In assenza del marito recatosi a caccia, una donna affidò alla vecchia nonna il compito di accudire alla loro bambina che cominciava appena a camminare, e i cui pianti la disturbavano nella sua attività di cuoca. Quando però andò a riprendere la bambina, la nonna rispose che la bambina non era stata affidata a lei, sicché la povera donna capì che un giaguaro abilmente travestito l’aveva rapita.
Tutte le ricerche per ritrovare la bambina furono vane, e i genitori finirono per rassegnarsi alla sua perdita.
Pochi anni dopo, essi però cominciare a notare delle strane scomparse: un giorno le collane, un altro le bende di cotone, poi le provviste di midollo di palma, il perizoma, i vasi …
Era il giaguaro, che veniva segretamente di notte per rifornire di tutto l’occorrente la bambina, giacché l’amava come se fosse stata della sua stessa razza. La nutriva di carne e, non appena essa fu grande, si mise a leccare il sangue delle sue mestruazioni alla maniera dei giaguari e dei cani, cui piace annusare gli organi femminili.
I due fratelli del giaguaro facevano lo stesso, e la ragazza trovava molto strano questo comportamento. Perciò decise di fuggire, e chiese dov’era il sentiero che conduceva al suo villaggio.
Poiché il giaguaro aveva assunto un atteggiamento diffidente, la ragazza gli fece presente che egli stava diventando vecchio e che ben presto sarebbe morto: ecco perché lei doveva tornare dai genitori. Così persuaso, il giaguaro le diede le indicazioni necessarie, e lo fece tanto più volentieri in quanto temeva che, dopo la sua morte, i suoi due fratelli la divorassero.
Quando venne il momento da lei fissato, la ragazza disse che non riusciva a togliere dal fuoco un’enorme pentola piena di carne, il cui calore le impediva di avvicinarsi. Se ne occupò il giaguaro e, mentre teneva la pentola tra le zampe, essa gliela rovesciò addosso. La belva, scottata, cadde, urlò dal dolore e morì.
I fratelli udirono le grida, ma non vi prestarono importanza: pensavano solo che il vecchio si stesse divertendo con l’amante. Non c’era nulla di più falso, poiché in realtà egli non l’aveva mai posseduta.
La ragazza corse sino al villaggio, dove si fece riconoscere dai suoi. Spiegò che bisognava fuggire, perché i fratelli del giaguaro sarebbero presto venuti a vendicarsi e nessuno sarebbe sfuggito loro.
Gli Indios si prepararono quindi alla partenza e staccarono le amache. Un cugino della ragazza pose nella sua una grossa pietra per affilare che pensava di dover utilizzare. Ma, nel momento di bilanciare l’amaca sopra la spalla come si è soliti fare per trasportarla, egli non pensò più alla pietra, e così il colpo inaspettato gli ruppe la colonna vertebrale e lo uccise. I suoi compagni avevano talmente fretta di fuggire che abbandonarono il suo cadavere.
***
A proposito di questo mito Roth fa un’osservazione divertente. Poiché egli era rimasto stupito da una conclusione così brusca, l’informatrice gli rispose che, arrivando al villaggio, i due giaguari vi trovarono solo un cadavere. Non c’era più nessuno per osservare il seguito degli eventi e riferirli più tardi. Come avrebbe potuto conoscerli lei?
Ma, se si capovolge questo ragionamento, la conclusione si chiarisce: arrivati al villaggio, i due giaguari vi trovarono almeno un cadavere, e si può supporre che lo mangiarono al posto della ragazza (che avrebbero mangiato, predice il mito, se fosse rimasta in loro compagnia).
Per comprendere l’importanza di questo particolare, basta ricordare che nei miti Gé sull’origine del fuoco (di cucina) il giaguaro dava la carne cotta agli uomini dai quali aveva ricevuto una sposa umana.
