Calvino – La penna di hu

Dominguez-piuma

Un Re divenne cieco. I dottori non sapevano farlo guarire. Finalmente, uno disse che l’unico rimedio per ridare la vista agli occhi ciechi era una penna di hu.
Il Re aveva tre figli; li chiamò e disse: «Figli miei, mi volete bene?».
«Come alla nostra stessa vita, padre», dissero i figli.
«Allora dovete procurarmi una penna di hu perché io riabbia la vista. Chi di voi me la porterà, avrà il mio Regno».

I figli partirono. Due erano più grandi, uno piccino. Il piccino non volevano neppure farlo venire: ma lui tanto disse e tanto fece che dovettero prenderlo con loro.
Passarono in un bosco e venne notte. S’arrampicarono tutti e tre su un albero e s’addormentarono tra i rami. Il più piccolo fu il primo a svegliarsi. Era l’alba, e sentì il canto dello hu in mezzo al bosco. Allora scese dall’albero e seguì il canto.
Trovò una fonte d’acqua limpida, e si chinò per bere. Alzandosi, vide una penna cadere dal cielo. Levò lo sguardo e in cielo vide l’uccello hu che volava.

Quando i fratelli videro che il più piccino aveva preso la penna di hu si riempirono d’invidia, perché sarebbe stato lui a ereditare il Regno. Allora, senza starci a pensare su, Tsank-flautouno dei fratelli l’afferrò, l’altro l’uccise e insieme lo sotterrarono e si presero la penna.
Tornati dal loro padre, gli diedero la penna di hu. Il Re se la passò sugli occhi e gli tornò la vista. Appena gli tornò la vista, disse: «E il più piccino?».
«Oh, papà, sapeste! Dormivamo nel bosco, e passò un animale. Deve esserselo preso, perché non l’abbiamo più visto».

Intanto, nel punto dove il più piccino era stato seppellito, dalla terra venne su una bella canna. Passò di là un pecoraio, vide la canna e disse: «Guarda che bella canna! Voglio tagliarla per farmene uno zufolo».
Così fece, e quando cominciò a soffiare nella canna, la canna cantava:

O pecoraio che in man mi tenete,
sonate piano che il cor m’affliggete.
M’hanno ammazzato per la penna di hu,
traditore il fratello mio fu.

Il pecoraio, sentendo questo canto, si disse: «Ora che ho questo zufolo, posso lasciar perdere le pecore! Vado a girare il mondo e mi guadagno da vivere suonando!».
Così, lasciò il suo gregge, e andò alla città di Napoli. Suonava lo zufolo e il Re s’affacciò alla finestra e si mise a sentire. Disse: «Oh, che bella musica! Fate salire quel pecoraio!».
Il pecoraio salì a suonare nelle stanze del Re. Il Re disse: «Fammi suonare un po’ a me».
Il pecoraio gli diede lo zufolo, il Re si mise a suonare, e lo zufolo faceva:

O padre mio che in man mi tenete,
sonate piano che il cor m’affliggete.
M’hanno ammazzato per la penna di hu,
traditore il fratello mio fu.

«Oh – disse il Re alla Regina – senti cosa dice questo zufolo. Tieni, suonalo un po’ tu».
La Regina prese a suonare lo zufolo e lo zufolo diceva:

O madre mia che in man mi tenete …

e così via.
La Regina restò anche lei stupefatta e pregò il figlio mezzano di suonare anche lui. Il figlio cominciò a stringersi nelle spalle, a dire che erano tutte sciocchezze, ma alla fine dovette obbedire, e appena soffiò nello zufolo questo cantò:

O fratel mio che afferrato mi avete …

e non andò più avanti perché il fratello mezzano aveva preso a tremare come una foglia, e aveva passato lo zufolo al fratello maggiore, dicendo: «Suona tu! Suona tu!».
Ma il fratello maggiore non voleva suonare, diceva: «Siete diventati tutti matti con questo zufolo!».
«Ti ordino di suonare», gridò il Re.
Allora il maggiore, pallido come un morto, cominciò a suonare:

O fratel mio che ammazzato mi avete,
sonate piano che il cor m’affliggete.
M’avete ucciso per la penna di hu,
il traditore mio fosti tu.

