Tanto tempo fa, viveva nel Giappone un bambino piccino, ma così piccino che non era più alto e grosso di un pollice, e perciò si chiamava Issun-boshi, qualcosa come il nostro «Pollicino».
Per quanto piccolo, Issun-boshi era però molto ben fatto e proporzionato. Aveva gli occhi neri tagliati a mandorla, e i capelli raccolti sulla testa in un grazioso ciuffetto. I suoi genitori gli volevano bene, e quando andavano a lavorare nella risaia lo prendevano con sé e lo mettevano a sedere sopra un ramoscello o un sassolino raccomandandogli di non muoversi, altrimenti poteva scivolare via in un rivolo d’acqua o cadere in qualche buco aperto dalle formiche.
Issun-boshi era un bambino ubbidiente: stava fermo a guardare i genitori che lavoravano, e talvolta si riparava dal sole con una fogliolina, o si sdraiava su un petalo di fior di ciliegio per schiacciare un sonnellino.
Intanto il tempo passava, anche per Issun-boshi. Egli non cresceva mai, ma incominciava a ragionare come un ometto. Mentre stava seduto sul sassolino o sul ramoscello vedeva, nelle risaie vicine, gli altri ragazzi che si davano da fare per aiutare i loro genitori: chi stava chino sull’acqua per trapiantare il riso, chi affastellava gli steli mietuti, e chi infine li legava con una corda, li appendeva a un bastone sulla spalla e portava a casa il raccolto.
Issun-boshi invece non era capace di far niente. Non era nemmeno andato a scuola, perché i suoi genitori avevano paura che cadesse nel calamaio o che restasse infilzato nella punta di un pennino.
«Così non può andare avanti! – si disse un giorno. – Non posso passare il resto della mia vita a farmi vento con un petalo di fior di ciliegio. Poiché non sono capace di lavorare, vorrei almeno studiare e diventare sapiente. Ma le scuole più importanti sono tutte in città… bene. Andrò in città, e riuscirò un giorno a essere utile al mio prossimo anche se sono tanto piccolino».
Detto fatto, scese dal ramoscello e si incamminò verso casa per chiedere il permesso al nonno, che era il capo della famiglia, e assomigliava a Issun-boshi, anche se aveva la faccia piena di rughe, e una barbetta sottile e trasparente. Il nonno ascoltò con attenzione Issun-boshi e approvò il suo progetto.
«Hai ragione – gli disse. – Fai bene a studiare perché chi più sa, più vale. Un giorno potrai diventare un uomo importante anche se sei tanto piccino. È meglio che tu vada in città per via acqua, navigando sul ruscello, lungo la strada potresti essere calpestato da qualche bufalo, o da qualche viandante. Prendi questa ciotola per il riso: ti servirà da barchetta; i bastoncini per il riso saranno i tuoi remi. Ma poiché potresti incontrare qualche pericolo è bene che tu sia armato. Eccoti un punteruolo che introdurrai in una festuca: così avrai la spada nella guaina. E ora ti benedico e pregherò gli dèi per te».
Issun-boshi si inginocchiò per ricevere la benedizione del nonno, poi ritornò alla risaia per avvertire i genitori. Anche i genitori lo benedissero e gli augurarono buona fortuna; quindi Issun-boshi collocò la ciotola del riso sulle acque del ruscello, vi saltò dentro, impugnò i remi e partì.
Il viaggio si svolse senza incidenti. Il ruscello ciangottava sui ciottoli e la sua voce gli faceva compagnia. Soltanto una volta Issun-boshi fece uso delle armi, e fu quando un ranocchio verde e giallo, incuriosito dalla strana imbarcazione, si avvicinò per vedere meglio, saltando dall’una all’altra delle foglie di ninfea, e si fermò nel mezzo del ruscello impedendogli la strada.
«Scostati! ché devo passare», ordinò Issun-boshi.
«Cra, cra!», rispose il ranocchio in tono impertinente.
Allora Issun-boshi sfoderò la spada e punzecchiò il ranocchio proprio sul naso. La bestiola spiccò un salto e si tuffò nell’acqua provocando delle onde che fecero dondolare paurosamente la barca.
Tuttavia, per fortuna, l’imbarcazione non si rovesciò, e Issun-boshi poté riprendere il viaggio e giungere in città senza incidenti. Con i remi spinse la ciotola fino alla riva e scese a terra, poi entrò in città facendo bene attenzione a non essere schiacciato dai passanti.
Come era bella la città, con case alte, pagode dagli strani tetti sovrapposti, viali di ciliegi fioriti, boschetti di salici piangenti, piazze larghe più di una risaia! Issun-boshi camminava rasente ai muri ammirando tutte quelle meraviglie, ed era tanto affascinato dallo spettacolo che non si accorse che il sole tramontava e che la sera calava pian piano. Ormai le strade erano deserte; tutti erano rientrati in casa e le porte e le botteghe erano chiuse.
«Come farò – si chiese Issun-boshi sgomento. – Non vedo né un albergo né una locanda. Proverò a bussare a qualche porta», e provò infatti, ma nessuno volle aprire, e neanche una finestra s’illuminò.
«Pazienza – si disse allora. – Canterò, così mi passa la malinconia». S’appoggiò allo stipite di una porta e incominciò a cantare.
Poco dopo la porta si aprì e apparve una fanciulla.
«Credevo che fosse un grillo a cantare – disse, rivolta a Issun-boshi. – Entra, sennò l’orco ti mangerà».
«Quale orco?», chiese Issun-boshi entrando nella graziosa casetta.
«Un orco tutto rosso che sta nascosto nel boschetto del tempio».
