Kierkegaard – La disperazione è la malattia mortale

Di solito, «mortale» si dice di una malattia la cui fine, il cui esito, è la morte. Così si dice che una malattia è mortale quando porta alla morte. Intesa in questo modo, la disperazione non si può chiamare malattia mortale. […]
È piuttosto in un altro senso ancor più preciso che la disperazione è la malattia mortale. Infatti, è quanto mai improbabile che fisicamente si muoia di questa malattia o che surreal-testa-uovoquesta malattia finisca come la morte fisica. Al contrario, il tormento della disperazione è proprio quello di non poter morire. Perciò, assomiglia più allo stato del moribondo che è in agonia senza poter morire.

Cadere quindi nella malattia mortale è non poter morire, ma non come se ci fosse la speranza della vita: l’assenza di ogni speranza significa qui che non c’è nemmeno l’ultima speranza, quella della morte. Quando il maggiore pericolo è la morte, si spera nella vita; ma quando si conosce il pericolo ancora più terribile, si spera nella morte. Quando il pericolo è così grande che la morte è diventata la speranza, allora la disperazione nasce venendo a mancare la speranza di poter morire.

In quest’ultimo significato la disperazione è chiamata la malattia mortale: quella contraddizione penosa, quella malattia nell’io di morire eternamente, di morire e tuttavia di non morire, di morire la morte. Perché morire significa che tutto è passato, ma morire la morte significa vivere, sperimentare il morire; e sperimentare questo tormento per un solo momento vuol dire sperimentarlo in eterno.
Se un uomo potesse morire di disperazione come si muore di una malattia, l’elemento eterno in lui, l’io, dovrebbe morire nello stesso senso in cui il corpo muore nella malattia. Ma questo è impossibile: il morire della disperazione si trasforma continuamente in un vivere.

Il disperato non può morire; «come il pugnale non può uccidere il pensiero», così la disperazione non può distruggere l’eterno, l’io, che sta a fondamento della disperazione. «Il cui verme non muore, il cui fuoco non si spegne» (Marco, 9: 43).
Però, la disperazione è un’autodistruzione dell’io, un’autodistruzione impotente a fare ciò che essa vuole. Ciò che essa vuole è distruggere se stessa, il che non è capace di fare: e quest’impotenza è una nuova forma di autodistruzione nella quale la disperazione ancora non può fare ciò che vorrebbe, distruggere cioè se stessa: in questo consiste il suo potenziamento, ovvero la legge del potenziamento. Questo è il fuoco ardente, ovvero l’ardore gelido nella disperazione, il principio corrosivo il cui movimento è di continuo rivolto verso l’interno, che scava sempre più a fondo in una autodistruzione impotente.

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Lungi dall’essere un conforto per il disperato, il fatto che la disperazione non lo distrugge è piuttosto il contrario; quel conforto è precisamente il suo tormento, è ciò che mantiene in vita il dolore che rode e la vita nel dolore; infatti, appunto per questo egli non si è disperato, ma si dispera; non poter distruggere se stesso, non potersi sbarazzare di se stesso, non potersi annientare.
Questa è la formula del potenziamento della disperazione, il salire della febbre nella malattia dell’io.

Chiunque si dispera, si dispera per qualcosa. Così sembra per un momento; ma non si tratta che di un momento, perché nel momento stesso si mostra la vera disperazione o la disperazione nella sua verità. In quanto disperava per qualcosa, egli, in fondo, disperava di se stesso e ora vuole sbarazzarsi di se stesso.
Se per esempio un uomo avido di dominio, il cui motto è «o Cesare o niente», non diventa Cesare, egli si dispera per questo. Ma la sua disperazione significa qualcos’altro: che egli, perché non è diventato Cesare, ora non può sopportare di essere se stesso. Quindi, a dire il vero, non si dispera per il fatto di non essere diventato Cesare, ma per se stesso che non è diventato Cesare.

Questo io che, se fosse diventato Cesare, sarebbe stato tutta la sua felicità – in un altro senso, del resto, ugualmente disperato – quest’io è insopportabile: non è il fatto di non essere diventato Cesare, ma quest’io che non è diventato Cesare per lui è insopportabile.
Picasso-fascismoA dirlo più esattamente: ciò che gli è insopportabile è di non potersi sbarazzare di se stesso. Se fosse diventato Cesare, si sarebbe disperatamente sbarazzato di se stesso; ma ora non è diventato Cesare e non può sbarazzarsi disperatamente di se stesso.

