Tanto andarono che arrivarono ai limiti di una valle sperduta, in fondo alla quale scorsero un castello fortificato, ben circondato da fossati profondi e da buone mura alte e spesse. Era il Castello Avventuroso dove già era giunto Galvano.
La vecchia che lo guidava disse allora a Lancillotto: «Signor cavaliere, vi tocca entrare in questo castello per tentare la più grande avventura del mondo».
«Damigella, mi sdebiterò in tal modo verso di voi?».
«Sì, signore».
«Allora ci proverò».
Dopo averlo raccomandato a Dio, ella se ne andò, e Lancillotto abbracciò Lionello e teneramente prese congedo da lui; poi andò verso la fortezza.
Appena ebbe varcata la porta, intese la gente mormorare intorno a lui: «Signor cavaliere, l’onta vi attende».
Continuò il cammino senza rispondere, e giunse ai piedi della torre maestra. Là lo fermarono grida di donna: era la stessa damigella che messer Galvano non era riuscito a trarre fuori dalla tinozza, e che lo supplicava di soccorrerla.
Egli s’avvicina, la prende sotto le ascelle e la solleva facilmente come se non pesasse più di un fuscello. Subito ella cade ai suoi piedi, gli bacia la gamba e la scarpa; e quelli della città cominciarono a radunarsi.
Lo condussero al cimitero, gli mostrarono una tomba sulla quale delle lettere dicevano:
Questa tomba non sarà aperta prima della venuta del leopardo da cui nascerà il grande leone.
Lancillotto vi pone la mano, e ne solleva la lastra senza sforzo. Un orrido serpente, che era nascosto là sotto e il cui alito fiammeggiava come fuoco ardente, si slancia fuori dalla fossa e striscia per il cimitero, e presto gli arboscelli sono in fiamme.
Ma Lancillotto gli corre addosso e, benché il drago gli abbia bruciato col suo soffio tutto il legno dello scudo, gli fa volar via la testa in un istante.
Allora, con grande onore vennero a cercarlo dei cavalieri belli e alti a meraviglia, e lo condussero al palazzo, dove pulzelle molto avvenenti lo disarmarono, lo lavarono e gli fecero indossare un mantello degno d’un re.
Poi, fu condotto nella sala dove alcuni signori gli fecero grande accoglienza e, mentre chiacchierava e s’intratteneva con loro, entrò un valentuomo, con sì nobile corredo che nessuno potrebbe descriverne gli abiti, tanto erano ricchi. Al dito portava un bell’anello e sulla testa una corona d’oro, le cui pietre valevano un buon regno; il fermaglio e la cintura non erano da meno; ma perché farla più lunga?
In una parola, non si sarebbe potuto vedere uomo più gentile, né chi potesse sembrare principe più nobile di lui. Era re Pelles, il Ricco Pescatore.
«Signore, il re!», dissero i cavalieri a Lancillotto, levandosi in piedi.
Lancillotto si alzò e augurò il benvenuto al re, che andò ad abbracciarlo e gli disse: «Dolce signore, noi vi abbiamo lungamente atteso! Infine siete giunto. Volete palesarmi chi siete?».
«Sono della casa di re Artù, compagno della Tavola Rotonda, e il mio nome è Lancillotto del Lago».
«Dio mi aiuti! Non siete il figlio di re Ban che morì di cordoglio, e della regina dei grandi dolori?».
Ma, in quel momento, accadde la grande meraviglia: la colomba bianca che messer Galvano aveva visto, volò di nuovo per la sala, portando nel becco l’incensiere d’oro, e nel castello si diffusero tutti i buoni profumi del mondo; poi, messe le tavole, ognuno prese posto senza pronunciar parola, dicendo preghiere e orazioni: allora entrò la più leggiadra delle damigelle, tenendo alto il vaso prezioso velato d’un drappo; tutti s’inginocchiarono, e Lancillotto come gli altri; e quando ella fu uscita, avreste visto le tavole coperte di tutti i buoni cibi che si possono immaginare; tuttavia, non diversamente da quanto era accaduto a monsignor Galvano, davanti a Lancillotto non v’era nulla. Ma il re se ne avvide e gli fece portare carni molto buone.
