Il tempo ci è già da sempre in qualche modo noto, vale a dire che noi fin dal principio stiamo in un rapporto col tempo, in cui propriamente non badiamo né al tempo in quanto tale, né al rapporto con esso in quanto tale. […]
In tutta la riflessione antica sul tempo, sia pur diversamente accentuata, viene sempre menzionata la co-appartenenza di essenza umana e tempo: «anima» e tempo, «spirito» e tempo – si appartengono.
Così, per esempio, già Aristotele dice: «È degno di riguardo il modo in cui il tempo si rapporta all’anima» (Fisica, IV, 14: 223a).
Se l’anima non fosse in grado di percepire il tempo, di contarlo (vale a dire, nel senso più ampio: di dire qualcosa di esso), sarebbe allora impossibile che il tempo fosse, se l’anima non fosse. Detto in breve, questo significa che, se non ci fosse l’anima, non ci sarebbe il tempo.
Anima (Seele) è qui da intendere come l’essere peculiare e portante (entelechia) dell’essenza umana, non nel senso moderno di io-soggetto e io-coscienza. Piuttosto, per il pensiero greco, il carattere peculiare dell’uomo è il percepire e dire, e quindi fondamentalmente sempre lo svelare [l’Altro, o all’Altro] che non può essere rappresentato come un processo «immanente al soggetto». In Agostino leggiamo: «In Te, mio spirito, io misuro i tempi» (Confessioni, 11: 27).
Da ambedue le testimonianze possiamo comunque desumere che il rapporto col tempo sia un contare e misurare, un tenere conto del tempo. Questo stato di fatto di una co-appartenenza di tempo ed essenza umana si esprime anche nella maniera di pensare moderna, nel modo in cui viene impostato il problema del tempo, cioè sotto i titoli: senso del tempo, esperienza-vissuta del tempo, coscienza del tempo […].
In tutte le determinazioni temporali quantitative, compiute con l’ausilio della lettura dell’orologio, ci è dato solo il quanto tempo. Questo misurare il tempo, tuttavia, è possibile solo se già ci è dato qualcosa come il tempo, se noi già abbiamo il tempo. La misurazione del tempo presuppone costantemente l’«avere il tempo». Ma che cosa significhi «avere il tempo», resta ancora oscuro.
Nei rapporti quotidiani col tempo non vi badiamo, tanto meno vi ci riflettiamo sopra, propriamente. Invece, ci è noto un rapporto col tempo, che noi nominiamo nella locuzione «avere tempo». In che senso è inteso il tempo, quando dico: «ho tempo», oppure: «non ho tempo»?
Si procede nel modo migliore partendo dall’asserzione: «non ho tempo». Giacché qui salta agli occhi in modo particolarmente chiaro che in queste locuzioni il tempo è già sempre inteso come «tempo per qualcosa».
Com’è da intendere questo carattere, che io nomino nel «per» in quanto carattere del tempo? questo «per» viene ad aggiungersi al tempo, o nel «per» nomino propriamente qualcosa che è proprio del tempo?
Anche se dico «domani», non dico questo «domani» semplicemente come un vuoto «domani», bensì sempre come un «domani» per ciò che «domani» farò o che «domani» accadrà. Anche se il «per che cosa» è tuttora tanto indeterminato, al tempo appartiene questo rinviare a, questo accennare a un fare o a un accadere.
Perciò chiamiamo questo carattere del tempo, cioè quello per cui esso è sempre tempo per qualcosa, il carattere della accennatività. […]
Da questa caratteristica temporale del «per», della accennatività, che per noi è percepibile nell’«avere tempo», si deve distinguere un altro carattere del tempo. Percepiamo quest’ulteriore carattere, se diciamo: «ora mentre parliamo l’un con l’altro», o «allora, quando Kennedy fu assassinato», o «poi, allorché verrà martedì grasso».
Questo secondo carattere del tempo, lo chiamiamo l’«esser-datato» del tempo. Qui non s’intende meramente una data nel senso della data del calendario. Si tratta qui di una datazione più originaria, sulla quale soltanto è poi fondato il datare dei calendari. L’«esser-datato» del tempo, in certe circostanze, può essere del tutto indeterminato – nondimeno, l’esser-datato del tempo appartiene necessariamente al tempo. […]
La questione è di sapere se il tempo dell’orologio sia, per rango, primo, e quest’altro, il tempo datato e accennativo, qualcosa di derivato, o se la cosa stia viceversa, posto che in generale si tratti di due «tempi» diversi. Non siamo sufficientemente preparati per porre in modo soddisfacente questo problema e rispondervi.
In ogni caso, si può già congetturare che, per esempio, il rapporto disturbato col tempo, della persona malata psichicamente, si potrà comprendere solo a partire dal rapportarsi originario, naturalmente percepito, costantemente accennativo e datato, dell’uomo al tempo, ma non in riferimento al tempo calcolato, che deriva da una rappresentazione del tempo in quanto sequenza di istanti in sé vuoti e «senza carattere».
