Lacan – L’io è una funzione immaginaria

L’io, nel suo aspetto più essenziale, è una funzione immaginaria. Questa è una scoperta dell’esperienza e non una categoria che quasi qualificherei a priori, come quella del simbolico.
Con questo punto, direi quasi con questo solo punto, troviamo nell’esperienza umana una porta aperta su un elemento di tipicità. Beninteso questo elemento ci appare alla funzione-immaginesuperficie della natura, ma sempre sotto una forma deludente.
È su questo punto che ho voluto insistere parlando dello scacco delle diverse filosofie della natura. Essa è deludente anche per quanto riguarda la funzione immaginaria dell’io. Ma è una delusione in cui siamo dentro fino al collo. Dato che noi siamo l’io, non solo ne abbiamo l’esperienza, ma essa è una guida della nostra esperienza così come i diversi registri che sono stati chiamati guide di vita, e cioè le sensazioni.

La struttura fondamentale, centrale, della nostra esperienza, è propriamente di ordine immaginario. E possiamo anche cogliere a che punto questa funzione sia già distinta nell’uomo da quello che essa è nell’insieme della natura.
La funzione immaginaria, la ritroviamo nella natura sotto mille forme – si tratta di tutte le captazioni gestaltiste legate alla parata, così essenziale per il mantenimento dell’attrazione sessuale all’interno della specie.

Ora, la funzione dell’io presenta nell’uomo caratteristiche distinte. Questa è la grande scoperta dell’analisi – a livello della relazione generica, legata alla vita della specie, l’uomo funziona già differentemente. Vi è già in lui un’incrinatura, una profonda perturbazione della regolazione vitale.
Risiede qui l’importanza della nozione di morte apportata da Freud. Non che l’istinto di morte sia una nozione così luminosa in se stessa. Ciò che bisogna cogliere, è che è stato costretto a introdurla per ricondurci a un dato nevralgico della sua esperienza, in un momento in cui si cominciava a perderla.

Come vi facevo notare poco fa, quando un’appercezione sulla struttura è in anticipo, c’è sempre un momento di cedimento in cui si tende ad abbandonarla.
È successo così nella cerchia freudiana quando il senso della scoperta dell’inconscio è passato in secondo piano. Si è ritornati a una posizione confusa, unitaria, naturalistica dell’uomo, dell’io, e così anche degli istinti.

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È proprio per ritrovare il senso della sua esperienza che Freud ha scritto Al di là del principio di piacere. Vi mostrerò per quale necessità è stato condotto a scrivere questi ultimi paragrafi, di cui sapete la sorte riservata loro dalla generalità della comunità analitica.
Dicono che non ci si capisce niente. E persino quando, seguendo Freud, si accetta di ripetere istinto di morte, non lo si capisce più di quanto i giacobini, così finemente colpiti dagli strali di Pascal nelle Provinciali, non capissero la grazia sufficiente.
Chiedo a tutti voi di leggere questo straordinario testo di Freud, incredibilmente ambiguo, perfino confuso, di leggerlo più volte – altrimenti non coglierete la critica letterale che ne farò.

Gli ultimi paragrafi sono letteralmente rimasti lettera sigillata e bocca chiusa. Non sono ancora mai stati chiariti. Non possono essere compresi se non si vede ciò che l’esperienza di Freud ha voluto apportare.
Egli ha voluto a tutti i costi salvare un dualismo, nel momento in cui questo dualismo gli si scioglieva in mano, e in cui l’io, la libido, ecc., tutto questo faceva una specie di vasto tutto che ci reintroduceva a una filosofia della natura.

Questo dualismo non è nient’altro che ciò di cui parlo quando metto in rilievo Dominguez-macchina-cucirel’autonomia del simbolico. Questo, Freud non l’ha mai formulato.
Per farvelo comprendere, occorrerà una critica e un’esegesi del suo testo. Non posso fin d’ora considerare acquisito appunto ciò che è da provare quest’anno. Ma credo di potervi dimostrare che è fondata la categoria di azione simbolica.

HYPPOLITE: – Non dicevo il contrario. Se comprendo bene, la funzione simbolica è per lei una funzione di trascendenza, nel senso che, a un tempo, non possiamo restarci, non possiamo uscirne. A cosa serve? Non possiamo farne a meno, e tuttavia non possiamo nemmeno installarci.

Sicuramente. È la presenza nell’assenza e l’assenza nella presenza.

HYPPOLITE: – Volevo capire quel che c’era da capire.

Se vuol mantenere ciò che mi ha proposto sul piano fenomenologico, non ho alcuna obiezione da fare. Solamente, credo che non sia sufficiente.

HYPPOLITE: – Senza dubbio. Lo credo anch’io.