Quando tutti ebbero mangiato a piacere, furono levate le mense e i cavalieri si misero a giocare a tavole e agli scacchi, e a divertirsi.
«Cosa vi pare di quel ricco vaso che portava la damigella?», domandò il re a Lancillotto.
«Certamente, sire, è cosa meravigliosa. E mai avevo visto una damigella altrettanto bella … Dico damigella, non dama».
Udendo ciò, il re pensò a quanto aveva sentito dire di Lancillotto e della regina Ginevra: «Davvero egli ama tanto la regina che non ne vorrebbe nessun’altra? – pensò. – Come faremo perché accetti mia figlia? Converrà agire sì saggiamente che egli non s’accorga di nulla, affinché sia eseguito il comandamento».
Andò a trovare una dama molto vecchia e prudente, chiamata Brisane, che era la governante della damigella del vaso prezioso, e le ripeté le parole di Lancillotto. Ma la vecchia gli raccomandò di lasciarla fare senza intromettersi, e gli assicurò che avrebbe saputo condurre la cosa a buon fine.
Ella si recò da Lancillotto e lo portò sull’argomento, chiedendogli notizie di re Artù e della corte; poi gli parlò a lungo della regina Ginevra e, quando lo vide pensoso, gli disse: «Ora, signore, è tempo che andiate a dormire, ché oggi molto avete faticato».
E Lancillotto, che era tutto assorto nei suoi pensieri, la seguì in una camera dove c’era un bel letto. Là, ella annunciò che sarebbe andata a cercare il vino del riposo e, poco dopo, gli portò un beveraggio che aveva preparato, che era più limpido di fonte e del colore del vino.
La coppa non era grande, di modo che Lancillotto la vuotò tutt’intera e, trovando che la bevanda era dolce e buona, ne chiese ancora, e la vecchia gliene versò ed egli l’assaporò fino all’ultima goccia.
Ora, appena ebbe bevuto quel filtro, si sentì tutto inebriato e turbato, e Brisane s’accorse che egli non sapeva più dove si trovasse né come vi fosse giunto: ché credeva di essere nella città di Camelot, e la scambiava per la dama di Malehaut da tempo morta.
Allora, ella gli disse: «Signore, madama la regina potrebbe già essersi addormentata. Che aspettate ad andare da lei?».
«Se mi mandasse a chiamare, andrei volentieri», egli fece.
La vecchia finse di andare a vedere e, dopo un momento, ritornò per dirgli che la regina l’attendeva.
Subito Lancillotto si scalzò e, in brache e camicia, seguì Brisane, che lo condusse nella camera della figlia del re, accanto alla quale si coricò, ritenendo che fosse la regina, sua dama.
E la pulzella, che non desiderava niente di più di colui che sapeva essere lo smeraldo di tutta la cavalleria terrena, lo ricevette, felice e gioiosa.
Così furono uniti il migliore e il più leale dei cavalieri di quel tempo e la figlia di re Pelles, il Ricco Pescatore. E costei, la più bella pulzella che allora vi fosse, non l’accolse a causa della sua beltà né per l’ardore della carne, ma per ricevere il frutto per mezzo del quale dovevano essere adempiute le avventure di Bretagna, come aveva predetto Merlino l’Incantatore.
E Lancillotto, che credeva fosse la propria dama, la conobbe come fece Adamo con la sua sposa, ma non sì lealmente, ché egli la conobbe in peccato.
Ma Colui in cui alberga ogni pietà non giudica i peccatori solo secondo le colpe, e tiene conto delle intenzioni: così in quell’unione non volle guardare che al vantaggio di quelli di Bretagna, e volle che in luogo del fiore di castità che fu corrotto quella notte, fosse restituito un altro fiore da cui gran bene venne al paese.
