Tutto scorre, dicono gli eraclitei. Tutto passa e se ne va. Dicono che niente «è». Che tutto ciò che «è», non è che miraggio illusione e inganno. E perciò non hanno niente da cantare se non la vanità del canto.
Solo nel «canto», solo nel «cantuccio» in cui è preso l’incantato, solo nel «vano» aperto dal canto, la retta via si biforca. Il canto doppia ciò di cui canta. Gli dà una presenza poetata, per risarcirlo della sua prosaica assenza: non «è», eppure il canto fa in modo che «ci sia», che «esista».
Cantare è far-essere miraggi illusioni e inganni. È dare esistenza a ciò che «è» niente. A un sentimento ancora nudo. A un nervo ancora scoperto. Al gemito di un ramo non ancora spezzato, al lamento di una foglia non ancora sfogliata dal vento di un autunno.
Cantare è far-essere momenti illusori – è scippare al «tutto scorre» tre accordi per chiudere una certa sinfonia, è andare a rapire un «fuoco» alle Acque del Fiume Celeste. Ed ecco, come sempre, nuove onde alle vecchie succedono e lo spengono, e nuovi sentimenti ardono, nuove idee e nuove conoscenze s’accendono. Nuove armonie dalle rovine delle vecchie canzoni risorgono, e nuovi cenni che sempre accennano a ciò che «è» sempre al di là del recinto dell’Esistente.
Poche chiacchiere! stasera cosa si danza?
Stasera qui, per volere del capocomico della nostra Compagnia, si danza l’ouverture del poema di Parmenide. Si danza l’inizio di una Commedia, il cui copione narra d’un viandante che fece una certa via, che lo portò a una certa frontiera, passata la quale incontrò una certa signora che l’istruì a proposito di certe questioni (di scienza, di metafisica o di che cosa, non lo sapremo mai).
Ma noi non vogliamo sapere, stasera noi vogliamo danzarlo, Parmenide.
Non abbiamo voglia di perdere tempo a discutere con chi, gli enigmi insoluti dei suoi versi, li elude ricorrendo al Parmenide tramandato – al Parmenide mediato dai traduttori che l’hanno preceduto sulla via, agli schemi e ai diagrammi, alle ipotesi di lavoro e ai lasciti intellettuali che ne ha ereditato.
Ma, come dice il capocomico, un conto è danzare Parmenide, ed è quello che lui ha in mente di farci fare, altro è avere a che fare con le piattole che ne hanno succhiato il sangue, con quanti hanno campato alle sue spalle, nel suo nome facendo passare le proprie miserie filosofiche: con quanti, a cominciare da Platone, hanno scritto trattati sull’«essere» e sul «non essere», senza che mai una sola volta, neanche per sbaglio, Parmenide abbia nominato «l‘essere»: l’abbia cioè pensato come «sostanza», come sostantivo o infinito sostantivato. Insomma: mai che ne abbia parlato da «filosofo».
Perciò, il Parmenide che stasera danzeremo è il (figlio o nipote di) «pirata» che parla e pensa come parla e pensa un mariuolo, uso a forzare e scassinare per aprire un «nuovo spazio» verbale ove produrre e consumare un «plusvalore di codice», un momentaneo aldilà avvistato nella lingua degli antichi poeti.
Vogliamo dunque tradurre Parmenide? E sia, ma per farci, dai suoi versi amletici, tradurre noi in una danza a uscire dalle nostre abitudini mentali. Tradurre Parmenide senza spiegarlo, ma piegarlo e ripiegarlo mille volte su se stesso per vedere di ricostruire, attraverso il suo, il nostro incipit rimosso. Tornare a capo – disimparare – disabituarci a tutto ciò che da quell’incipit insiste a rimuoverci. Andare alla fonte da cui proprio la tradizione che ce la tramanda, finisce per tenerci alla larga o addirittura, a volte, per metterci in guardia.
Sta’ attento! Chi tocca i fili muore: chi legge e «alla luce dei suoi propri occhi» osa tradurre Parmenide, si ritrova tradotto in una città sepolta, tra le macerie di vecchie idee che non hanno avuto corso in nessuna tradizione, in mezzo alle rovine di saperi che se mai ancora parlano, parlano però una oscura lingua morta.
