C’era una volta un uomo che non aveva eguali nella caccia ai maiali selvatici. Egli immancabilmente uccideva cinque o sei bestie, mentre il giaguaro che seguiva anch’esso il branco, non ne prendeva più di uno o due.
Così la belva decise di tramutarsi in donna, e sotto queste nuove sembianze affrontò il cacciatore chiedendogli quale fosse il suo segreto.
«È il frutto di un lungo esercizio», rispose quest’ultimo. Allora la donna-giaguaro gli propose il matrimonio, ma, conoscendo la sua vera natura, l’Indio esitava. Essa riuscì però a convincerlo che insieme avrebbero ucciso molti più maiali che ognuno separatamente.
Furono felici per molto tempo. La donna si mostrava una buona moglie poiché, oltre che nella cucina e nell’affumicamento della carne, eccelleva anche nella caccia.
Un giorno, ella chiese al marito se avesse ancora i genitori, una famiglia e, dopo la sua risposta affermativa, suggerì una visita al villaggio, dove certo lo credevano morto. La donna conosceva la strada e avrebbe guidato il marito, ma a condizione che questi promettesse di non rivelare mai la sua origine.
Giunsero pertanto al villaggio portando molti maiali. La madre dell’indigeno volle subito sapere da dove veniva questa sposa affascinante. Senza altre precisazioni, egli si limitò a dire che l’aveva incontrata per caso nella foresta.
Ogni giorno la coppia portava una quantità prodigiosa di selvaggina, e gli abitanti del villaggio cominciarono ad avere dei sospetti. Dapprima l’indigeno non acconsentì a rivelare nulla, ma la madre lo tormentò tanto che egli finì per confidarle il proprio segreto. Gli altri lo strapparono alla vecchia ubriacandola.
La donna-giaguaro, che aveva udito tutto questo senza essere vista, si sentì così umiliata che fuggì ruggendo. Non fu mai più rivista. Inutilmente il povero marito corse nella boscaglia chiamandola ovunque. Essa non rispose mai, mai.
***
Questo mito chiude un gruppo mitologico, di cui la storia di Maba, la Donna-Miele che si tramuta in ape, è viceversa l’ouverture.
Si tratta, di fatto, di un ciclo di trasformazioni che si generano per mezzo di un unico algoritmo definito da queste due operazioni:
Ammesso che nei miti di questo gruppo il principale protagonista è un animale, il gruppo può essere ordinato se e solo se:
1. restando immutata l’identità dell’animale in due miti consecutivi, il suo sesso si trova invertito;
2. restando immutato il sesso dell’animale in due miti consecutivi, la sua natura specifica si trova «invertita».
La storia di Maba, ovvero della Metamorfosi di Donna in Animale, ci offre il primo animale della serie: l’Ape, la Donna-Ape.
È dunque l’Ape femmina che dà inizio alla Serie, nel seguente ordine:
1. da Ape femmina ad Ape maschio (Warrau: Ape diventa genero);
2. da Ape maschio a Rana maschio (Arawak: La storia di Adaba);
3. da Rana maschio a Rana femmina (Warrau: La freccia rotta);
4. da Rana femmina a Giaguaro femmina (Carib: La rana madre del giaguaro);
5. da Giaguaro femmina a Giaguaro maschio (Warrau: La bambina rapita);
6. da Giaguaro maschio a Giaguaro femmina (il qui presente mito).
È chiaro che l’ultima delle sei trasformazioni non è dello stesso tipo delle altre. Anziché aprire la via a una nuova trasformazione, essa non fa altro che annullare l’operazione immediatamente anteriore, cosicché, prese insieme, le equazioni 5 e 6 generano una trasformazione identica: una sostituisce un giaguaro femmina con uno maschio, l’altra ritrasforma il giaguaro maschio in giaguaro femmina.
Come una sarta che termina la sua opera, ripiega l’orlo del tessuto e lo cuce dietro, nella parte invisibile, affinché l’insieme non si sfilacci, così il gruppo giunge a compimento ripiegando la sesta trasformazione sulla quinta alla maniera di una orlatura.
