Eros è una divinità strettamente ed essenzialmente affine a Ermes. Egli ha conservato sempre, nella mitologia greca, la figura di fanciullo, mentre anche il mitologema dell’emersione del Fanciullo è rimasto sempre riferito a lui.
La sua essenza – espressa col nome di Eros, amore, desiderio amoroso – è più univoca di quella di Ermes. Ma lo stesso tono fondamentale è manifesto anche in Ermes.
L’universo conosce una melodia – così potremmo indicare quel carattere alquanto complesso – dell’eterna connessione di amore, furto e commercio: questa melodia, in tonalità maschile, è Ermes. In tonalità femminile la stessa melodia (che è pur sempre differente come differenti sono uomo e donna) si chiama Afrodite.
L’affinità essenziale di Eros e Ermes si manifesta più chiaramente nei rispettivi rapporti con la dea dell’amore.
Afrodite ed Eros appartengono l’uno all’altra come forze e princìpi essenzialmente connessi. Eros, il fanciullo divino, è il compagno naturale di Afrodite. Quando però si vuole esprimere in una sola figura l’aspetto virile e femminile del comune carattere di Afrodite ed Eros, questa figura è Afrodite ed Ermes tutt’insieme: Ermafrodito.
A quest’essere bisessuale viene data, nel segno dell’ordinamento olimpico, la genealogia d’un bambino nato da Afrodite ed Ermes. Sono note le sue raffigurazioni ellenistiche e ancor più tarde. Ma l’«ermafrodito» non è affatto l’invenzione nuova di una tarda età decadente: in quell’arte questa figura ha già perduto il suo senso, raggiungendo il grado di una mera, benché certo molto attraente, applicazione.
Essa è un’immagine divina di tipo arcaico e primitivo. Esiste su questo tipo un’intera letteratura etnografica. La sua arcaicità nella sfera classica è dimostrata dal culto comune di Ermes e Afrodite ad Argo e dal culto di Aphroditos, l’Afrodite maschile, a Cipro che fa riscontro agli usi argivi.
Gli Etruschi conoscevano sin dai tempi più antichi le due divinità sotto lo stesso nome ellenico o, per essere più esatti, preellenico: essi chiamavano Ermes turms, Afrodite turan. Dove l’uno dei due è il «Sovrano» (ὁ τύραννος), l’altra è la «Sovrana» (ἡ τύραννος): una coppia divina antichissima o – nello strato più profondo – due aspetti dello stesso essere primordiale.
Il mitologema dell’emersione del Fanciullo divino dallo stato originario ricorre, presso i Greci, in connessione con due divinità: Eros e Afrodite e, corrispondentemente, si presenta in due variazioni: la nascita di un essere primordiale bisessuale e la nascita di Afrodite.
La prima variazione è quella orfica, detta così perché ci è rimasta conservata in una cosmogonia attribuita a Orfeo. All’inizio dei tempi un essere bisessuale è uscito dall’Uovo, dice questa variazione. Orfeo l’ha chiamato Phanes, mentre nel celebre coro degli Uccelli di Aristofane l’essere primordiale uscito dall’Uovo porta il nome di Eros.
In principio c’era Caos e Notte e Erebo nero, l’ampio Tartaro, ma non la terra, né l’aere, né il cielo; e nel grembo infinito di Erebo la Notte dalle ali nere partorì dapprima l’uovo senza germe, dal quale, col volgere delle stagioni, nacque l’amato Eros dalle spalle splendenti per le ali d’oro, simile ai veloci turbini del vento.
E unitosi nella notte all’alato Caos, nell’ampio Tartaro, egli pose il nido alla nostra stirpe, e per prima la condusse alla luce della vita.
Da principio non c’era la stirpe degli immortali, prima che Eros mescolasse tutti gli elementi. E una volta mescolati gli uni con gli altri, nacquero Urano e Oceano e Terra e la stirpe immortale di tutti gli dèi beati.
(Aristofane, Uccelli)
Non abbiamo alcun motivo di sospettare, nella bisessualità di questo essere, una tarda dottrina segreta creata a uso esclusivo di una particolare setta che sarebbe rimasta sempre estranea allo spirito ellenico.
I culti di Afrodite sopra menzionati che, con lo scambio di vesti tra uomini e donne, fanno apparire le differenze di sesso come possibilità variabili dello stesso essere divino, corrispondono al senso del mitologema orfico.