Non importa, dice il capocomico, se danzando finiremo anche noi, come Pitagora, per delirare d’aver udito la voce dell’amico morto nei latrati di un cane. Non possiamo danzare, egli dice, che sulla voce di chi ci manca.
Nessun narciso ha altro ritorno che la sua propria eco.
È questo, quello che si dice «solipsismo»? è l’«eterno che è nell’uomo»? o è lo scoglio su cui tutte le onde s’infrangono – perché severa l’Oscura Roccia dell’Essere da sé le respinge?
Ma, se quelle onde l’interprete le volesse solo danzare, perché non dovrebbero bastargli i latrati di un cane? non sono forse «segni» dell’assente che vuole richiamare in vita?
Il segno – disse Peirce – è il sostituto di qualcosa per qualcuno.
Il sostituito, il rimpiazzato, è qui l’amico morto e i latrati del cane sono i segni su cui danzando riempire per un momento il vuoto della sua assenza.
Perciò riconoscere se stessi, o meglio: il morto che ciascuno tiene sepolto in se stesso, sepolto sotto il suo «io», sotto l’illusione della sua «indistruttibilità», riconoscerlo nei latrati di Parmenide, non dovrebbe essere difficile – a un «pitagorico» quantomeno!
Guardate, dice il capocomico! Parmenide da noi dista più di un cane, la lingua che parlava è bell’e morta, e remoto e rimosso è il suo tempo: tutto insomma converge a fare di lui un segno di ciò che più ci manca sui nostri palcoscenici: un segno dell’«amicizia» tra il barbaro e il civilizzato, un segno della «simpatia» tra il diavolo e l’acquasanta, tra dio e Mefistofele, tra il naturale, l’incolto, il «passato» animale, e il dotto, il colto, il cittadino, il «presente» umano. Un segno di quella filosofia che non era ancora cosciente d’essere filosofia – di quella sapienza insipida di cui c’era bisogno che qualcuno se la sciogliesse in bocca, per sapere quant’è salato il mare delle scienze umane e com’è profondo il pozzo finanche della nostra più superficiale nostalgia.
Perché è sempre nostalgia di quel paese a cui ci siamo dovuti assentare per essere presenti al mondo della parola umana.
Nel mondo della parola umana, ecco dove siamo capitati. Qui dentro si dice ogni cosa. Si dice che l’Essere è, o invece che è tutto un trascorrere via del tempo. Sono parole, tutte indifferentemente, dette da dentro la pancia dell’Orco. Ma com’è che ci siamo finiti qui «dentro»? ecco il problema. E per quale via viaggiando? e portati da chi, se non dalle Cavalle? se non dalle onde stesse dello scorrere via del tempo?
Ognuno ha danzato il suo inizio. Perché non dovremmo danzare noi chi del suo inizio ci ha abbozzato uno spartito?
Il capocomico insiste: stasera qui lo danzeremo, dice, il «viaggio» di Parmenide dal barbaro, dall’incolto, al civile, al verbale umano.
La via per cui si svolge il suo «viaggio» è quella di un Nessuno Qualunque – il viaggio di un certo Viandante alla volta del Paese della Parola Umana. È la via (οδός) che di un Nessuno (ούτις) giunge a fare un Viandante (Οδυσσέυς). È il copione che dell’Interprete (di un moi o di un «se stesso») fa un Personaggio (un je) del teatro umano.
nu guagliuncielle – a mamma u chiamme Cire, sissignori u chiamme Cire
le cavalle – le Furie, le tre stelle del manico: Erinni o Eumenidi?
il carro – le quattro stelle della bara nonché la carrozza della fata
le fanciulle – le figlie dell’Uomo, le matrici immaginali della libidine
Dikê – la Signora delle chiavi del Dicere Umano – porta sud
l’Apparsa – alias Beatrice, la Fata, l’Immaginata di là dalla soglia
il Vecchio – alias Virgilio, il Mago, il pitagorico
il Filosofo – Tiresia, travestito però stasera da Parmenide