«Io lo ucciderò con la mia spada», esclamò Issun-boshi, e la fanciulla non rise, perché quel ragazzino tanto piccolo le piaceva.
Il giorno dopo andarono insieme al tempio, e Issun-boshi, piccolo com’era, fu costretto a compiere salti prodigiosi per salire la gradinata di marmo. Quando furono in cima, l’orco sbucò dal boschetto. Era enorme, tutto rosso, aveva due corna sulla testa e le unghie simili ad artigli. Tutti fuggirono e la fanciulla svenne; ma Issun-boshi si piantò a gambe larghe davanti al mostro.
«Mi fai ridere, gigante!», gridò.
«E io ti annienterò, moscerino!», rispose l’orco. E ci provò, infatti, ma Issun-boshi gli saltò sulla spalla e incominciò a punzecchiargli gli occhi.
L’orco cercava di afferrarlo, ma era come tentar di acchiappare un moscerino; Issun-boshi saltellava da tutte le parti e l’orco finiva col lacerarsi con i suoi stessi artigli. Infine il ragazzino gli entrò in bocca, e scese fin nella pancia: la trapassò con il suo punteruolo e l’orco cadde a terra, morto. Issun-boshi uscì dal buco assieme a un rivolo di monete d’oro.
Intanto la fanciulla, che era rinvenuta, corse a raccogliere l’ultimo respiro dell’orco e lo gettò verso Issun-boshi dicendo: «Issun-boshi, diventa grande!».
Immediatamente il ragazzo incominciò a crescere e si trasformò in un magnifico giovane, che, felice, s’inginocchiò davanti alla sua benefattrice. Da tutte le parti accorreva la gente, felice di essere stata liberata dal mostro e Issun-boshi fu portato in trionfo. Più tardi egli imparò a leggere e a scrivere con i pennellini finissimi sulla carta di seta. Divenne un grande sapiente, sposò la bella fanciulla, e visse a lungo con lei in una casetta circondata dai ciliegi e dai mandorli in fiore.
***
Non cresceva mai, ma intanto ragionava come un ometto.
Il Racconto parla chiaro, siamo noi che fatichiamo a intenderlo. L’«eroe» del Racconto è, ancora una volta, il cucciolo della nostra specie – il nano, il Pollicino o Mignolino di turno, il dattilo «spondeo», gli manca sempre una sillaba per essere al completo.
L’«eroe» è il Fanciullo Precoce, il Cucciolo nato al Linguaggio Simbolico (l’Orco) e al Gioco della Seduzione (la Rana, la Fanciulla) anzitempo, in anticipo sull’orologio dei suoi «genitali» (anche questa è una «perturbazione vitale»: mettersi, già a sei mesi, a riprodurre immaginariamente il Gioco dell’Amore per il quale non è ancora realmente attrezzato).
Non è un dettaglio da poco che Issun-boshi crescerà solo grazie all’«ultimo respiro» dell’Orco che ha appena «ucciso», e che a raccogliere questo «fiato della crescita» non sia lui con le sue proprie mani, ma la Fanciulla in vece sua.
Sempre Lei, la Core che «dal legno della porta» solo il canto di Issun-boshi ha saputo miracolosamente «estrarre».
La porta era chiusa, e nessuno – di là – rispondeva.
Toc, toc – non basta.
Ci vuole canto per estrarre la Fanciulla – l’immaginazione della Fanciulla – da un «corpo naturale» qualunque. Ci vuole un canto, sottolinea il Racconto, che la lasci «anonima». L’estratta non è né questa né quella – è Core, la Fanciulla, punto e basta.
E non è da poco nemmeno il fatto che a questa Anonima che è solo Immagine e Volto, solo Forma Naturale e niente Nome, a questa Selvaggia il Racconto non assegni altra «funzione» che quella di porre l’istanza inversa, aprire la porta, là dove la Rana fa di tutto per «chiudere» il cammino.
Cosa vuole, in fondo, la Rana dal bambino? Da buona Circe, non vuole altro che trattenerlo nel cortile dei porci che ha sedotto?
C’è una via di fuga dalla Rana – dice il Racconto.
Dice che il bambino può fuggire «via acqua». Al nostro Issun-boshi basta una ciotola per il riso, ad Haburi invece tocca fabbricarsi non so quante piroghe prima di riuscire a procurarsi quella buona.
Una volta però che sarà fuggito dalla Rana, non per questo il bambino sarà in salvo. Il Bambino dovrà fare i conti con l’Orco, dovrà misurarsi col Giaguaro, dovrà passare l’esame di Polifemo.
No, per favore, non dirmi che dico sempre le stesse cose – disse Socrate a Simmia. – Non sono io, ma è il Racconto che è afflitto dalla coazione a ripetere sempre la solita lagna, sempre a replicare quella «delusione»: non sono buono a niente, non servo, non sono all’altezza della mia Specie.
È il Racconto – disse Socrate a Simmia – è Lui che mette in scena i soliti Personaggi. È Lui che si è fissato sulle circostanze umane della copulazione. E perciò non fa che tramandare la replica delle mille e mille apparizioni della Fanciulla Senza Nome, della Fata che si cela in Donna-Ape e in Donna-Rana.
Chi sarà mai Costei? – questo è quanto ci resta da apprendere.
Chi mai può essere quest’altra Fata, è quanto fra poco apprenderemo. Questa Fata è assai più «istruita» di quanto pare: deve avere con l’Orco una certa qual «familiarità», se sa come «estrarne» il Soffio della Crescita.
Tieniti forte, sta per entrare in scena la Donna-Giaguaro.