Essenzialmente, è altrettanto disperato, perché non ha il suo io, perché non è se stesso. Essendo diventato Cesare, non sarebbe diventato se stesso, ma si sarebbe sbarazzato di se stesso; non diventando Cesare, si dispera di non potersi sbarazzare di se stesso.
È perciò un’osservazione superficiale fatta da chi probabilmente non ha mai visto un uomo in disperazione (neanche se stesso), dire di un disperato che la disperazione è la sua punizione: egli distrugge se stesso. Perché è proprio questo ciò di cui egli dispera, è proprio questo che egli, col suo tormento, non può; poiché con la disperazione è stato appiccato il fuoco a un elemento che non può bruciare, né bruciando distruggersi: nell’io.

Disperarsi per qualcosa, dunque, non è ancora la vera disperazione. È il principio; è come quando il medico dice che una malattia non si è ancora manifestata. Lo stadio successivo è la disperazione manifesta: disperarsi di se stesso.
Una giovinetta si dispera per amore; si dispera dunque, per la perdita dell’amato, che è morto, o gli è diventato infedele. Questa non è disperazione manifesta; essa, in verità, si dispera per se stessa.

Questo suo io dal quale, se fosse diventata l’amata «di lui», si sarebbe liberata nel modo più piacevole o che avrebbe perso, quest’io è per lei un tormento ora che deve essere un io senza di «lui»; quest’io che sarebbe diventato, in un altro senso del resto ugualmente disperato, la sua ricchezza, ora è diventato per lei un vuoto ripugnante; perché «lui» è morto, oppure le è diventato un orrore perché le rammenta che è stata ingannata.
Munch-occhi-negli-occhiProva a dire a una tale giovinetta: «attenta, che tu distruggi te stessa», e la sentirai rispondere: «ah no, il mio tormento è proprio che non ci riesco».

Disperarsi di se stesso, voler disperatamente sbarazzarsi di se stesso, è la formula per ogni disperazione, così che la seconda forma della disperazione: disperatamente voler essere se stesso, può essere ridotta alla prima: disperatamente non volere essere se stesso.
Uno che si dispera vuol essere disperatamente se stesso. Ma se vuol essere disperatamente se stesso, certamente non vuole sbarazzarsi di se stesso. Sì, così sembra: ma se si guarda la cosa più da vicino, si vede che la contraddizione si risolve nell’identità. Quello che disperatamente egli vuol essere, è un io che egli non è (perché voler essere l’io che non è, in verità è proprio il contrario della disperazione); cioè il disperato vuol separare il suo io dalla potenza che l’ha posto.

Ma questo, nonostante tutta la sua disperazione, egli non lo può fare; nonostante tutti gli sforzi della disperazione, quella potenza è più forte di lui e lo costringe a essere quell’io che egli non vuol essere.
Ma allora è pur vero che egli vuole sbarazzarsi di se stesso, di quell’io che egli è, per essere quell’io che egli stesso ha escogitato. Essere un io come lo vuole lui, sarebbe (pur essendo, in altro senso, ugualmente disperato) tutta la sua gioia; ma venir costretto a essere un io come egli non vuol essere, è il suo tormento, il tormento di non potersi sbarazzare di se stesso.

Socrate dimostrò l’immortalità dell’anima dal fatto che la malattia fisica distrugge il corpo. Nello stesso modo si può dimostrare l’esistenza dell’eterno nell’uomo dal fatto che la disperazione non può distruggere il suo io e che questa è proprio la contraddizione penosa nella disperazione.
Se non ci fosse niente di eterno nell’uomo, egli non potrebbe affatto disperare; ma se la disperazione potesse distruggere il suo io, non ci sarebbe neppure disperazione alcuna.

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A questo modo la disperazione, questa malattia dell’io, è la malattia mortale. Il disperato è malato a morte. In un tutt’altro senso che per le altre malattie, qui sono le parti più nobili che la malattia ha intaccate; tuttavia, egli non può morire. La morte non è la fine della malattia, ma la morte è, continuamente, la fine estrema.
Essere salvato da questa malattia mediante la morte è impossibile, perché la sua malattia e il suo tormento così come la sua morte è proprio questo di non poter morire.

Tale è lo stato dell’animo in disperazione. Per quanto questo sfugga al disperato, per quanto gli riesca (il che vale soprattutto per quella specie di disperazione che ignora di essere disperazione) di perdere completamente il suo io e in maniera che questo non si faccia più sentire affatto, l’eternità rivelerà pure che il suo stato era disperazione e lo inchioderà al suo io in modo che il suo tormento diventi di non potersi sbarazzare di se stesso; e allora si manifesta che era un’illusione pensare d’esserci riuscito.
E così deve fare l’eternità; perché avere un io, essere un io, è la più grande concessione fatta all’uomo; ma, nello stesso tempo, è l’esigenza che l’eternità pretende da lui.

(Kierkegaard, La malattia mortale)