Se ora consideriamo il contenuto del nostro mito, vediamo che esso non si limita a finire il gruppo in una delle due estremità: è nella totalità che esso permette al gruppo di richiudersi su se stesso e che fa di questo gruppo un sistema chiuso.
Eccettuando solo la trasformazione di una Donna-Ape in Donna-Giaguaro, il nostro mito racconta esattamente la stessa storia di Maba – quella cioè che ha fornito alle sei variazioni il loro «tema».
In entrambi i miti gli sposi hanno una vocazione identica: il marito di Maba è a sua volta il miglior raccoglitore di miele della tribù, il marito della Donna-Giaguaro è un cacciatore senza eguali, ma solo di maiali, mentre gli accade di essere superato nella caccia all’altra selvaggina.
Ora, se il miele è evidentemente il termine mediatore fra l’ape e l’uomo, il maiale selvatico occupa un posto analogo fra l’uomo e il giaguaro:
uomo – miele – ape
uomo – maiale – giaguaro
In entrambi i miti, l’eroina manifesta la stessa premura verso i suoi parenti acquisiti: una dopo il matrimonio, l’altra prima. Abbiamo dimostrato il valore topico di questo tratto [mettere su famiglia], che permette di consolidare in un sol gruppo i miti la cui eroina è una ragazza caratterizzata sotto l’aspetto del miele (che ne sia avida o prodiga) nella Guayana e nel Chaco, e che fornisce quindi una prova supplementare che anche il nostro mito ne fa parte.
Ma, se la sesta e ultima variazione riconduce puramente e semplicemente al tema pur testimoniando, mediante la sua funzione reduplicativa, che è inutile cercare più oltre e che il gruppo, fermatosi a una delle sue estremità, è del resto un gruppo chiuso, il carattere statico così riconosciuto al gruppo non contravviene forse al principio, secondo il quale ogni trasformazione mitica sarebbe caratterizzata da uno squilibrio che è la garanzia del suo dinamismo e al tempo stesso il segno della sua incompletezza?
Per risolvere questa difficoltà, conviene ricordare l’itinerario molto particolare che le trasformazioni successive del tema ci hanno imposto.
Tutti questi miti, abbiamo detto, si riferiscono meno a una origine che a una perdita. Anzitutto: perdita del miele, primitivamente disponibile in quantità illimitate e divenuto adesso difficile da trovare. Quindi: perdita della selvaggina, una volta abbondante, e ora resa rara e sparsa. Perdita, poi, della cultura e delle arti della civiltà, secondo la storia di Haburi, «padre delle invenzioni», che dovette disertare gli uomini per sottrarsi alle iniziative della Rana.
C’è infine una perdita ancora più grave delle altre: quella delle categorie logiche fuori dalle quali l’uomo non può più concettualizzare l’opposizione tra natura e cultura, né superare la confusione dei contrari: il fuoco di cucina è vomitato, il cibo trasudato, ed è abolita la distinzione fra l’alimento e l’escremento, fra la ricerca alimentare del Giaguaro antropofago e quella dell’uomo.
Come un crepuscolo degli dèi, i miti descrivono dunque questa disgregazione ineluttabile: da un’età dell’oro nella quale la natura era docile all’uomo e prodiga verso di lui, passando per un’età del bronzo nella quale l’uomo disponeva di idee chiare e di opposizioni ben nette per mezzo delle quali poteva ancora padroneggiare l’ambiente, a uno stato di indistinzione tenebrosa dove nulla può essere incontestabilmente posseduto e tanto meno conservato, poiché tutti gli esseri e le cose sono mescolati.
