Foucault – Dal supplizio del corpo al giudizio dell’anima

Tra la fine del secolo XVIII e l’inizio del XIX, la lugubre festa punitiva [la gogna e le esecuzioni pubbliche] si va spegnendo.
In questa trasformazione si vanno combinando due processi. Non hanno seguito la surreal-gognamedesima cronologia, né hanno avuto le medesime ragioni d’essere.

Da un lato, la scomparsa dello spettacolo della punizione: il cerimoniale della pena tende ad entrare nell’ombra, per non essere altro che un nuovo atto procedurale o amministrativo. In Francia, l’onorevole ammenda – l’infamante confessione pubblica – era stata abolita una prima volta nel 1791, poi di nuovo, dopo un breve ripristino, nel 1830; la gogna soppressa nel 1789; in Inghilterra nel 1837.
I lavori pubblici che Austria, Svizzera e alcuni degli Stati Uniti, facevano eseguire nelle vie delle città o lungo le strade maestre – i forzati, collare di ferro, palla ai piedi, abiti multicolori, scambiavano con la folla sfide, ingiurie, beffe, percosse, segni di rancore o di complicità – vengono soppressi quasi ovunque alla fine del secolo XVIII o nella prima metà del XIX.

L’esposizione al palo era stata mantenuta in Francia nel 1831, malgrado critiche violente – «scene disgustose», diceva Réal – poi finalmente abolita nell’aprile 1848. Quanto alla catena che trascinava i forzati attraverso tutta la Francia, fino a Brest e Tolone, decenti vetture cellulari, dipinte di nero, la sostituiscono nel 1837.
La punizione cessa, poco a poco, di essere uno spettacolo. E tutto ciò che poteva comportare di esibizione si troverà ormai ad essere segnato da un indice negativo.

Come se le funzioni della cerimonia penale cessassero poco a poco d’essere comprensibili, quel rito che «concludeva» il crimine viene sospettato di mantenere con esso losche parentele: di eguagliarlo, se non sorpassarlo, nell’essenza selvaggia, di abituare gli spettatori a una ferocia da cui si voleva invece distoglierli, di mostrar loro la frequenza dei crimini, di far rassomigliare il boia a un criminale e i giudici ad assassini, di invertire all’ultimo momento i ruoli, di fare del suppliziato un oggetto di pietà o di ammirazione.
Beccaria l’aveva detto: «L’assassinio, che ci viene presentato come un crimine orribile, ghigliottina-disegnonoi lo vediamo commettere freddamente, senza rimorsi» (Dei delitti e delle pene). […]

Con la scomparsa dei supplizi, è dunque lo spettacolo a cessare; ma è anche la presa sul corpo ad allentarsi … in linea generale le pratiche punitive erano diventate pudiche: non toccare più il corpo, o comunque il meno possibile, e sempre per raggiungervi qualcosa che non è il corpo medesimo.
Si dirà: la prigione, la reclusione, i lavori forzati, il bagno penale, l’interdizione di soggiorno, la deportazione – che hanno occupato un posto così importante nei sistemi penitenziari moderni – sono sempre pene fisiche: a differenza dell’ammenda, esse incidono, e direttamente, sul corpo. Ma il rapporto castigo-corpo non è identico a quello che era nei supplizi.

Il corpo qui si trova in posizione di strumento o di intermediario; se si interviene su di esso rinchiudendolo o facendolo lavorare, è per privare l’individuo di una libertà considerata un diritto e insieme un bene.
Il corpo, secondo questo tipo di penalità, è irretito in un sistema di costrizioni e di privazioni, di obblighi e di divieti. La sofferenza fisica, il dolore del corpo, non sono però più elementi costitutivi della pena. Il castigo è passato da un’arte di sensazioni insopportabili a una economia di diritti sospesi.
Se per la giustizia è ancora necessario manipolare e colpire il corpo dei giustiziandi, lo farà da lontano, con decenza, secondo regole austere, e mirando a un obiettivo ben più «elevato».

Per effetto di questo nuovo ritegno, tutto un esercito di tecnici ha dato il cambio al boia, anatomista immediato della sofferenza: sorveglianti, medici, cappellani, psichiatri, psicologi, educatori. Con la loro sola presenza presso il condannato, essi cantano alla giustizia le lodi di cui ha bisogno: le garantiscono che il corpo e il dolore non sono gli oggetti finali della sua azione punitiva. […]

Orozco-giudici

Scompare dunque, all’inizio del secolo XIX, il grande spettacolo della punizione fisica; si nasconde il corpo del suppliziato; si esclude dal castigo l’esposizione della sofferenza. Si entra nell’età della sobrietà punitiva.
Questa sparizione dei supplizi, possiamo considerarla pressoché acquisita verso gli anni 1830-48. O per meglio dire: ne è acquisito l’essenziale, ma se pure i meccanismi della punizione hanno assunto il nuovo tipo di funzionamento, il processo è ben lontano dall’essere concluso.
L’eliminazione del supplizio è una tendenza che si radica nella grande trasformazione degli anni 1760-1840, ma non giunge a compimento: possiamo dire che la pratica del supplizio ha ossessionato a lungo il nostro sistema penale, e vi è tuttora presente. […]

