Nietzsche – La nascita del genio

La fantasia con la quale il prigioniero cerca mezzi per liberarsi, il suo sangue freddo e la sua tenacia nell’utilizzare ogni minimo vantaggio, possono insegnare a quali mezzi Zimmer-macchina-umanaricorra a volte la natura per produrre il genio (una parola che prego di intendere senza nessun sapore mitologico o religioso): essa lo rinchiude in un carcere ed eccita all’estremo il suo desiderio di liberarsi.

O con un’altra immagine: qualcuno che camminando per il bosco si sia completamente smarrito, ma che con straordinaria energia tenda a uscire all’aperto in una qualunque direzione, scopre talvolta un nuovo sentiero, che nessuno conosce: così nascono i geni, di cui si decanta l’originalità.

È stato già detto che una mutilazione, una storpiatura, una grave deficienza di un organo, fanno spesso sì che un altro organo si sviluppi straordinariamente bene, dovendo adempiere la sua funzione e ancora un’altra.
Con ciò si può spiegare l’origine di parecchi splendidi ingegni. Si applichino questi accenni generali sulla nascita del genio al caso specifico della nascita del perfetto spirito libero.

(Nietzsche, Umano troppo umano, 1: 231)

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È la disperazione dell’«infermo», è il grido che soffoca in gola al «deficiente»: ecco cos’è che può fare di un «invalido» (chissà perché sto pensando a Coyote) il Demiurgo che sollecita la Natura a fare uno sforzo – a sciogliersi dalla sua inerzia, a «sbloccarsi» da un’abitudine, per imboccare un’altra strada, a volte un sentiero fuori mano dove non bazzica la Moltitudine dei «sani» (di mente e di corpo). Un posto solitario, un certo qual non so dove nel bosco, aspro e selvaggio, dice il Poeta.

Hagerty-minotauro

Ci vuole un «difettuccio» (è un vezzeggiativo, non un diminutivo – perché il «difetto» è sempre grande, e chi ce l’ha, farebbe bene a coccolarselo invece di arrabbiarsi), ci vuole un «vizio di forma», una fattezza di «natura deforme» (e qui mi viene da pensare al Minotauro, a nome di tutti i Mostri) perché possa alla «mancanza» succedere un movimento geniale verso una nuova, originale «pienezza».
L’handicap è, però, un requisito necessario ma non sufficiente del Genio. Non basta essere menomati – per essere geniali: per spingere cioè i propri «geni naturali» a ingegnarsi (a darsi da fare) per «ingignare» (per inaugurare) un modo nuovo e nuovi organi esistenziali.

L’abitudine, la routine, la «vita ordinaria», forse non c’è bisogno di scomodare Freud, è un’«istanza di morte». L’abbiamo sentito dire da più parti: nel Solito (tutti i giorni lo stesso gioco!) la Macchina Umana s’inceppa, per inerzia si rende indisponibile a ogni variazione d’umore. Sta bene dov’è e com’è. Sta bene nell’acqua stagnante, finché una calura non secca anche quella.
Ci vuole un «malessere» per costringerla ad azzardare un’«istanza» di Vita nova – che le dia un altro «esserci», un’altra chance di stare al Gioco dove si gioca la nostra «umanità». E parimenti ci vuole un «disperso» per scoprire una nuova via, una via all’Uomo Nuovo o anche oltre – al di là di ogni mitologia umana.

Il Genio è troppo umano, e perciò in lui l’«umanità» è naturalmente storpiata a misura della sua «deformità». Troppo umano, e perciò sempre pericoloso per chi è fermo al palo Zawadzki-sfered’un vecchio «umanesimo», e di lì non si muove neanche se gli cadono le bombe in testa. Ha gli occhi, ma non vede a quale disumanità quel vecchio «umanesimo» l’ha condotto, sull’orlo di quale precipizio la «sana» inerzia umanistica l’ha spinto.
E se per caso dalle sue parti qualche genietto brontola o borbotta, se qualcuno a questa Macchina incagliata dice: «ehi, scema, ti sei impantanata! confondi l’abitudine con la realtà!», la Macchina diventa subito cattiva. Reagisce manifestando tutta la potenza diabolica della sua cattività.

Ed eccola allora a rimbalzare «da un disperato e straziante desiderio di ciò che tutti, tranne lei, posseggono, a un odio e un’invidia frenetica per tutto questo, alla voglia di distruggere tutte le cose buone, belle e fresche del mondo – e questi sentimenti possono, a loro volta, essere sopraffatti da atteggiamenti contrastanti di sdegno, disprezzo, disgusto o indifferenza» (Laing, L’io diviso).
Non basta dunque accusare «una grave deficienza di un organo», né basta «perdersi» in un qualunque bordello mentale, per forzare la Macchina a un movimento geniale. Anzi, succede perlopiù il contrario.

Lo smarrito si smarrisce in un odio o in un rancore, il prigioniero s’innamora del suo secondino e non ha più voglia di prendere una «boccata d’aria», e lo storpio si danna l’anima per la sua impotenza a giocare al Gioco degli altri, di quelli che lui «invidia» perché «non li vede» nella sua stessa condizione.
Non è detto che in lui la Natura lasciata a se stessa si sblocchi o si rinnovi. Anzi, è più facile che s’incattivisca – che faccia della sua cattività la ragion d’essere della sua cattiveria.

Ci vuole dell’altro. Cosa, è ancora da vedere.
Ma per il momento resta fermo quel che qui dice Nietzsche: che la conditio sine qua non del Genio, è la sua «infermità». È il tallone che «fa» di Achille un «eroe».
Tu che dici? sarà soltanto un caso, o forse è da leggere proprio così il fatto che il Re Pescatore, il detentore del Santo Graal, sia di nome e di fatto Anfortas, ovvero: l’Infermo?
E perché mai il Racconto è popolato di nani, gobbi, zoppi e guerci – mentre il Principe Azzurro è così raro e si manifesta solo in un miraggio, e solo alla fine di una centenaria «partorizione» inconscia?

Cent’anni di solitudine, qualcuno l’ha detto: ci vuole una solitudine secolare, un lungo insonne letargo, per produrre un solo istante di «pienezza», e solo di «pienezza immaginale».
Ma questa solitudine, per quanto lunga, da sola, non basta a «ingignare» una Vita Nova. Qualunque cosa essa possa «generare», bisogna che un seme altrui sia caduto e germogliato nella sua Terra. E bisogna che questo seme abbia esso pure il «difettuccio» di non essere bastante a Se Stesso.