Questo movimento universale verso la confusione, che è anche una caduta verso la natura, e che è così caratteristico dei nostri miti, spiega la loro struttura in fin dei conti stazionaria. Quest’ultima testimonia dunque, ma in un altro modo, la presenza di uno scarto costitutivo fra il contenuto del mito e la sua forma: i miti riescono a illustrare una decadenza solo per mezzo di una struttura formale stabile, per la stessa ragione per cui dei miti che aspirano a mantenere l’invarianza attraverso una serie di trasformazioni sono costretti a ricorrere a una struttura che poggia in falso.
Lo squilibrio esiste sempre, ma, a seconda della natura del messaggio, esso si manifesta con l’impotenza della forma a piegarsi alle inflessioni del contenuto, nei confronti del quale essa si situa ora al di qua: costante se il messaggio è regressivo; ora al di là: progressiva se il messaggio è costante.
All’inizio del libro siamo partiti dall’ipotesi che il miele e il tabacco formino una coppia di opposizioni e che, di conseguenza, la mitologia del miele e quella del tabacco debbano corrispondersi simmetricamente.
Adesso cominciamo a intuire che questa ipotesi è incompleta, poiché, dal punto di vista delle loro rispettive funzioni mitiche, il miele e il tabacco hanno relazioni più complesse.
Il seguito del lavoro mostrerà che nel Sudamerica la funzione del tabacco consiste nel rifare quello che la funzione del miele ha disfatto, ossia nel ristabilire fra l’uomo e l’ordine soprannaturale una comunicazione che la potenza seduttrice del miele (che non è altro che quella della Natura) l’ha indotto a interrompere: «Al tabacco piace ascoltare i racconti mitici. È per questo – dicono i Kogi – che cresce vicino alle abitazioni».
I cambiamenti a vista, che le sei variazioni hanno per così dire operato sotto i nostri occhi, somigliano dunque alle rapide oscillazioni della lamina di una molla di cui solo un’estremità è fissa, mentre l’altra, bruscamente liberata dalla rottura del cavo che la tendeva, vibra nei due sensi prima di immobilizzarsi.
Solo che, anche qui, l’evento si svolge alla rovescia: senza il tabacco che la mantiene tesa verso il soprannaturale, la cultura, ridotta a se stessa, può soltanto fluttuare indecisa da una parte all’altra della natura. Passato un certo periodo, il suo slancio si smorza e la sua inerzia l’immobilizza nell’unico punto in cui la natura e la cultura si trovano, se così si può dire, in equilibrio naturale, e che noi abbiamo definito con la raccolta del miele.
In un certo senso, tutto era quindi giocato e consumato sin dalla prima variazione, poiché essa aveva per oggetto il miele. Le altre si sono limitate a tracciare, con una crescente precisione, i limiti di una scena lasciata vuota dopo la fine del dramma.
Non ha quindi molta importanza che esse siano state più o meno numerose. Come quegli accordi che concludono le sinfonie di Beethoven e a proposito dei quali ci si chiede sempre perché l’autore ne ha voluti in tal numero e che cosa l’ha distolto dal metterne di più, esse non concludono uno sviluppo in corso. Questo sviluppo aveva già dato fondo a tutte le proprie risorse, ma era altresì necessario che un mezzo metalinguistico permettesse di inviare un segnale di fine messaggio, ottenuto con l’inserimento dell’ultima frase nel sistema dei toni, reso per una volta presente: quei toni che, per tutta la durata della trasmissione, avevano contribuito a rendere meglio le sfumature del messaggio modulandolo in varie maniere.
(Lévi-Strauss, Dal miele alle ceneri)
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Trovato il logaritmo, la pariglia cioè di coppie interscambiabili secondo il sesso (maschio/femmina) o secondo la forma (da una specie animale all’altra) – ecco ritrovata una (possibile) trama della Sceneggiata sudamericana.
Abbiamo, grazie all’intuizione di Lévi-Strauss, una sequenza di sei Scene a partire da un Antefatto. E l’Antefatto, ci tiene a precisare Lévi-Strauss, narra «meno di un’origine che di una perdita». Se è un’arkhé, se è un principio, se è l’Inizio, è l’arkhé, l’inizio, l’incipit di un mondo successivo al Dramma di una perdita.
