Parmenide – Le cavalle mi portavano

surreal-cavalle

… a zonzo le cavalle mi portavano
fin dove
l’ardire avessi avuto di viaggiare
fin quando
viaggiando le cavalle
su una via mi portarono
di mille voci lastricata

la via che a ciascuno il suo demone illumina
e che di paese in paese mena
chi quelle [mille] voci
alla luce dei suoi occhi
se le traduce.

Era un po’ che su questa via viaggiavo
e che da una voce all’altra le cavalle
tirando il carro mi portavano
quand’ecco delle fanciulle vidi
che m’aprivano la strada.

Picasso-demoiselles-jaune

Stretto nella morsa di due cerchioni
turbinanti a destra e a manca
l’asse nei mozzi [delle ruote]
incandescente si faceva e un sibilo stridente
correndo produceva dietro a quelle
figlie del Sole
che lasciate le case della Notte
il passo affrettavano verso la luce
con la mano appena un poco
il velo scostandosi dal viso.

Andavano là dove le porte
della Notte e del Giorno si toccano
e un solo architrave condividono
e una stessa soglia di pietra
in alto sormontata da grandi imposte
le cui alterne chiavi
molto penando Dikê amministra.

A lei dolci parole bisbigliando
le fanciulle la convinsero a togliere
tà-tà per loro il catenaccio dai battenti
ed ecco
che sui cardini di bronzo cigolando
fissati con chiodi e cavicchi vari
si schiusero i battenti girando all’incontrario
e di là dalle imposte un pozzo
spalancarono a precipizio.

tempio-deserto

Di là passando per la retta via
le fanciulle guidarono carro e cavalle
fin dove una dea benigna mi accolse
che nella mano presa la mia mano destra
queste parole mi parlò e disse:
«Guagliuncié, che a queste immortali guide ti affidi
e che alla nostra casa giungi portato dalle cavalle,
rallegrati ché non fu un avverso destino
che su questa via remota dai sentieri umani
ti spinse, ma fu Temi e fu Dikê a volerlo.
Ora dunque bisogna che tu intorno
a ogni cosa indaghi: intorno al cuore
saldo di Alêthéia e al suo cerchio perfetto
ma intorno anche alle credenze dei mortali
a cui la certezza di alêthé difetta.
E tuttavia tu lo stesso le imparerai
perché bisogna che tutte le credenze
che di tempo in tempo si succedono
che tutte quante siano una volta e per sempre
credibilmente fondate …»

(Parmenide, Della Natura, frammento 1: versi 1-32)

***

Bregeda-donna-violino

Non c’è un solo Parmenide, un solo Virgilio o Dante, ma ce ne sono tanti, quanti sono i traduttori che con le buone o con le cattive s’ingegnano a tradurli qui in mezzo a noi. Sicché, se lo traduco io, è il mio Parmenide. Se lo traduci tu, allora è il tuo che viene a prendersi la scena.
Tradurlo vuol dire costringerlo a parlare un’altra lingua, non più la sua; vuol dire metterlo in un’altra piazza, esporlo a un altro vangelo dell’Esserci, più o meno dentro un mucchio di chiacchiere conformi a un’altra norma, abitudine o ortodossia.

E non è diecimila volte meglio farsi divorare dal miraggio di un Parmenide che non è stato ancora, e forse mai sarà, «pubblicato», piuttosto che ripetere a pappagallo il Parmenide che la cosiddetta ontologia ci continua da secoli a propinare, ripetendo a pappagallo che Parmenide è un «filosofo» senza però mai fermarsi a domandare se ha senso chiamarlo «filosofo» prima di Platone e di Aristotele, cioè quando ancora non esisteva nemmeno la parola «filosofia»?
Non può essere che questa «mummia» che l’ontologia ha a posteriori adottata come sua propria «antenata», non può essere che sia proprio essa, ormai, a costringere quel povero cristo nato cresciuto e pasciuto a Casalvelino – e che risponde al nome di Parmenide – a fare nei secoli dei secoli scena muta, amen, lasciando che a parlare in sua vece siano duemila e cinquecento anni di professori armati di pregiudizi «attici»?