Ché tutta la terra fu riempita dal profumo del fiore che germogliò da quell’unione, come narrerà la storia del santo Graal: costui fu Galaad, il cavaliere vergine, che mise fine alle avventure e sedette sul seggio periglioso della Tavola Rotonda.
Così, se il nome di Galaad era stato perduto in Lancillotto per ardore di lussuria, esso fu ritrovato in Galaad per astinenza dalla carne. E in lui la colpa della nascita fu riparata dalla verginità che serbò e rese integra al Salvatore quando abbandonò questo mondo.
Ma il racconto lascia per il momento di parlare di ciò, ché lo narrerà con agio quando sarà venuto il tempo, e torna a monsignor Lancillotto del Lago.
Al mattino, egli si svegliò e guardò intorno a sé, ma le finestre erano sì ben chiuse che il giorno non poteva entrare. La forza del filtro era evaporata: egli tastò accanto a sé e sentì la damigella.
«Signore – ella gli disse – sono la figlia di Pelles, il Ricco Pescatore».
Lancillotto saltò giù dal letto, indossò la camicia e le brache, corse ad aprire tutte le grandi finestre della camera in cui aveva dormito e, quando vide colei dalla quale era stato ingannato, afferrò la spada, più dolente e irato di quanto si potrebbe dire.
Ma ella s’inginocchiò ai suoi piedi, con la sola camicia, le mani giunte, e invocò pietà nel nome della misericordia che Gesù Cristo ebbe di Maria Maddalena. Allora Lancillotto s’arrestò; tremava sì forte per la collera e il dolore che a fatica poteva reggere l’arma.
«Damigella – disse infine – sarei troppo crudele e sleale se distruggessi tanta beltà. Perdonatemi d’aver alzato la spada su una donna, ma mi spinsero l’ira e il dolore».
«Signore, vi perdono perché a vostra volta voi mi perdonate d’essere stata la causa del vostro sdegno».
Ed egli lo fece; dopo di che, si vestì, indossò le armi che gli avevano preparate su una tavola, e corse nelle camere dove aveva passato la vigilia, pensando di trovarvi qualcuno; ma esse erano chiuse a doppia mandata: ebbe un bel battere, e sì rudemente che l’avrebbe inteso un sordo addormentato, non riuscì a far tanto da ottenere alcuna risposta.
La sala era aperta, ma vuota: l’attraversò, scese i gradini, arrivò nel cortile, andò alla stalla, trovò il suo cavallo sellato a dovere, ben nutrito, i fianchi pieni, strigliato e spazzolato con tal cura che un pelo non superava l’altro; allora afferrò lo scudo e la lancia che vide appoggiati al muro, fece uscire il destriero, l’inforcò, s’avvicinò al ponte levatoio e, trovatolo abbassato, s’apprestò a varcarlo.
Non era ancora uscito che sentì che cominciavano a sollevarlo; subito, spronando il suo cavallo, gli fece fare un tal balzo che l’animale raggiunse il bordo del fossato, ma certo poco mancò che cadesse nell’acqua. Lancillotto lo spinse avanti e, quando si volse, non scorse più la minima traccia del Castello Avventuroso da cui era uscito.
Allora s’allontanò, sì dolente d’aver mancato al proprio amore e sì assorto, che neppure vedeva dove lo portava il destriero.
(Il Castello Avventuroso, 17-19)
***
Aprire una tomba, scavare un pertugio per cui a «quella tale cosa» aprire una strada: questa è l’Impresa, ma chi ne è all’altezza?
In quanto a Lancillotto, il Racconto lo sorprende più di una volta a scoperchiare un certo Passato Doloroso, e con ciò a dargli, suo malgrado, un Futuro Peccaminoso. Così dice, testualmente, il sia pur tardivo racconto bretone. Dice: Lancillotto conobbe la donna come Adamo conobbe Eva, lasciando a noi sbrogliare la matassa – chi fu dei due a «peccare»? e com’è che questo «peccato» originariamente di gola (Eva mangia la mela) si replica non a tavola, ma a letto (bisogna pur che il Ricco Pescatore, e con lui la storia del santo Graal, abbia una discendenza)?