Il padre, a sentir queste parole, cadde in terra dal dolore, e gridò: «Oh, figli sciagurati, per prendere la penna di hu avete ammazzato il mio bambino!».
I due fratelli furono bruciati sulla piazza. Il pecoraio fu nominato capitano delle guardie. E il Re finì i suoi giorni chiuso nel palazzo, suonando tristemente nello zufolo.

(Calvino, Fiabe italiane: 180)

***

Blanchard-Tobia-cura-padre-cieco

«Una delle fiabe più patetiche e tristi», così la definisce lo stesso Calvino.
La si ritrova sparsa in tutta Europa, sempre carica della stessa malinconica nenia: il più giovane, il più piccino, l’acerbo è stato proditoriamente «sacrificato» all’invidia dei suoi «fratelli».
Il Re Padre è cieco, non vede – in senso proprio. I suoi «figli» più grandi sono invidiosi: hanno gli occhi, eppure non vedono il misterioso uccello hu, e non hanno la minima idea di dove mai possa cadere una sua piuma. Essi sono accecati al senso figurato, vedono soltanto il Regno delle «res» che vogliono ereditare, vedono soltanto l’io che realmente vogliono diventare.
Non vedono al di là del «senso proprio» della Parola del Padre.

Il Padre ha detto: «hu», e tutti quelli che l’hanno udito, hanno interpretato il suo come un grido di dolore. Il Padre ha detto che Lui non vede – c’è qualcuno che può ridargli la vista?
Ma se i suoi occhi sono realmente ciechi, non saranno gli occhi di chi vede solo il Regno «reale» a trovargli la «piuma salvifica». Saranno invece gli occhi di chi vede solo forme e Nachum-scimmia-ciecafigure immaginali, gli occhi di un bambino che ancora non ha la minima idea di «realtà». Solo questi occhi potranno «vedere» la piuma che l’uccello hu lascia come traccia del suo passaggio: quella piuma è il «senso figurato» delle parole.

Dicendo quella sola parola, «hu», il Padre non ha detto: portatemi l’uccello!
Il Padre ha detto «hu», ha detto un «segno», una parola al posto della «cosa».
C’è qualcuno che comprende la sua lingua dei segni?
Io direi: colui che al posto dell’uccello hu, gli porterà una prova, un indizio, una traccia del suo avvistamento. Non l’uccello «reale», ma una sua piuma «immaginale».

Il Re è il re dei Segni. Il Nome del Padre è l’Imperatore del linguaggio simbolico. Per semplificare, due sono le possibilità: o, come nel nostro caso, Lui non vede, o – come racconta KafkaLui non si vede. O per essere più precisi: non vede e non si vede che in casi eccezionali.
Il suo Regno o Impero si estende su quel dominio che stiamo imparando da Lacan a chiamare Coscienza. Tutto ciò che ciascuno di noi non ha visto nel lungo periodo di assenza antecedente alla sua nascita, è la cecità del Re. E ciascuno di noi deve nascere non una, e neanche due volte. Deve nascere tre volte, dice il Racconto, prima che apprenda il simbolismo di quella sola parola, «hu», che è da sola tutto il testamento, vecchio e nuovo, che ha da interpretare.

La terza volta, o forse meglio: la volta che entra in scena il Terzo, quella è la volta buona per intendere finalmente i Segni. Per intendere che la Piuma è il Segno detto «hu», e che non è il caso di andare a spennare l’uccello reale per «guarire» il Padre. Ma, dice il Racconto, è anche la volta tragica in cui proprio colui che «vede» il senso figurato, finisce inesorabilmente per essere oggetto di invidia degli uccellatori.
Nell’istante in cui «vede» il Segno, il suo mondo immaginario sprofonda nella dimenticanza, condannato a restare «invidiabile».

Risorgerà? tornerà a nuova vita?
Scrive Calvino: «Ho seguito questa versione siciliana, dal finale non lieto (senza resurrezione del figlio) che mi pare più consono allo spirito della fiaba. Ma ho sostituito allo zufolo fatto da un osso del morto, quello della canna cresciuta sulla sepoltura, come in molte altre versioni».
Il «morto» non parla più. Parlano, però, le sue «ossa». Parlano, al posto suo, i «flauti funerari». Parlano l’inconscio della nostra Coscienza. E a volte fanno un tale baccano che il Re, se pure vive «chiuso nel palazzo», è costretto ad affacciarsi.
È in quei momenti che abbiamo l’occasione di riconoscerlo.