Pregiudizi che si sono ormai a tal punto «incarnati» nelle nostre abitudini di pensiero – e che sono penetrati così intimamente nel midollo delle nostre dottrine, da non lasciare Dalì-occhio-surrealequasi più una via di fuga a chi s’è stancato, e chissà da quanto tempo, di fare il settimo dei Sette Pappagalli – bravo sì, ma solo a riprodurre il solito ritornello. Quel «solito» a cui tutti i pappagalli da sempre sono così avvezzi che non saprebbero che farsene d’una «novità» o, peggio, di un azzardo.
Venendo meno quell’abitudine che a Parmenide fa indossare il solito «abito di scena», la ormai logora maschera del «filosofo astruso», avrebbero difficoltà a riconoscere in quale «genere» classificare un Parmenide «fuori dal solito», un Parmenide tutt’altro da quello tramandato nel passaparola dei «filosofi», un Parmenide talmente «insolito» che di «filosofia» nulla sa – nulla ha – e nulla vuole.

Spostarlo da dove secoli di abitudini l’hanno «murato vivo», strapparlo alla lontananza in cui l’hanno relegato i suoi sedicenti pronipoti ontologici – a quella distanza a cui il suo pensiero ci è divenuto pressoché irraggiungibile, prossimo alla follia sibillina, a un passo dal precipizio nell’insensato – ma come si fa? come ci si può riavvicinare, con quale tecnica o strategia si può pensare di riportare in vita il suo «dicere» da noi così lontano? dovremo appellarci forse a quello che lo Zarathustra di Nietzsche chiama «l’amore per il remoto» come alla sola risorsa a nostra disposizione? o c’è una qualche «sapienza» che possa guidarci a sapere dell’«insipido» che essa ha dovuto «rimuovere» per fondare, su questo «rimosso», il suo inizio?

Bella domanda! E chissà quante divagazioni, quanti passa e spassa sotto a stu’ balcone ci consentirebbe – se solo avessimo il coraggio di uscire dai gangheri «filosofici» e ci rimettessimo davanti un Parmenide sconosciuto che nessuno ancora ci ha presentato, uno di cui nulla ancora sappiamo, tranne questo solo piccolo dettaglio: che il qui presente traduttore /l’ultimo dei traduttori/ l’ha voluto a bella posta «sgangherare» /storpiare e disimparare/– per vedere se gli riusciva di far trasparire qualcos’altro da dietro la maschera del «filosofo» con cui di solito lo si mette in scena – da che Atene gli ha soprascritto la sua «filosofia».

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Sono più di duemila e cinquecento anni che tra Parmenide e noi c’è di mezzo il mondo delle idee di Platone – c’è insomma la «traduzione» che ne fece Platone, e la «traduzione della traduzione» che ne rifece poi Aristotele. Una volta «tradotto» in dialetto attico, di Parmenide parlò solo ciò che pareva precorrere la neonata «ontologia» ateniese – e tutto il resto tacque. Parlarono i suoi «versi» a proposito dell’Essere e della Verità (sic!) – e tutto il resto passò sotto silenzio.

E perciò ogni tentativo di trarlo via dal «posto» che i moderni manuali gli assegnano nella «storia della babele delle idee filosofiche», è forse destinato in principio a fallire, e faremmo bene noi a rassegnarci all’impotenza di dire di lui altro che l’ennesimo «falso».
In fondo, chi siamo noi che osiamo sollevare dal suo volto la millenaria incartapecorita maschera di «filosofo» con cui da duemila e cinquecento pappagalli in qua è «abitudine» tradurlo sulla pubblica piazza a fare la parte di Barabba – di quello che la piazza da sempre preferisce a ogni /povero cristo/ «insolito»?

Come si fa dunque a classificare l’Insolito? – questo è il problema.
Com’è possibile, se non ricorrendo alle solite parole? se non rincorrendo la sua «novità» tra le vecchie baracche ideologiche?
Sicché: se il suo Parmenide non è il «filosofo ante litteram» della logica e dell’ontologia, quale altro travestimento aveva in mente il qui presente traduttore nel metterlo in surreal-smascheratoscena? Voleva forse appellarsi ai dattili e spondei di cui Parmenide fa uso nel suo «dicere», appellarsi a questo solo eppure incontrovertibile «dato» esteriore (il suo «poema» è scandito in esametri) per venire a suggerirci – dopo tutto – solo uno switch dalla maschera di filosofo a quella di poeta? Era, dunque, il nostro traduttore così ingenuo da credere che, lasciandolo liberamente «poetare» proprio là dove gli ateniesi l’hanno sentito «filosofare», sarebbe bastato a risarcirlo della «parte della mummia» che nei secoli dei secoli ha dovuto, suo malgrado, recitare?