Qui il giaguaro ha invece rapito agli uomini (e non ricevuto da essi) una umana di cui non ha fatto la propria sposa; correlativamente, sono proprio gli uomini a cedere la carne umana cruda anziché ottenere la carne animale cotta.
Per convincersi che proprio questo è il senso della conclusione giudicata enigmatica da Roth, basta confrontare termine per termine questo mito Warrau e il gruppo dei miti Gé sull’origine del fuoco […].
Trattandosi di un mito Warrau, potremmo limitarci a spiegare la predilezione del giaguaro per il sangue mestruale con la credenza, peculiare a questo gruppo tribale, che, a differenza degli uomini, gli Spiriti soprannaturali non ne sono disgustati.
È certo che la mitologia Warrau evoca spesso le indisposizioni femminili: si pensi al mito degli uccelli che tingono le loro piume col sangue della deflorazione, e a quello di Ape che diventa genero, dove uno Spirito maschile chiamato Ape non teme il contatto con una ragazza mestruata.
Tuttavia, la trama del nostro mito non può essere completamente spiegata facendo appello alle idee particolari che i Warrau hanno a proposito delle mestruazioni. […]
Per il nostro giaguaro, il sangue mestruale, ovvero una lordura, è un miele. Infatti, il suo comportamento come giaguaro che rapisce una bambina (abbandonata perché gridava troppo) e che è goloso del suo sangue mestruale, riproduce quello della Rana di Haburi, pronta a raccogliere (perché gridava troppo) un bambino, e golosa del miele che questi le offre.
A seconda dei casi, questa golosità provoca o facilita la fuga del bambino adottato.
Ma quale rapporto può esserci tra il miele e il sangue mestruale?
In primo luogo si tratta di sostanze elaborate come il cibo cotto, ma per effetto di quella che potremmo chiamare una «cucina naturale». Nella sistematica indigena, come abbiamo potuto notare, il miele proviene da una cucina naturale di ordine vegetale, ed è chiaro che dal canto suo la cucina naturale da cui proviene il sangue mestruale è di ordine animale.
Otteniamo così una prima correlazione, alla quale se ne aggiunge immediatamente una seconda.
Evitando, con la ragazza che ha allevato, ogni contatto fisico che non sia quello consistente nell’assaporare il suo sangue mestruale, il nostro giaguaro traspone in termini alimentari una relazione sessuale. Esso inverte quindi semplicemente il comportamento delle due cognate di Simo, che lo vorrebbero «portare via» perché sentono in termini sessuali (innamorate come sono di un uomo chiamato Miele) una relazione che dovrebbe rimanere sul piano alimentare.
Del resto, non è forse per testimoniare meglio la realtà di questa trasformazione che il nostro giaguaro ha due fratelli, come la protagonista della storia di Simo ha due sorelle? I due fratelli non si accontentano del sangue mestruale perduto dall’eroina, ma vogliono anche mangiarla. Le due sorelle non si accontentano del miele prodotto dall’eroe: vogliono anche, ma eroticamente parlando, «mangiarlo».
Fra miele e sangue mestruale si scorge infine una terza connessione, la quale dipende dal fatto, sottolineato più volte, che i mieli sudamericani sono spesso tossici. Per quanto li concerne, lo scarto tra la categoria del delizioso e quella del velenoso diventa quindi piccolissimo.
Relativamente ai Warrau, che hanno dei dubbi metafisici sulla fondatezza delle proibizioni riguardanti le donne mestruate, l’accostamento col miele non ha dunque nulla di sorprendente.
Un’ultima osservazione a proposito di questo mito.
Quando abbiamo evocato la problematica del sangue mestruale (della donna) e degli escrementi puzzolenti (dell’uomo) nel mito Matako, abbiamo messo in evidenza due movimenti di cui i miti sottolineano il parallelismo.
Da una parte, la maturazione fisiologica implica un regresso alla lordura che la condizione del bambino piagnucolone illustra dal canto suo in termini di codice uditivo.
