cuore della felicità.
Ogni immediatezza, malgrado la sua illusoria sicurezza e quiete, è angoscia, e perciò, di conseguenza, è di solito angoscia di niente; la più orripilante descrizione delle cose più spaventose angoscia meno dell’immediatezza di un’allusione fatta volutamente senza darle importanza, ma con l’intenzione sicura e ben calcolata della riflessione intorno a qualche cosa d’indeterminato: anzi, l’immediatezza si angoscia di più quando le si insinua in maniera astuta che essa stessa sa bene di che cosa si parla.

Perché, di certo, l’immediatezza non lo sa, ma la riflessione non prende mai la sua preda così sicuramente come quando intreccia il suo laccio di niente; mai la riflessione è tanto se stessa quanto nel momento in cui è … nulla.
È necessaria una riflessione eminente o, per meglio dire, una grande fede per poter sopportare la riflessione del nulla, cioè la riflessione infinita.
E dunque: la cosa più bella e più amabile di tutte, una giovinezza femminile, è tuttavia disperazione, è felicità! Perciò non si riesce certamente neanche a passare la vita in questa immediatezza. E se pure le riesce di avere quella felicità, le serve a poco perché questa è disperazione.

Infatti la disperazione, appunto perché è del tutto dialettica, è la malattia di cui si può dire che è la peggior disgrazia non averla mai avuta, che è una vera fortuna di Dio il prenderla, anche se è la malattia più pericolosa quando non si vuol essere guariti.
In altre situazioni non si può dire che è una fortuna quando si guarisce da una malattia: la malattia stessa è la disgrazia.

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Perciò la considerazione volgare è mille miglia lontana dall’aver ragione quando crede che la disperazione sia un caso raro: invece è un caso comunissimo. La considerazione volgare è lontanissima dall’aver ragione quando suppone che chiunque non crede e non sente di essere disperato, non lo sia in realtà e che disperato sia soltanto chi dice di esserlo.
Al contrario, colui che senza affettazione dice di essere disperato è, in un senso dialettico, un po’ più vicino alla guarigione di tutti coloro che non sono ritenuti e non si ritengono essi stessi disperati. Ma proprio questo, come certamente lo psicologo mi confermerà, è il caso comune; cioè che gli uomini vivono senza diventare consapevoli di essere determinati come spirito – e da ciò deriva tutta quella sicurezza, quella contentezza della vita, ecc., ovvero ciò che è proprio disperazione.
Coloro invece che dicono di essere disperati, sono di solito o coloro che hanno una natura tanto più profonda da divenire consapevoli di essere spirito, o quelli che avvenimenti gravi o decisioni terribili hanno aiutato a divenire consapevoli di essere spirito – rientrano cioè nell’una o nell’altra categoria: perché certamente son molto rari coloro che in verità non sono disperati.

Ah, si parla tanto di pene e di miserie umane – io cerco di comprenderle, ne ho conosciuti anche diversi casi da vicino; si parla tanto di vite sprecate: ma sprecata è soltanto la vita di quell’uomo che così la lasciava passare, ingannato dalle gioie della vita e dalle sue preoccupazioni, in modo che non diventò mai, con una decisione eterna, uomo-disperato-paintconsapevole di se stesso come spirito, come «io», oppure – ed è lo stesso – perché mai si rese conto, perché non ebbe mai, nel senso più profondo, l’impressione che esiste un Dio e che «egli», proprio lui, il suo io, sta davanti a questo Dio: questa conquista dell’infinità che non si raggiunge se non attraverso la disperazione.

Ahimé, e poi quella miseria che tanti passano la vita così, defraudati del pensiero più beato; quella miseria per cui la gente si occupa o sfrutta le forze altrui nello spettacolo della vita senza però mai ricordare loro questa felicità; li ammassa – per ingannarli – invece di disperderli, affinché ogni singolo individuo possa ottenere il bene più alto, l’unico per cui vale la pena di vivere e l’unico degno dell’eternità: mi sembra di poter piangere per un’eternità, al pensiero che esiste questa miseria!
Ah, e se poi si presenta al mio pensiero un altro aspetto orrendo di questa malattia e miseria, la più terribile di tutte: la sua segretezza, non solo col fatto che chi ne soffra possa desiderare di nasconderla e possa anche riuscirci, che essa possa abitare in un uomo in modo che nessuno la scopra, nessuno – no, che possa essere talmente nascosta in un uomo che egli stesso non ne sappia niente!

Ah, e quando una volta l’orologio si è fermato, l’orologio della temporalità; quando il chiasso del mondo si è placato e l’affaccendarsi instancabile e vano è finito; quando tutto è tranquillo intorno a te come nell’eternità; sia tu stato uomo o donna, ricco o povero, dipendente o indipendente, felice o infelice; sia che tu abbia portato in altezza lo splendore della corona o in povertà e oscurità soltanto la fatica e l’arsura del giorno, sia che il tuo nome si ricorderà finché dura il mondo e sia stato ricordato da che durava; o che tu, senza nome, un ignoto qualunque, sia passato tra la folla innumerevole; sia che la gloria che ti circondava abbia superato ogni immaginazione umana o che ti abbia colpito il più severo e più disonorevole giudizio umano: l’eternità chiede a te, e a ognuno di questi milioni e milioni, una sola cosa: chiede se tu hai vissuto disperato o no, se disperato in modo da non sapere di essere disperato o in modo da portare questa malattia nascosta nel tuo intimo, come un segreto che ti rodeva, come il frutto di un amore peccaminoso sotto il tuo cuore, o in modo che tu, con orrore degli altri, smaniavi per disperazione.
E se era così, se tu hai vissuto disperato, qualunque cosa poi, per il resto, tu abbia ottenuto o perduto, per te tutto è perduto. L’eternità non ti riconosce, non ti conoscerà mai; eppure, più terribilmente, essa ti conosce come sei conosciuto, essa ti rinchiude col tuo io nella disperazione!

(Kierkegaard, La malattia mortale)