Ora, dopo che abbiamo indicato l’«avere tempo» riguardo ad alcuni caratteri, si può porre la questione: sul fondamento di che cosa sia possibile questo «avere tempo» dell’uomo.
La dr.ssa B. domandava: «possiamo avere tempo solo proprio perché noi, in quanto uomini, siamo nel tempo?». In altri termini: è dunque il nostro «essere nel tempo» che fonda il nostro avere tempo? ma che cosa significa: essere nel tempo?
Questo «essere nel tempo» è per noi qualcosa del tutto familiare a partire dal modo di rappresentare scientifico-naturale. Nelle scienze della natura, tutti i processi della natura vengono calcolati in quanto processi procedenti «nel tempo». Soltanto, anche il rappresentare quotidiano trova già accadimenti e cose che durano «nel tempo». Quando parliamo di un «essere nel tempo», tutto dipende però dall’interpretazione del «nel».
Per vedere qui più chiaramente, domandiamoci semplicemente: «il bicchiere davanti a me sul tavolo è nel tempo o no?».
Il bicchiere è in ogni caso già semplicemente presente e resta semplicemente presente anche se non lo guardo. È qui indifferente da quanto tempo esso già vi sia e se permanga ancora. Se, però, esso è già semplicemente presente e permarrà in futuro semplicemente presente, ciò significa che dura per un tempo, dunque che dura «in» esso. Manifestamente, ogni durare ha a che fare col tempo.
Domanda: con questo rinvio al durare, abbiamo già sufficientemente determinato l’«essere nel tempo» del bicchiere? Questa domanda conduce a quella non meno importante: l’«essere nel tempo» del bicchiere è identico all’«essere nel tempo» dell’uomo esistente?
(Heidegger, Seminari di Zollikon)
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Noi siamo fin dalla nascita in un rapporto col tempo. Non c’è bisogno di imparare a leggere l’orologio per essere in rapporto col tempo. Con questa differenza però: che «in principio» si tratta di un rapporto immediato, diretto, che ci vede stretti nell’abbraccio del tempo senza passare per la «mediazione» (culturale) di un orologio. Se il tempo a cui «in principio» (nella Stagione immaginaria, nell’Epoca ermetica del nostro linguaggio, nell’Età d’oro senza segni né parole) ci si rapporta senza l’ausilio di un cronometro, è Miele – e se è miele anche il tempo misurato, il tempo «segnato» dall’orologio, non è però lo stesso Miele di allora, perché la Co-scienza ne ha stravolto il sapore.
Anima – fa notare Heidegger – è sì Soggetto, sì Coscienza – ma non io!
L’abbiamo già sentito dire a Lacan: la Coscienza è un Soggetto, ma guai a schiacciare tout court questo Soggetto nell’angustia di un Io.
Gli uomini, i portatori incalliti di «io», possono pure scomparire, dice Lacan: finché ci sarà uno strumento di registrazione, tutto il tempo che durerà la loro scomparsa verrà lo stesso «messo a verbale», e il giorno in cui gli uomini torneranno, e daccapo ricominceranno da un rapporto incosciente col tempo, ci penserà Anima a ri-metterli «al passo coi tempi».
Prima che essi imparino a leggere qualunque alfabeto, la Coscienza è là – che li attende al varco. Non è una qualunque entità o potenza cosmica che smania dalla voglia d’incatenarli ai suoi diktat. È eterna. E per questo, ma non solo, il nome che solitamente più le si confà, è dio. È la Parola di cui, non a caso, Giovanni «in principio» del suo vangelo dice che è, insieme, dio e presso dio.
È Okéanos, il «padre di tutti gli dèi», è Lui, così dicevano una volta gli orfici, che si misura col Tempo. È Lui che ne serba a mente i «rimandi», che ne accoglie i «cenni» e le «aspettative». È Lui che, a differenza del bicchiere sul tavolo, non è semplicemente presente nel tempo, ma vi è coscientemente presente, e perciò «registra» i fatti e le cose.
Ed ecco, siamo al punto che ci riguarda: in questo Lui coesistono Ermes e Apollo, Coyote e Tacchino – e cioè il modo incosciente furtivo immaginifico, in una parola: infantile, di stare in rapporto col tempo, e il modo cosciente illuminato simbolico di ogni metrica adulta.
Certo, si fa presto a dire che Ermes, oggi, è malmesso e ha «un rapporto disturbato col tempo». Poveraccio! È stonato e farebbe una figuraccia, se si mettesse a suonare la lira che pure, proprio lui, ha inventato!
Vedi quanta gente corre in piazza ad applaudire Apollo, il Mago dei Segni e delle Note! E quant’è bello! quant’è luminoso il suo sguardo! Nei suoi occhi brilla il mezzogiorno della Coscienza.
E intanto, Ermes, il «disturbato», che col tempo continua a pazziare senza farci caso, in piazza non ci viene mai. Se ancora non l’hanno rinchiuso, se ancora non sono riusciti, non del tutto, a sedarlo, è probabile che la notte continui ad aggirarsi per i vicoli ciechi di Anima.