Dall’altra, l’emergenza di un ordine, che sia naturale o culturale, risulta sempre dalla disgregazione di un ordine antecedente e di cui l’umanità conserva solo i brandelli.
Questa interpretazione non è forse smentita dal nostro racconto?
All’inizio l’eroina è infatti una bambina piagnucolona, e sembra che la pubertà le aggiunga un attributo di seduzione anziché farla regredire alla lordura. Ma questa seduzione dovuta al sangue mestruale si esercita su un giaguaro, come il mito si premura di precisare: «Esso era rimasto giaguaro, e continuava a fare quello che fanno i giaguari e i cani».
Cosa significa ciò?
In opposizione diametrale coi miti Gé sull’origine della cucina, il nostro mito può perciò essere solo un mito sull’origine del regime alimentare più completamente opposto: quello in cui l’animale mangia l’uomo anziché esserne mangiato, e in cui l’uomo è mangiato crudo mentre l’animale è mangiato cotto.
Ed è proprio su questa orribile scena che il mito fa calare discretamente il sipario, ancor prima che cominci. Per esso si tratta quindi di spiegare non già la disintegrazione di un ordine appena formato, ma la formazione di un disordine che, in un sistema mitologico nel quale il personaggio del giaguaro-cannibale ha una parte di primo piano, può essere integrato in modo duraturo.
Pertanto, anche la sequenza parallela (quella della maturazione fisiologica) deve essere invertita. Sotto tutti i profili, la nuova prospettiva nella quale si colloca il mito è non meno opprimente dell’altra.
(Lévi-Strauss, Dal miele alle ceneri)
***
Partiamo dalla fine. La maturità fisiologica giunge in ritardo sulla precocità immaginale dei bambini. C’è un pezzo di natura, un’appendice ritardata (ti ricordi? il Creatore dell’Uomo si accorse solo dopo che agli esseri che aveva creato mancavano gli attributi sessuali, e perciò li aggiunse in una successiva «cottura»). C’è della natura dunque che si manifesta, si compie, nei bambini quando questi «abitano» ormai da tempo, da più di un decennio!, nel Linguaggio Simbolico, dentro le arti e i mestieri di una Cultura – a cominciare, si sa, dall’arte della Cucina.
È in questo lungo lasso di tempo che il Giaguaro e la Rana si prendono la scena, e tanto più facilmente se la guadagnano, se il bambino o la bambina fa i capricci e piange una continuazione.
Hai notato? Un giaguaro, come il lupo di Cappuccetto Rosso, prende il posto (oltre che le sembianze) della nonna!
Dunque – abbiamo a che fare con la favola antica del Vorace Simbolico e della sua (naturalmente acerba, fisiologicamente immatura) Preda.
Il Vorace, sia esso il nostro lupo o il giaguaro sudamericano, stando a questa favola, non riceve «legalmente» una donna umana già matura per farci all’amore, come si richiede a una sposa. No, il Vorace, nella nostra favola, rapisce una Bambina che a stento, da poco, cammina. Se la prende in carico e la alleva finché non diventa «signorina».
Si sarà notato che questo è il caso di genere inverso a quello del piccolo Haburi che, ancora lattante, viene rapito dalla Rana. Non più dunque un bambino sedotto, ma una bambina educata – cresciuta e pasciuta, per arrivare un bel giorno a farsi succhiare il «sangue mestruale». Non più il bimbo ammaliato dalla Strega Immaginale del suo narcisismo, ma la bimba allevata a divenire «fonte di dolcezza» per il palato di un animale! Ma non di un animale qualsiasi – ma di quello che più di tutti è Vorace, il Goloso per antonomasia: il Giaguaro, nella cui figura abbiamo ormai imparato a riconoscere il «Padre Adottivo», allo stesso tempo cannibale e protettivo, il Linguaggio Simbolico.