Ma non possiamo lasciarci sfuggire quest’altra sorpresa che il Racconto ci elargisce: quello che fa Lancillotto al Castello Avventuroso, non ricorda la trafila per cui passa il Sole innamorato della Fidanzata di legno? Non c’è, in entrambi i casi, da «esorcizzare» un certo luogo, da cacciarne via un certo serpente velenoso? ci riuscirà il nostro eroe senza macchiare il proprio «onore»? senza deviare dal proprio «retto» cammino?
Una maledizione affligge quel «luogo»: guai a chi entra in quel libidinoso Castello dell’Immaginazione!
Se ne parla male, di quel «posto» si dice tutto il peggio del peggio – come dell’abisso più abietto, da cui, a volte, rigurgitano a caso pezzi di antiquariato, frammenti grezzi di un irrisolto «enigma» sepolto lontano da ogni memoria. È rimasta solo una cicatrice, il segno di una ferita che neanche si vede: non una, ma più volte, c’è ricresciuta sopra una nuova pelle.
Sennonché, se per caso ricadi in quel «buco nero», che dici? c’è da stupirsi se di nuovo sulla scena compare la Vecchia Pelle, la Strega, la Rana – chiamala come ti pare, è Medea, Isotta, Circe e Fata Morgana tutte assieme. È la vecchia Signora Maestra della Seduzione, quella – intendo – più «elementare», l’abbiccì delle seduzioni, la Seduzione Speciale, la seduzione propria della nostra Specie.
Chi può chiamarsi fuori dal gioco? Il «cavaliere senza macchia», così caro ai nostri narratori cristiani del Medioevo, se mai può venire al mondo – è per la porta in cui lui insiste a vedere il «luogo del peccato».
È che del «peccato» si fa carico Lancillotto. Ah, se si fosse limitato a «svuotare» il Castello del serpente velenoso che vi era annidato, e non si fosse spinto fino a penetrare in quel nido di vipere! D’accordo, il Racconto dice che era «fatto» di vino, che la Strega l’aveva stregato col suo magico filtro. D’accordo, diciamo pure che Lancillotto aveva tutt’altra intenzione che «tradire» la Dama del suo cuore: Lancillotto credeva di andare a giacere con lei, e non era, questo, comunque un tradimento? Avrebbe tradito re Artù, ma soprattutto la sua stessa immaginazione avventurandosi fin dentro la «realtà» carnale. Ma fino a quando il suo desiderio poteva resistere in assenza di un «oggetto»?
D’accordo, era in tra veglia e sonno quando entrò nel letto della Figlia, ovvero nella Rete di magie, del Re Pescatore. C’è da scommettere a occhi chiusi che costui era «ricco» e aveva tanti servi al suo servizio: li pescava a sorte tra i candidati a cogliere il fiore di sua figlia. Come il Sole sudamericano, era il Signore dei pesci che abboccavano alla bellezza della Donna, salvo, ovviamente, abboccarci prima o poi lui stesso.
La bellezza della Donna. Della Donna, s’intende, come l’immagina chi è spinto, eccitato, sedotto dagli artifici della Rana. Della Donna che lo domina, che lo padroneggia e lo tiene al servizio della riproduzione dell’Immaginazione della Specie.
La senti la differenza tra riprodurre la Specie, e riprodurre invece la sua Immaginazione al di là dei tempi e dei luoghi?
Bisogna che qualcuno la riproduca «in carne e ossa» la Specie, perché sia in vita chi possa riprodurne la Mitologia. Ma anche, sarà bene tenerlo a mente, bisogna che qualcuno continui a riprodurre la Mitologia dell’Amore, perché la Specie abbia più piacere, ma sì – più libidine – a riprodursi.