Quando s’alza il sipario, la «cosa» è già successa. La perdita, la mancanza è già stata accusata, e non bastano tre napoletane a coppe spade e denari per turare la falla di tale fallimento.
È l’abbondanza di miele, la molteplicità illimitata di risorse alimentari e sessuali che caratterizzava l’Età dell’Oro, a essere andata perduta. E se il miele in quanto cibo «nudo e crudo», cibo che non ha bisogno di essere «lavorato», spontaneo dono della Natura, è – come dice Lévi-Strauss – la metafora più facile e immediata della stessa Natura, allora ciò che assieme al miele è andato perduto è l’anello di congiunzione con cui una volta la Natura stringeva a sé la Cultura. Vuol dire che, da allora, in principio di questo nostro mondo, è stata chiusa, ostruita, sbarrata l’antica via (la «retta», la più breve) di comunicazione tra la Terra e il Cielo.
Il Miele che è andato perduto, si narra nell’Antefatto, non è nessuno dei nostri mieli attuali. Era, ancora, un miele senza Api.
Questo Miele era la Donna.
Perciò il Racconto inizia dicendo: ci fu un tempo in cui alla Donna davamo il nome che oggi, dopo la catastrofe, diamo al prodotto secreto dalle api: Miele era il «vocabolo», e una volta non alludeva ad altro che a Lei, l’Immaginata – anzi, in verità, dapprima l’Udita (la voce che parla da dentro l’Albero, o ancora: la statua che Michelangelo presentiva nel marmo, e che gli diceva: su, togli via il superfluo e … mi vedrai. O forse no: era Pinocchio che lo diceva a Mastro Geppetto).
La Donna concepita dall’immaginazione del Cercatore – ecco chi è che si chiamava Miele.
Non abbiamo perso il miele delle api, anzi – questo ce l’abbiamo, e a dire il vero, ci piace talmente tanto che possiamo affogarci dentro la Perdita: quella che irrimediabilmente abbiamo perso – la Donna-Miele, il miele che Natura secerne nel linguaggio immaginario di ogni cucciolo della nostra Specie.
Non è questa, come dice Lacan, la tipicità dell’Uomo? non è il suo «erotismo» (e qui propriamente intendo: la lunga infinita Chiacchiera che l’Uomo fa intorno alle sue smanie di copulare con Afrodite), non è quest’altro, nuovo, linguaggio a fare la differenza rispetto a tutti gli altri animali? E allora com’è che, una volta sparita la Donna dalla Scena, non facciamo altro che passare da una bestia all’altra, disperatamente a tentare di rintracciarla dove, il Racconto lo dice chiaramente, Lei non è?
Non abbiamo perso tanto il miele, la civiltà, le arti e il loro linguaggio facile e immediato. No: il Racconto dice che abbiamo perso la Donna. Che abbiamo perso per sempre Donna-Miele. Che abbiamo perso la sua dolcezza.
Le bastava intingere un dito mignolo nel calice delle nostre amarezze per farle fermentare in gioia e lussuria immaginale. Ma dov’è? dov’è più Lei, se non là dove, nominandola, l’abbiamo costretta a fuggire via dalle nostre immagini?
Alla Sceneggiata possiamo perciò dare un titolo. Il titolo è: quando Lei se ne andò … e il sottotitolo: Lei se ne andò proprio quando ci venne in mente di darle un titolo, un nome, un segno di riconoscimento.
Che delusione! Ha ragione Lacan: ci siamo dentro fino al collo a questa Delusione. E da allora, abbiamo solo da rincorrere, da una scena all’altra, le ricadute nella Natura, le deiezioni della Donna-Miele, le sue metamorfosi ora in questa, ora in quell’altra bestia.
Ricadute? C’è da sperare che si rialzi? E che, finito il giro delle metamorfosi, la Forma-Miele ci ritorni alla mente?
Questo, la Commedia ce lo deve dire: sì o no?