Ma prendere Parmenide per un «poeta» sarebbe come costringerlo a rientrare nei ranghi di quella «poesia», da cui il suo «dicere» tendeva a liberarsi – di quella tradizione poetica in cui il suo «dicere» tentava di aprirsi nuovi spazi linguistici, per dare un’altra attualità a ciò che un tempo era stato detto «alla moda poetica» di Omero ed Esiodo e, prima ancora, di Lino ed Orfeo – a ciò che ora gli urgeva, a ciò che l’incalzava, e che gli chiedeva d’essere «tradotto» in un nuovo spazio dentro lo spazio aperto dalla loro «lingua poetica». Uno spazio più arcaico, più intimo – a prima vista, più lontano.

Omero, Esiodo, Lino e Orfeo avevano lasciato in eredità una «lingua poetica», avevano lasciato ritmi e metri, dattili e spondei, giambi e trochei, avevano lasciato conti e racconti di viaggi di guerre di genesi del mondo. Avevano narrato di eroi e delle loro mitiche epopee. Avevano così marcato un «territorio linguistico» fatto di ciò che è «degno d’essere detto» e, insieme, delle parole «degne» di dirlo.
C’è però che, ai tempi di Parmenide, i loro canti erano già arcaici. Li si poteva, questo sì, ripetere a pappagallo – secondo i canoni eterni di ogni manierismo. Li si poteva «copiare», come avrebbe detto Platone – fino a farne la copia della copia, e così all’infinito. Oppure li si poteva «tagliare», fare a pezzi, smontare e rimontare, per vedere se per caso ci fosse ancora una via di fuga, che so? – una piccola breccia aperta nel muro della ripetizione /pardon: della tradizione/ per vedere se fosse possibile tradirla, per «tradurla» in nuovo incantesimo.

citaredi

Se il mito e il canto avevano schiuso un tempo uno spazio «poetico» alla lingua greca, ora bisognava, da esso, da dentro quello stesso spazio, aprirne un altro ancora – uno spazio più profondo di quello che aedi e citaredi erano stati capaci di scoprire pizzicando le corde vocali della loro «poesia».
Con loro la lingua greca – parola per parola – era nata cantando. La «cantata» era più antica di qualunque «parlata». Era la lingua schiusa per mezzo del canto: dentro il cuore stesso dell’incantesimo. Nessuno, nei tempi mitici, la «parlava». La si poteva solo cantare. E chi la cantava, si trovava ipso facto tradotto nello «spazio» che così, davanti, il Canto gli apriva.

Quello «spazio» di cui i vari dialetti greci erano, per così dire, i differenti quartieri. Ogni quartiere si distingueva dall’accento – da come ciascuno di essi diversamente «intonava» quel che «cantava».
Quel che si «cantava» nell’«attico» di Socrate e Platone, era sì lo stesso Omero che si tramandava pure a Tebe e Sparta, a Crotone o a Siracusa – e tuttavia non era mai lo stesso Omero che ionici, dorici ed eolici, mettevano in scena: perché ogni quartiere «traduceva» a modo suo solo quel che «sapeva» della lingua poetica di Omero, solo i «sapori» che sapeva gustare di quel canto che, come tutte le bibbie del mondo, «polarizzava» la lingua di un «popolo»: la lingua e, insieme, la sua «immaginazione», al di là delle differenze, che tra i greci erano tante, da quartiere a quartiere.

Non è «filosofo» /sebbene sia diventato il «fondatore» della Filosofia / e neanche «poeta» Penrose-testa-donna/benché abbia scritto solo in versi.
Ma allora cos’è Parmenide?
Il qui presente traduttore se l’è immaginato fuori da ogni «genere» letterario a noi noto – nella «terra di mezzo» tra la poesia che fu e la filosofia che ancora non c’era. Se l’è immaginato a ripetere a memoria, anche lui come tutti i bambini, i conti e i racconti dei suoi padri – anche lui preso nella trafila della tradizione, anche lui caduto nella rete del passaparola, della chiacchiera e dei «si dice». Ma con una differenza: Parmenide apparteneva a un «popolo», o meglio: a una ciurma di pirati, di girovaghi fuorilegge, che da poco s’erano accasati in un borgo sulla costa campana.

I pirati, si sa, parlano più lingue. Sono obbligati a farlo per «questioni di sopravvivenza». I pirati non possono permettersi il lusso di parlare un solo dialetto. O meglio: il solo dialetto che parlano deve tenersi aperto al contatto e alla contaminazione «esotica». I pirati si nutrono di parole predate e di tutte le «bibbie rapite» alle lingue altrui. Non rubano soltanto «cose», ma anche e soprattutto «segni» altrui, dietro ai quali alieni insegnamenti si nascondono a loro sconosciuti. Di modo che: interpretarli, tradurli al proprio servizio, addomesticarli, portarseli fin dentro casa, è questa la «rapina» a cui i pirati sono avvezzi. I pirati sono mariuoli. Ecco tutto!