E a dire il vero, per il fatto di essere puramente fenomenologico, questo non ci fa avanzare molto.

HYPPOLITE: – Lo penso anch’io.

Ciò non può che velare il progresso che dobbiamo fare, dando in anticipo la colorazione che ne deve rimanere. L’uso che faccio del registro simbolico deve, sì o no, portare a situare da qualche parte la trascendenza che, dopo tutto, deve pur esistere? È di ciò che si tratta? Non credo.
Le allusioni che ho fatto a una utilizzazione del tutto differente della nozione di macchina sono forse lì per indicarglielo.

HYPPOLITE: – Le mie questioni non erano che questioni. Le ho domandato che cosa le permetteva di non rispondere alla questione di Mannoni, dicendo che non c’era da surreal-macchina-scrivererispondere, o almeno che a rispondere si andrebbe fuori strada.

Ho detto che non credo sia in questo senso che si può dire che Claude Lévi-Strauss ritorna alla natura.

HYPPOLITE: – … rifiuta di ritornarci.

Ho anche indicato che, beninteso, dobbiamo tener conto del versante formale della natura, nel senso in cui lo qualificavo come asimmetria pseudosignificativa, poiché è di questo che l’uomo si impadronisce per fare i suoi simboli fondamentali. L’importante è ciò che dà valore e funzione simbolica alle forme che sono nella natura, ciò che le fa funzionare le une in rapporto alle altre.
È l’uomo a introdurre la nozione di asimmetria. L’asimmetria nella natura non è né simmetrica, né asimmetrica – è quello che è.

La prossima volta vorrei parlarvi di questo – l’io come funzione e come simbolo. È qui che opera l’ambiguità. L’io, funzione immaginaria, non interviene nella vita psichica che come simbolo. Ci si serve dell’io come il Bororo si serve del pappagallo. Il Bororo dice: sono un pappagallo, noi diciamo: io sono io (je suis moi). Tutto ciò non ha alcuna specie d’importanza. L’importanza è la funzione che ha.

O. MANNONI: – Dopo Lévi-Strauss, si ha l’impressione che non si possano più usare le nozioni di cultura e di natura. Le distrugge. È così anche per l’idea di adattamento di cui parliamo continuamente. Essere adattato vuol dire essere vivente.

C’è del giusto. È dello stesso ordine di ciò che ho appena evocato dicendo che a un dato momento Freud ha voluto a tutti i costi difendere un certo dualismo. Per via dell’evoluzione rapida della teoria e delle tecniche analitiche, Freud si era trovato in presenza di una caduta di tensione analoga a quella che lei ritrova nello spirito di Lévi-Strauss. Ma, per quanto lo riguarda, non è forse la sua ultima parola.

(Lacan, Il Seminario: 2)

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L’io è un altro, s’era detto.
Bene, aggiungi: quest’altro è una funzione immaginaria, che funge (il Corvo «loquace» ne sa qualcosa) nelle derivate simboliche, e là (nelle parole di Corvo Nero) si confonde (era Bianco e non lo è più) questo mezzo Maestro che prende quel che dice per qualcosa di «reale».
Sarà perciò difficile fare a meno di confondersi – finanche Apollo perse la pazienza, e confuse la Realtà col Racconto di Corvo.
C’era dunque stato davvero un Tradimento?

Stiamo seguendo Lacan sul suo terreno trinitario (reale, immaginario, simbolico), vediamo dove ci porta.
Se l’immaginario è il linguaggio «naturale», analfabetico e ignorante, di cui Mamma Physis ci provvede – allora le «forme gestaltiste», tipi e fenotipi, che si fanno la corte, hanno solo da danzare e musicare il loro tempo, la loro Stagione Afrodisiaca.
Nessuna è più bella di Coronide, agli occhi di Apollo. A ogni sguardo, la sua Core. A ogni immaginazione, la Forma prediletta, la Forma in cui trionfa lo sguardo di Narciso. Apollo desidera Coronide. Coronide disegna la curva del desiderio di Apollo. È un gioco da ragazzi «fare all’amore».

L’«amore» non si fa che nell’immaginario infantile. Poi, è un’altra cosa. Poi, per cominciare, il trionfo, il giubilo ama dire Lacan, lascia il posto a una, e una sola, tragedia.
bambina-appesa-lunaApollo «licenzia» il corvo di malaugurio, e l’abbandona al suo destino, lo lascia là, sul posto, a dire: io sono io – fedele nei secoli: a dirlo, convinto di dire la Realtà.