Dalla risposta, ovviamente, dipende se avremo un finale tragico o uno tutto da ridere.
Il Racconto sudamericano, o quantomeno l’ipotetica ricostruzione che ne fa Lévi-Strauss, dice: Donna si trasforma in Ape, da Miele «in persona» in produttrice di miele (alimentare e sessuale); poi da Ape – passando per la mediazione di due maschi – in Rana (produttrice di veleno seducente), e infine, nuovamente passando per un’analoga mediazione di due maschi, si trasforma in Giaguaro (antropofago, Orco divoratore di bambini) per riacquistare così, sia pure fuggevolmente, la forma di Donna Umana.
La Sceneggiata si conclude così: con la riapparizione della Donna che era scomparsa nell’Antefatto. E che questa Donna ricompaia svestendo la sua originaria forma di Giaguaro è tutto quanto la Sceneggiata viene a dirci.
Viene a dirci che la Donna che non è più, per breve tempo, ci riappare – ci viene per così dire restituita dalla Bestia che più di tutte va matta per la carne umana. D’accordo, della Donna-Miele, questa non è che l’ultima, l’attuale, la sola reale, per quanto provvisoria, controfigura. Non ci resta perciò che attaccarci a questa sua ultima ombra, per quel breve tempo che la Scena sembra illuminarla nelle fattezze della Donna. Non sarà più Miele, vabbè, però in compenso ci procura tanti saporiti maiali selvatici.
Va da sé, il Racconto lo dice, che finanche il successo del «matrimonio» con quest’ultimo resto del Fantasma che fu, è vincolato ancora, pur dopo tante metamorfosi, all’antica condizione: anche Lei non chiede altro che d’essere lasciata senza nome. Neanche Lei ama essere «pubblicata». Non è meno permalosa di tutte le (Fate) Animali che l’hanno preceduta.
La sesta e ultima variazione, dice Lévi-Strauss, ci riporta all’inizio – come se tutto il giro per i racconti, consciamente o inconsciamente, non mirasse ad altro che a ripetere uno Stesso evento: l’apparizione e la sparizione della Donna; come se, al termine della peregrinazione, non toccasse al Narratore come all’Ascoltatore che di rivivere lo Stesso.
Lo Stesso non è stato risolto. Se gli dai un nome qualunque, non è più lo Stesso, ma quell’altro, il segno, che ne prende il posto.
La Donna-Miele del linguaggio immaginario non è nessuna delle donne «attuali». Lei non è più dacché la prima volta è stata «nominata».
Da allora, da quando siamo entrati nel nuovo mondo, nel Mondo dei Nomi, il suo «miele», l’Introvabile, ci siamo visti costretti a chiederlo alle api. Ma le api si sono infastidite per le nostre continue intrusioni. E allora abbiamo bussato alla porta della Rana, perché ci desse un altro miele ancora, il miele della Seduzione, il solo che a quel punto ci pareva avesse qualcosa a che vedere, un certo vago sapore di somiglianza con Miele, con Donna-Miele.
Avete visto com’è andata a finire. La Rana ci ossessionava, ci toglieva il respiro, ci possedeva. Ci siamo dovuti fabbricare una barca per attraversare il mare e liberarci di lei.
Sennonché, quando ormai nessuno più se l’aspettava, eccola sbucare dal nulla, di nuovo: Lei, la Donna, la Forma-Miele dell’immaginazione.
Eravamo già stati ingoiati dal Giaguaro e dal suo linguaggio simbolico, oh: era passato tanto tempo, e di Lei, di Miele, chi si ricordava più? Eravamo, come sant’Antonio, abili ad accompagnarci ai porci, abili a cacciare nel bosco la carne selvatica – quand’ecco, chi se l’aspettava più?, di nuovo … Lei, la Fanciulla riapparsa all’altro capo del filo del labirinto: all’estremità simbolica del nostro linguaggio, là dove si parla di «metter su famiglia», di fidanzarsi e di fare all’amore, anzi, più precisamente, di avere gli organi adatti alla bisogna (e dunque niente vagine chiuse, niente peni corti) – a quest’altra estremità, che è alla fine del mondo, e che vibra, sciolta nel vuoto della nostra «attualità», tutto c’era da immaginarsi fuorché quello che all’improvviso, miraggio, ci successe: una porta aperta dal Canto!