Perciò il qui presente traduttore ha voluto mettere in scena un Parmenide mariuolo, che come tutti i mariuoli (quelli cari a Ermes) a casa sua aveva «mezzi di sussistenza», materiali e intellettuali, gli uni e gli altri egualmente rubati. Aveva dattili e spondei, aveva «poemi» altrui da cantare. E cantava: passa e spassa sotto a stu’ balcone, ma tu si’ guaglione, tu nun canusc’e femmene…
Così diceva, a quanto pare, una vecchia canzone focese che Parmenide «cantava» da bambino – una canzone fatta apposta per eccitare e, così eccitato, iniziare ogni guaglione al «mondo delle femmine»: per incitarlo a «venire» a quest’altro mondo, qui e ora, sulla pubblica piazza, dove a ciascuno è data l’occasione di essere «uno di noi».

Di noi pirati che per mare andiamo a caccia di «femmine» / a caccia della Balena Bianca andiamo. Andiamo a rapire i pesci che ci svelino il sapore di un nutrimento che ancora Picabia-furtonon sappiamo.
Noi pirati solo di «ratti» viviamo, e di padre in figlio solo una bibbia rubata /appena una secchia rapita/ ci tramandiamo. Ce la tramandiamo solo per cantarla, e la cantiamo perché il canto ci apra una strada in mezzo a questo vasto mare – perché il canto ci sconfini in un altro mondo, nel mondo che di padre in figlio non facciamo che rubarci a vicenda. Noi non siamo ortodossi, siamo eretici interpreti dello spartito «poetico».

E passa e spassa, la canzone i pirati la sanno a memoria. Sanno la «poesia» di Omero, sanno «musica e parole» delle più antiche cosmogonie. I pirati hanno rubato al mare le «parole» di quell’unico serbatoio linguistico, di quel solo repertorio che era il «lasciato detto» /a memoria tramandato/ di poeti musici e citaredi di una volta: erano i versi chi più chi meno orecchiabili, erano i conti e i racconti di miti di feste di viaggi di stelle di guerre di dèi e, infine, di eroi.

Il nutrimento di tutti i pirati viene dal mare! Ha sempre e comunque il sapore del mare. Il sale di ogni sapienza sa di mare. Perciò, se pure fosse solo la schiuma effimera di un’onda, l’«idea» di questo Parmenide pirata, se fosse solo e nient’altro che il miraggio di un suo troppo audace, e forse delirante, «traduttore», non potrebbe comunque servire a chi volesse (pazziando, s’intende) immaginarselo lui l’Inizio del «mondo greco», lui a modo suo l’Antico Mediterraneo? – immaginarselo per es. battuto dai mariuoli del canto, dai corsari della parola, dai buoni affabulatori del Canto, dai vati e dai maestri delle dottrine (che dico? – delle rotte!) di una volta?
Lascia libera la Parola dell’Inizio – la parola che «cantò» la Prima Luce dei tuoi occhi, lasciala libera d’immaginarsi il suo Inizio, e dimmi: che fa la Parola? – ruba le parole agli altri, per parlare di Se Stessa!

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Questa «ruberia» è tutto ciò che il qui delirato Parmenide mariuolo e pirata viene a mettere in scena. In scena non ha da mettere che il racconto di come lui, da bambino, cadde nei racconti che aveva sentito raccontare. E come a quei racconti chiese di prestargli le parole per raccontare di Se Stesso, per «pubblicarsi» al mondo e dire: eccomi! io, quest’altro, essere questo!
Parmenide ha solo da sceneggiare i momenti, e i gesti, e le sottili metafore di cui «le sapientissime cavalle» lo provvidero – guidandolo nei primi passi alla volta del Discorso Umano: alla volta del Racconto.

Ma di che cosa si nutre il Racconto, se non sempre e soltanto di Passato: o meglio, sempre e soltanto di ciò che «è passato» per la Parola dell’Uomo e, passandovi, è diventato un «fatto», una «storia»? Il mondo, gira e rigira, non fa mai altro che mettere al presente /rappresentandoselo/ il suo «fu sera e fu mattina». C’era una volta e da quella volta il mondo gira gettandosi sempre più lontano da ciò che più lo spaventa e l’angoscia, sempre più in là, oltre, in avanti progettandosi, sempre più «fuori di sé» traducendo le sue antiche possibilità in nuovo «essere». Essere, ogni volta, un altro io.