Quanto alla presa sul corpo, anch’essa, alla metà del secolo XIX, non era stata del tutto eliminata. Senza dubbio la pena non è più centrata sul supplizio come tecnica per far soffrire, e ha preso come oggetto principale la perdita di un bene o di un diritto, ma un castigo come i lavori forzati o perfino come la prigione – pura privazione della libertà – non ha mai funzionato senza un certo supplemento di punizione che concerne proprio il corpo in se stesso: razionamento alimentare, privazione sessuale, percosse, celle di isolamento.
Conseguenza non voluta, ma inevitabile, della carcerazione? In effetti la prigione, nei suoi dispositivi più espliciti, ha sempre comportato, in una certa misura, la sofferenza surreal-gulagfisica … sicché rimane sempre nei meccanismi moderni della giustizia un fondo «suppliziante», un sottofondo non ancora del tutto dominato, ma avvolto, in maniera sempre più ampia, da una penalità dell’incorporeo.

L’attenuarsi della severità penale nel corso degli ultimi secoli è fenomeno ben noto agli storici del diritto. Ma, a lungo, è stato considerato in maniera globale, come un fenomeno quantitativo: meno crudeltà, meno sofferenza, maggiore dolcezza, maggior rispetto, maggiore «umanità».
In effetti queste modificazioni sono accompagnate da uno spostamento nell’oggetto stesso dell’operazione punitiva. Diminuzione d’intensità? Forse. Sicuramente, un cambiamento di obiettivo.

Se non è più al corpo che si rivolge la pena nelle sue forme più severe, su che cosa allora stabilisce la sua presa?
La risposta dei teorici – quelli che aprono, verso il 1760, un periodo non ancora chiuso – è semplice, quasi evidente, sembra scritta nella domanda stessa.
Non è più il corpo, è l’anima. All’espiazione che strazia il corpo, deve succedere un castigo che agisca in profondità sul cuore, il pensiero, la volontà, la disponibilità. Una volta per tutte, Mably ha formulato il principio: «Che il castigo, se così posso dire, colpisca l’anima, non il corpo» (Della legislazione, 1789).

Momento importante. I vecchi protagonisti del fasto punitivo, il corpo e il sangue, cedono il posto. Un nuovo personaggio entra in scena, mascherato.
Finita una certa tragedia, inizia una commedia con figure d’ombra, voci senza volto, entità impalpabili. L’apparato della giustizia punitiva deve ora mordere su questa realtà senza corpo. […]

Sotto il nome di crimini e di delitti, è vero, si giudicano sempre oggetti giuridici definiti dal codice, ma, nello stesso tempo, si giudicano istinti, passioni, anomalie, infermità, disadattamenti, effetti dell’ambiente o dell’eredità; si puniscono delle aggressioni, ma Bobir-conscienzaattraverso queste delle aggressività; degli stupri, ma nello stesso tempo delle perversioni; degli assassinii che sono anche pulsioni e desideri.
Si dirà: non sono questi a essere giudicati; se li si invoca è per chiarire i fatti da giudicare e per determinare a qual punto era implicata nel crimine la volontà del soggetto.

Risposta insufficiente.
Poiché sono esse, queste ombre che stanno dietro gli elementi della causa giuridica, ad essere in realtà giudicate e punite. Giudicate indirettamente, attraverso le «circostanze attenuanti», che fanno entrare nel verdetto non solo elementi «circostanziali» dell’atto, ma qualcosa di diverso, non giuridicamente qualificabile: la conoscenza del criminale, l’apprezzamento che si ha di lui, ciò che si riesce a sapere sui rapporti tra lui, il suo passato e il suo delitto, ciò che ci si può aspettare da lui in avvenire. […]

In tutto il rituale penale, dall’istruttoria fino alla sentenza e alle ultime sequenze della pena, è stato introdotto un insieme di nuovi oggetti che vengono a raddoppiare, ma anche a dissociare quelli giuridicamente già definiti e codificati.
La perizia psichiatrica, ma in linea più generale l’antropologia criminale e il discorso, sempre ripetuto, della criminologia, esprimono qui una delle loro funzioni specifiche: inscrivendo solennemente le infrazioni nel campo degli oggetti suscettibili di conoscenza scientifica, dare ai meccanismi della punizione legale una presa giustificabile non più semplicemente dalle infrazioni, ma dagli individui; non più da ciò che hanno fatto, ma da ciò che sono, possono essere, saranno.

Il supplemento d’anima che la giustizia si è assicurato, in apparenza esplicativo e limitativo, è, in effetti, annessionista.
Da quando, centocinquanta o duecento anni fa, l’Europa ha dato vita ai nuovi sistemi penali, i giudici, poco a poco, ma con un processo che risale a molto lontano, si sono messi a giudicare qualcosa di diverso dai reati: l’«anima» dei criminali.

(Foucault, Sorvegliare e punire)