Ovidio docet: Corvo è chiacchierone, tutto qui!
Lacan postilla: è vero, chiacchiera, ma quel che non dovremmo omettere è che chiacchiera di sesso, amore e desiderio, chiacchiera di seduzioni, di fedeltà e di tradimenti.
Cosa dice qui Lacan?
Dice che ci differenziamo dagli altri animali soprattutto in questo: facciamo un casino della madonna, a proposito delle nostre copulazioni.
La tipicità umana – finalmente, qualche dottore comincia a sospettarlo – è ben lontana dalle sintesi a priori di Kant. Niente a che vedere con la trascendenza intelligibile di un «io penso» (gli «intelligibili» sono sì Forme, ma Forme astratte, qui come non mai si dovrebbe dire «estratte» dal Legno naturale, per dare valore e funzione simbolica alle forme che sono nella natura).

La tipicità umana si può cogliere più acerba di quanto Kant prevedesse. Si può andare più indietro nel tempo. Si può, a ritroso, immaginare una bestia ignorante che ha questo particolare «difetto»: non si limita a copulare, ma che di una copula puramente immaginaria arriva a fare una cupola del tempio della Chiacchiera.
Sono assai poco «libidinose» le filosofie della natura, perciò – dice Lacan – non vengono a capo di niente, e si scontrano, prima o poi, con l’Ineffabile, il Divino, il Trascendente, l’Aldilà. Come a dire: si mistificano, prendono a prestito le parole dei Mistici.

Non che i Mistici siano persone di poco conto.
Quelli che non contano, sono i Mistici non libidinosi – quelli che si guardano dal fare la Mistura, e che si curano di tenere le proprie dottrine, le proprie parole, le proprie derivate simboliche, al riparo dai demoni dell’Immaginazione.
Beatrice, secondo costoro, sarebbe stata un diavolo, se Mastro Dante non si fosse preso la briga di scendere all’inferno della sua immaginazione, fin nelle latrine del proprio essere, per riscattarla dalla Maledizione di Corvo Nero.

Il propriamente umano, dunque, sarebbe questo: un libidinoso chiacchierare intorno alle proprie copule. E dunque (il passo è breve, e immagino che tutti l’abbiano già Giacobbe-sogna-scalapassato) un lagnoso chiacchierare intorno alle proprie delusioni.
Siamo un Animale Deluso, in principio.
In principio siamo un Apollo Tradito.
La nostra non è una copula tanto per copulare e riprodurre la specie. La nostra è una parata permanente, una seduzione continua, un incessante gioco ad attrarsi – trecentosessantacinque giorni all’anno (Lacan dice: una profonda perturbazione della regolazione vitale)!

Siamo un Animale Turbato, in principio.
Ogni giorno è Festa nel Calendario di questa Bestia, così speciale, ma non per intelligenza (finiamola di prenderci in giro!), bensì per libidine che non si contiene nei tempi a cui sono invece limitati gli altri animali.
C’è qui un eccesso di ricerca di piacere, un’impotenza a fare a meno di «copulare», ma perché? Perché, se non perché quest’Animale ha da combattere tutti i giorni e tutte le notti una battaglia contro il suo istinto a lasciarsi morire?

Perché è qui – dice Lacan – in questa continua, eccessiva, ininterrotta «domanda di miele» che si caratterizza la nostra Umanità. Ed è qui che Freud, per «pareggiare» tanto ardore, tanta smania di copulare, tanta voglia di vivere, è arrivato a ipotizzare un altrettanto potente «istinto a morire», a farla finita qui – perché, tanto, la birra è debole e insipida.
Poco importa, se poi è stato ambiguo, oscuro, o si è contraddetto. Aveva comunque messo il dito nella piaga, aveva toccato il nervo, e portato allo scoperto la natura propria dell’uomo (il porco di cui non può fare a meno sant’Antonio, il Mefistofele per cui dio nutre tanta «simpatia»). Può darsi che la tentazione di trovare un fondamento «biologico» ai nostri movimenti «psicologici» gli abbia fatto perdere di vista che anche la Biologia è un’«azione simbolica», anch’essa una «estrazione» dal Legno, di cui è – come tutti i nostri saperi – soltanto una voce nel bosco. Ma non importa.

I labbri di quella ferita – quando Uno divenne Due – non si ricuciono così facilmente. Ogni «guaritore» che prova a metterci le mani, finisce per trovarsi faccia a faccia col proprio dualismo.
Allora «saltano» i simboli, «crollano» le parole: dov’è più il confine tra vita e morte? dove tra piacere e crudeltà? dove tra cultura e natura?
Basterà davvero la categoria di «azione simbolica» a venir via da questi dilemmi? O sarà meglio seguire l’indicazione del Racconto, e fare come sant’Antonio? – lasciare che per primo il porco entri da solo nell’inferno, mentre noi, sulla soglia, ci intratteniamo a chiacchierare coi demoni?