Che la Parola, il Simbolo, apra le porte e che, di là dalla Porta, abbia la potenza di farci riapparire Lei, l’Immaginata, l’Antica, l’Anonima – questo è un fatto. Per il Racconto non può non essere un fatto, perché se non fosse così – a che «contare» e «raccontare»? se il Racconto non avesse in sé la Magia di farla riapparire, qui, attuale, all’altro capo del mondo, se non avesse facoltà di dire il Possibile, e di dirlo per un momento come se stesse realmente accadendo – a che perdersi in chiacchiere?
La «cosa» è successa a Miele nel mondo senza parole. Ma è dovuta risuccedere a Donna-Giaguaro per divenirci cosciente. Per farci capire che, là dove Miele è sparita, nella vuota contrada della sua assenza si è aperto un mondo. È svanita nel mondo delle parole Donna-Miele? Eppure, proprio da lì, dalle parole, a volte, ritorna e – poiché il Signore delle Parole del Racconto è il Giaguaro – Lei che dal Racconto ci risorge innanzi, non può che essere l’ultima Donna degna degli accordi di Beethoven: la Donna-Giaguaro.
Non è più la Donna-Pianta, la Radice «vegetale» delle nostre nevralgiche connessioni immaginali, è un’altra. L’Ultima Donna è da uno squarcio della forma animale che ci ritorna. Perciò, in Lei della primitiva dolcezza di Miele non v’è traccia.
Miele è perduta per sempre. Di Lei non rivediamo che forme aberranti.
La Sceneggiata prende dunque la piega della Tragedia. La disgregazione è ineluttabile, la confusione è in agguato, le idee chiare non ci sono più chiare come una volta, siamo a un passo dal perdere ogni orientamento. Quasi non vediamo più un confine tra l’Uomo e la Bestia. Tra la Cultura e la Natura. Non abbiamo le parole per dire quelli che più non siamo, quelli che fummo ai tempi in cui eravamo «naturali», Mieli noi stessi allo stato grezzo.
Poiché non siamo più grezzi, ma «pezzi di legno» lavorati ad Arte, a uso cioè e consumo dei mestieri della Tribù, il mondo Miele ci si è ineluttabilmente disfatto.
È proprio una Tragedia. È proprio quella Tragedia che alimenta i pozzi della nostra Delusione Permanente. Il sistema, dice Lévi-Strauss, è «chiuso». Se corri appresso al miele, e solo al miele, da questi colori a lutto non ne esci.
Il miele è Natura che seduce, è il «bello naturale» che chiama a sé, a rimanere attaccati alla Natura, a rimanerci dentro, a non cercare nessun «altrove», nessun Oltre. A stoppare qui la «macchina» della nostra creatività. In una lagna nostalgica.
Se tutto il Racconto fosse solo il racconto (della perdita) della Donna-Miele, non avremmo nessuna via d’uscita – stando al Narratore sudamericano.
Ma grazie a dio, così non è. Grazie alla Natura stessa, non siamo prigionieri della Tragedia. Perché la Natura ci ha fatto un altro Dono, il dono del Fumo, della Cenere e del Tabacco.
Sicché, il mondo disfatto, se fumato, può essere rifatto. L’«immaginario» perduto nel «simbolico», se cantato, riapre le porte chiuse. Se elevato al cielo, per quanto folle possa essere il gesto di cotale «sacrificio a nulla», ci trascina a volte con sé fino al Paese delle Nuvole, in questo modo assentandoci alla Tragedia «reale» e «inconsolabile» della perdita di Miele.
Chiedo scusa, ho bisogno di accendermi un’altra sigaretta.