Se il nostro Giaguaro fosse come tutti gli altri giaguari, a cominciare dai suoi due fratelli, la bambina la rapirebbe per mangiarsela in senso proprio. Il nostro Giaguaro invece si astiene da questa bestialità, diciamo così, «alla lettera», per trasporla e concentrarla in una libidine figurata. Il nostro Giaguaro non se la mangia e non ci fa neanche all’amore, con la sua «rapita». Si limita (questo è il «resto» di bestialità che, malgrado tutto, rimane in lui) ad annusarne i genitali e a leccarle il sangue mestruale!
Ma non è proprio quello che fa il Linguaggio Simbolico? non lecca forse le nostre «ferite immaginali»? non succhia, ovunque la trovi, la «femminilità» all’opera nelle nostre immaginazioni, per «divorarla» sì, ed esserne – mese dopo mese – nuovamente rifocillato, ma mai alla lettera, mai «realizzando il [fiero] pasto», mai cannibalizzando la sua pupilla se non metaforicamente?
Caso di genere inverso: Jung se la sbriga con la più facile delle simmetrie, là dove in breve dice: se è maschio, se coscientemente s’identifica in un maschio, il suo inconscio è femminile (Anima); se invece è femmina, il suo inconscio sarà maschile (Animus).
Senti invece il «selvaggio» sudamericano cosa ci manda a dire.
Ci manda a dire che il maschietto è sedotto dalla Rana, e la femminuccia è rapita dal Giaguaro. È risaputo del resto che le bambine conoscono una scorciatoia e giungono prima dei maschietti «in bocca al Lupo» dei SI DICE della propria tribù. In fondo, il Linguaggio Simbolico conta assai su questa loro «arrendevolezza» a divenire «bambole», a prestarsi cioè al gioco della combinazione e trasposizione reciproca della fame e del sesso: di questo gioco essa è infatti il Giocattolo Primo e Necessario.
Il Racconto della Tribù – ecco chi, consciamente o inconsciamente, si cela dietro il Giaguaro che succhia il sangue alle bambine. Di tutta la sua bestialità «naturale», il Giaguaro non ha conservato che questa sola «passione». Del suo «istinto a divorare la preda», non gli rimane che uno strano vezzo.
No, non ti mangerò come gli altri linguaggi miei fratelli di natura. No, io saprò contenermi, fino a non concedermi altro che questa disgustosa squisitezza.
Disgustosa al palato della Cultura – il Giaguaro che della Cultura è la personificazione, Lui, il Padre dei SI DICE, non può fare a meno di trovarla squisita questa «tardiva» Natura.
Del resto, non c’è che lo scarto d’un pelo tra il tossico, il velenoso, il letale – e l’inebriante, l’estatico, il nirvanico «godimento» dei frutti della propria immaginazione.
Se si tratta, come dice Lévi-Strauss di un «disordine» ineluttabile e, insieme, creativo – in quanto spinge, da buon Šiva, a «differenziare» e «incanalare» il Gange in nuovi corsi d’acqua – non si tratta, in fin dei conti, che di un disordine temporale.
Com’è semplicistico pensare che prima viene la Natura col suo «caos», e poi le subentra, più o meno a forza, un certo ordine, o «cosmo» culturale.
Quando ormai i cuccioli della nostra Specie sono stati, chi più chi meno, integrati nel Sistema Simbolico della Tribù, il maschietto sedotto dalla Rana, e la femminuccia allevata dal Giaguaro, c’è un ultimo colpo di coda di Madre Natura.
C’è una regressione alla lordura, al sangue, agli escrementi – di nuovo una ricaduta nell’infanzia – quando l’Immaginazione credeva di essersene ormai del tutto emancipata. Quando pensava di farla franca, essa ha dovuto punto e a capo fare i conti e rifare i racconti della propria mitologia. Ha dovuto lasciare il cielo della Metafora incontaminata: per riassaggiare il Miele della sua luna mitologica, è scesa a sporcarsi la bocca di sangue, ed è già tanto se non si comporta come gli altri giaguari.
È già tanto se si contenta di questo «avanzo» di Natura, e non si avventura più giù, nel suo Passato Bestiale.