Van Gogh non è morto per uno stato di delirio proprio,
ma per essere stato corporalmente il campo di un problema attorno al quale, fin dalle origini, si dibatte lo spirito iniquo di questa umanità.
Quello del predominio della carne sullo spirito, o del corpo sulla carne, o dello spirito sull’uno e sull’altra.
E dov’è in questo delirio il posto dell’io umano?
Van Gogh cercò il suo per tutta la vita con un’energia e una determinazione strane,
e non si è suicidato in un impeto di pazzia, nel panico di non farcela,
ma invece ce l’aveva appena fatta e aveva scoperto cos’era e chi era, quando la coscienza generale della società, per punirlo d’essersi strappato ad essa,
lo suicidò.
E questo avvenne per van Gogh come avviene sempre di solito, in occasione di un’orgia, di una messa, di un’assoluzione, o di qualche altro rito di consacrazione, d’invasamento, di succubazione o d’incubazione.
Si introdusse dunque nel suo corpo,
questa società
assolta,
consacrata,
santificata
e invasata,
cancellò in lui la coscienza soprannaturale che egli aveva appena assunto, e, come un’inondazione di corvi neri nelle fibre del suo albero interno,
lo sommerse con un ultimo sobbalzo,
e, prendendo il suo posto,
lo uccise.
Perché la logica anatomica dell’uomo moderno è proprio di non aver mai potuto vivere, né pensare di vivere, che da invasato.
(Artaud, Van Gogh: Il suicidato della società)
***
È più facile dirlo dei lontani che dei vicini. Van Gogh è uno di quelli che, all’altro capo del mondo, l’etnologo senza mezzi termini chiama i «morti per suggestione»!
Solo quelli che ci «muoiono», scoprono – troppo tardi! – d’aver vissuto solo una vita che gli era stata «suggerita».
Non si vede, la cosa non è appariscente, il grido di tanto strazio non fa rumore fino alla Gente: i malinconici, a uno a uno, tacitamente si lasciano morire, sono obbligati a lasciarsi morire – perché non trovano nessun’altra vita, e nessun piacere di viverla, lontano dalle credenze in cui non credono più.