Dalla Nutrice ai nutriti che si attaccano alle sue mammelle, il mondo continua a essere «tradotto» di madre in figlia, a essere sempre «essere in sé», sempre quel certo «non si sa che» intorno al cui fuoco da sempre le nostre parole danzano la peri-patetica danza di surreal-nutricechi, gira e rigira, non trova più la via per tornare in sé.
La danza estatica del derviscio che vanamente spera di ritrovare casa sua – la casa che un tempo fu tutto il suo mondo: quell’altro mondo, il mondo «di là», senza il quale nessun mondo sarebbe «qua» possibile.

Perché dunque non puntare dritto al cuore della questione? Perché aspettarsi in anticipo la comprensione di ciò che noi stessi ancora non comprendiamo, cioè di quella «mezza idea» che ci passò per la mente, di mettere in scena un insolito «Parmenide/Pulcinella»? Solo perché è un «falso», dovremmo solo per questo costringerlo al silenzio? È forse sempre uno sbaglio andare dietro a un abbaglio?
Eppure dietro ogni «falso», c’è sempre un «fallimento» originario: un «da cui» che è il suo fallito mondo di provenienza, il suo «paradiso perduto», in luogo del quale esso si arrangia in quest’altro mondo, in questo «fuori di sé» in cui il «falso» si proietta in cerca di un riparo. Di chi ripari il suo «guasto»…

Falso è ciò in cui ciascuno per sua disgrazia cade quando, deviando dalla «retta via» dell’«essere in sé», osa «sviare» il suo sguardo dalla Luce per affidarsi ciecamente a quel primo «falsario», all’Idolo che senza saper né leggere né scrivere l’introdusse all’arte dell’idolatria dell’«ente» su cui il suo occhio si trovò a cadere «fuori di sé». Sì, a quel primitivo fantasma che in illo tempore levò il sipario sul teatro delle sue «finzioni» mentali!
Finzioni: appunto! – simulazioni vuote di realtà, pure e semplici divagazioni, più o meno beate erranze nei pascoli di Manitù.

Parmenide? Chi era questo «falso poeta»? chi, questo mariuolo di sapienza spuntato all’improvviso nella piana di Paestum, anno più anno meno al tempo in cui vi sorgevano i templi? Da dove tutta in una volta questa smania a «costruire» templi e pensieri – a innalzare castelli in aria, o a impastarli sulla sabbia: ogni castello – un pensiero, e ogni pensiero una fabbrica di templi che una volta fabbricati ad altro non mirano che a darci ancora «da pensare»?
Erano quelli, templi e pensieri, mi domando: erano figli tutti di una stessa «lingua», o la piana di Paestum fu il crocevia in cui più «dialetti», per caso o per forza, si trovarono a parlare e, parlando, dovettero scoprirsi l’un l’altro – l’uno all’altro mostrando i «segni» del proprio alfabeto, le «sacre reliquie» dei propri antenati – chi sopra le nuvole, chi invece sotto la sabbia avendoli sepolti?

Joli-Paestum-

Resta che tre templi l’uno accanto all’altro danno nell’occhio: forse è proprio quello che i costruttori volevano attestare: volevano «segnare» un eccesso, volevano mostrare qualcosa del «mostro» che nella loro «lingua» avevano ammaestrato. Volevano «donare» ai dialetti indigeni qualcosa come la misura estrema con cui la loro «creatività» era giunta a misurarsi, fin là dove era stata capace di verbalizzare il «misurato» costringendolo a mostrarsi, a visualizzarsi, a farsi evidente, a svelarsi. Volevano consegnare ai «lontani» nella cui terra erano per caso sbarcati, il «plus ultra» di cui il loro «tesoro di sapienza» doveva disfarsi.

Forse erano afflitti da una sorta di «ricchezza» prossima alla dismisura, e saggiamente si curavano di «impoverirla» di quel tanto, e in virtù di quel «dono agli sconosciuti», che la tratteneva dallo sconfinare in quella che i greci chiamavano la ybris – l’«esagerazione», il «troppo che storpia» tanto nella gioia quanto nel dolore (Archiloco). Anche i pensieri, quando sono troppi da pensare, conviene «sconfessarli» di quel «plus ultra» che li tiene sotto lo scacco d’un delirio di onnipotenza.
Allora più che mai, conviene «falsarli»…