Ugualmente, la figura alata di Eros, nato da un uovo, non potrà venir separata dalle primitive dèe similmente alate del mondo arcaico, e il senso di queste figure si ritrova proprio lì, dove è il senso dell’ermafroditismo cultuale e cosmogonico.
Ambedue i caratteri – l’essere alati e la bisessualità – rimandano a quello stato primordiale pre-umano, anzi pre-infantile assolutamente indifferenziato, una delle cui forme di espressione è l’Acqua.
Eros occupa il primo posto tra i fanciulli a cavallo d’un delfino. Queste circostanze caratteristiche le possiamo ora esprimere anche in un altro modo: il fanciullo alato a cavallo del delfino, con in mano un animale così singolare e primordiale come la seppia, è quel fanciullo divino familiare con l’Acqua – il Fanciullo – uno dei cui nomi, il più noto di tutti, è Eros.
L’altra variazione esprime, sotto un certo aspetto, qualcosa di ancora più profondo, perché ancor più complessa.
È un noto mitologema: Esiodo ci racconta la nascita di Afrodite. Inutilmente era nata la generazione dei Titani, dalle nozze di Cielo e Terra, di Urano e Gaia. Urano aveva impedito l’emersione dei suoi figli dalle profondità della terra fino a quando Kronos, il più giovane di loro, non aveva compiuto, con l’aiuto della madre, qualcosa di terribile. Con una falce egli aveva reciso il membro di suo padre. Da questo è nato Afrodite, emergendo dalle onde schiumose.
In questa formulazione – come in una melodia che dice l’indicibile – punto di partenza e di arrivo coincidono, procreatore e creatura sono identici.
Il phallos è la creatura, e la creatura – Afrodite – è un eterno stimolo alla continuazione della Procreazione. L’immagine della Fanciulla neonata esprime qui la genesi stessa, l’origine atemporale, in modo così sintetico e così completo, come soltanto nel linguaggio della mitologia è possibile fare.
La nascita di Afrodite è quella variazione del mitologema del Fanciullo, che ci fa comprendere – sempre nella sola maniera valida per il mondo della religione greca – che procreazione e nascita, erme e immagini mitologiche – «variazioni sul Fanciullo» – esprimono, da simboli equivalenti, lo stesso inesprimibile.
(Kerényi, Il fanciullo divino, in Jung-Kerényi, Introduzione allo studio scientifico della mitologia)
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Il tema (musicale) è l’«apriti Sesamo» dei mondi – le chiavi, le serrature e le porte d’inferni e paradisi, di assonanze e dissonanze che aspettano solo di essere «numerate».
Il tema è l’Inizio – l’emersione del Fanciullo e/o della Fanciulla «dallo stato originario» a un altro piano e modo d’esistenza. E gli dèi, quelli che noi nell’emergenza di quest’altro «linguaggio» chiamiamo «dèi», non sono che differenti variazioni (Eros, Ermes, ma anche Apollo e Dioniso) e approcci narrativi diversi a quello stesso ineffabile mondo primordiale che precedette il nostro «c’era una volta». Modi cantati e suonati nel tentativo di coprire l’incontenibile vastità delle differenze, dei Molti avrebbe detto Platone, in cui l’Uno, l’Inizio, emerge dall’Indifferenziato.
Ma chi è che ogni volta «ricomincia», e che ogni volta «è iniziato» in modo nuovo e differente? chi altri può essere se non … il Tempo? chi mai può essere il Tiranno o la Tiranna, se non l’Irreversibile congiura sessuale in cui il Tempo ci stringe?
Una volta che ha preso una piega – erotica o ermetica, apollinea o dionisiaca – il Tempo non si lascia più spiegare, non riavvolge il nastro, non torna sui suoi passi. O è maschio, o è femmina – il vestito che ci mette addosso.
Per emergere alla coscienza, alla Superficie del Tempo, ciascuno di noi si è dovuto piegare al Caso della buona o cattiva Sorte – perché, se gli dèi giocano al lotto, siamo noi i numeri dei loro infiniti sorteggi «temporali».
L’inizio «cade» sempre dalla Retta Via del Tempo indifferenziato – del Tempo che scorre nell’indifferenza dei figli suoi, del Tempo che, i figli suoi, se li divora nell’oblio.
L’inizio «cade» in un incidente dell’Oblio: scorre il sangue tra gli «dèi». Tra i fantasmi si scatena una guerra titanica. Come fu, come non fu – questo traumatico Prologo in cielo – sarà bene seguire l’esempio di Goethe: anziché addentrarci nell’Ineffabile di una Metafisica o di una Teologia, faremo bene a imboccare la strada che lui ci ha suggerito. Quel Prologo sia preceduto da una Domanda di Teatro. L’inizio «celeste», l’infanzia divina del mondo, non è che una rappresentazione, una messinscena della Narrazione. L’antefatto «vero», quello a cui la Guerra tra gli Dèi fa da «copertura», è l’«istrionismo» che, ove più ove meno, tipizza l’avvento sulla scena dell’Uomo.
L’avvento di un artista, di un artigiano o comunque di un artefice, della sua propria pazzia. Della pazzia che lo spinge a mitizzare Se Stesso. A provare a ingannare il Tempo che l’inganna, ad ammazzare il Tempo che l’ammazza: «poco a poco … morire», dice l’uomo-medicina.
L’ermafrodito è l’Indifferenziato sessuale – il Tempo che ambiguamente scorre nel suo proprio oblio, finché … non succede, per caso, il miraggio «afrodisiaco»: l’acerbo miraggio, dai sei ai diciotto mesi, dinanzi allo specchio – dice il Dottore. D’un tratto appare il Pavone, è l’ora di sellare i cammelli: la carovana può mettersi in cammino.
Il miraggio è un «istante», un «adesso» senza passato e senza futuro. Sarebbe caduto pur esso, come tutto il Tempo, nel dimenticatoio, se la notte dopo la nascita di Afrodite non fosse stato concepito (clandestinamente) Eros.
Eros è il frutto di una «tardiva» partorizione, non più visibilmente dinanzi allo specchio, non più nello Sguardo deputato a raccogliere la «materia prima» dell’Immaginazione (le «forme» naturali, i «tipi» della propria Specie), ma in un altro Organo linguistico – nell’Orecchio, ovvero in quel «tempio dell’udito» dalla cui soglia vanno e vengono echi, rumori e suoni, un’altra materia, una materia «acustica» (le «forme» intelligibili a spasso nei racconti della propria Tribù).
Quest’altra «materia» non a caso è condivisa da Eros ed Ermes: è la «materia» ancora grezza del «dire» (ερ), è la disponibilità di questo ερ ad aggirarsi nei suoi fonemi, nei suoi «giocattoli», nei significanti ancora non significativi che sono propri del «parlare interrogando» (ερ), dell’esprimere perplessità, domanda, ignoranza – per riempire il vuoto segnato dall’assenza, dal venir meno di Afrodite.
L’inizio umano cade in questa «istrionica» congiuntura: nel tentativo di padroneggiare l’Assente (agli occhi), ricorre alle parole per «rimuovere» il peso di quell’assenza. Ricorre alle «forme intelligibili» per muoversi nel labirinto delle «forme naturali», senza farsi male – perlomeno, non quel male lì che gli costò la Grande Rimozione.
Perché a essere rimosso è sempre il Miraggio, è sempre Afrodite, il «dono della schiuma» del mare dell’immaginazione, è sempre il Tipo che viene per primo a sedurci, e a farci saggiare i tormenti della seduzione.
E l’erotismo?
L’erotismo «rimuove», il «principio di piacere», dice Freud, che si spaccia per «desiderio vitale» e «inno alla Vita», non è che la più antica delle «istanze mortuarie». Eros è Thanatos – è la morte del linguaggio immaginario, pre-umano, pre-infantile, dai sei a diciotto mesi – dinanzi allo specchio, a farfugliare, a piagnucolare, a balbettare «immaginazioni», a musicarle secondo il dettato a ciascuno della sua Musa.
A ciascuno la sua Tentazione. A ciascuno, una volta volato via il Pavone, non resta che scegliere la propria «via alla morte», la propria «mitologia».
L’Uomo è un artista «erotico», un artigiano, un fabbro di segni e di parole, un falegname o uno scultore che si fabbrica i mezzi per favoleggiare della sua propria pazzia. Della pazzia che lo spinge a mitizzare Se Stesso. A provare a ingannare il Tempo che l’inganna, ad ammazzare il Tempo che l’ammazza: «poco a poco … morire», dice l’uomo-medicina.
Come altrimenti chiamarla, questa sua «terapia», se non morte lenta, morte che si muore poco a poco, per suggestione – per quel gioco di prestigio che solo i segni e le parole (ερ) ci permettono?
L’«erotismo» non è che questo tirare la morte per le lunghe, chiacchierando, narrando, facendo Teatro.