Passò del tempo, Tuhuruhuru crebbe, divenne un uomo e sposò una donna che si chiamava Apakura, da cui ebbe tre figli.
Passò altro tempo ancora, Tuhuruhuru morì, i suoi tre figli crebbero, eppure gli Ati Hapai non avevano dimenticato la crudeltà con cui era stato ucciso e divorato Kae, il loro grande sacerdote. Finsero d’aver deposto ogni rancore e di accontentarsi, a titolo di risarcimento, che Mairatea, la figlia di Tuhuruhuru, fosse data in moglie al figlio del loro grande capo.
Passò ancora del tempo, i rapporti tra le due genti sembravano rasserenati, ma non era così. Gli Ati Hapai aspettavano soltanto l’occasione buona per vendicarsi. E quando quest’occasione si presentò, gli Ati Hapai non se la lasciarono sfuggire.
Mairatea viveva ormai da tempo presso gli Ati Hapai, quando a suo fratello Tuwhakararo venne il desiderio di rivederla e andò a trovarla. Fu accolto con tutti gli onori nella grande Casa delle riunioni e, sebbene tra gli anziani ci fosse ancora qualcuno di quelli che una volta avevano mangiato la carne della balena, non c’era in apparenza niente che potesse turbare la festa.
Successe però che una delle figlie del grande capo degli Ati Hapai, la bellissima Maurea, s’invaghisse dell’ospite. Anche se in quel periodo intratteneva una relazione con un giovane della sua tribù, Maurea cominciò a provare interesse per Tuwhakararo.
Ora, quando cominciarono i giochi nello spiazzo dinanzi alla Casa delle riunioni, Tuwhakararo fu invitato a lottare contro alcuni giovani della tribù degli Ati Hapai. Acconsentì, ma uno dei rivali era proprio lo spasimante di Maurea.
Il giovane era contento di battersi contro il rivale ma, benché deciso a ferirlo, non era all’altezza di Tuwhakararo, che in quattro e quattr’otto lo sbatté a terra pesantemente. Mentre la gente rideva, egli se ne stava seduto nella polvere tenendo il broncio, intanto che il rivale cominciava a rivestirsi. Stava infilando la testa nel mantello, quando lo sconfitto balzò in piedi carico di odio e gli gettò della sabbia e della polvere negli occhi.
Tuwhakararo, intralciato dal mantello, cercò di sfregarsi gli occhi; il giovane allora lo colpì alla testa e lo uccise.
La tribù degli Ati Hapai, che aveva voglia di divertirsi, restò ammirata nel vedere che la situazione era cambiata di colpo. Si precipitò tra grida e risate ad impadronirsi del corpo di Tuwhakararo, e ricordandosi di quanto era stato fatto a Kae, i capi lo fecero cuocere e ne mangiarono la carne. Poi raschiarono le ossa e le misero in una cesta che appesero sotto la trave della Casa delle riunioni.
Così Kae fu vendicato, e Mairatea cadde in un dolore profondo, perché là, nella Casa delle riunioni, lei udì le ossa del fratello che tintinnavano nella cesta. Sembrava che dicessero: Tauparoro, Tauparoro, che vuol dire «nacchera». Al che lei rispose: «Ossa, vi agitate inutilmente, ché qui non c’è nessuno che vi può vendicare». Tuwhakararo e Mairatea non avevano figli. Loro sì che avrebbero potuto fare vendetta del padre.
Passò altro tempo ancora, e la notizia della morte di Tuwhakararo giunse nell’isola di Motutapu. Giunse all’orecchio di sua madre, Apakura.
Così la donna decise di andare a trovare il suo terzo figlio, l’ultimogenito, Whakatau. Lo raggiunse nella sua residenza a Paparahi e gli cantò l’incantesimo adatto al caso. Gli disse: «Sono venuta a prenderti per vendicare la morte del tuo fratello maggiore, perché tutt’e due siete miei figli».
Whakatau non ebbe esitazione, acconsentì e disse alla madre: «Torna pure a casa, e preparami una canoa, una vanga e una taiaha. Si cuociano radici di felci in gran quantità per il viaggio, e venga allestito un banchetto di addio per gli uomini che mi accompagneranno: ci sia pesce in abbondanza, cane secco e uccelli arrostiti. Mettete da parte l’olio di pescecane e versatelo nelle zucche perché mi servirà. Quanto a voi, non dovete prendere parte al banchetto, ma indossate piume di lutto e restate all’interno».
Tutte le sue istruzioni furono eseguite scrupolosamente, e come richiesto ci fu l’accompagnamento di lamenti cantati dalle donne. Venne costruita una canoa, e preparata una vanga di legno per Whakatau, e si pronunciarono degli incantesimi, perché facesse un buon lavoro.
Fu costruita pure una taiaha – una mazza di legno rosso magnificamente intagliata e provvista di un collare di penne rosse di pappagallo. Anche quest’arma fu resa tapu col canto d’incantesimi. L’olio di pescecane fu versato in diverse zucche, così Whakatau aveva ordinato.
Quando tutto fu pronto, alla partenza si presentarono molte centinaia di uomini, desiderosi di accompagnarli con le loro imbarcazioni. Non era proprio quello che voleva Whakatau, perché il suo desiderio era di portarsi dietro solo un gruppetto di uomini scelti.
Tuttavia, rinviò di risolvere la questione in un secondo momento, lasciando che tutti partecipassero al rito di preparazione alla battaglia. A turno, ogni uomo si inginocchiava e mordeva l’asse della latrina del villaggio, mentre si pronunciavano formule di protezione.
Una volta finito, si misero in mare sotto lo sguardo di Apakura e delle altre donne di Motutapu.
Whakatau fece sbarcare tutti su un’isola davanti alla quale erano obbligati a passare, per fare manovre ed esercitazioni. Si schierarono in ordine di battaglia con lance e mazze ed eseguirono le loro danze di guerra. Poi, con grida selvagge, attaccarono un nemico immaginario.
Nell’intenzione di scegliere solo i migliori guerrieri, Whakatau li mise alla prova: ordinò alle canoe di percorrere un corso d’acqua e di cercare di saltarlo, ma alcune non ce la fecero a fare il balzo come si deve e andarono in pezzi.
Non volendo offendere né deludere i loro equipaggi, ma comunque con l’intenzione di escluderli dalla spedizione, Whakatau così parlò: «Datemi ascolto! Proseguiremo soltanto stasera, altrimenti gli Ati Hapai ci vedranno arrivare. Vogliamo sorprenderli, perciò partiremo col buio».
E intanto, in attesa del tramonto del sole, Whakatau mandò alcuni del suo gruppo a togliere i tappi degli scarichi di tutte le altre canoe, tranne che della sua. Gli obbedirono. Poi nel cuore della notte fu dato l’ordine di partire.
Mentre lasciavano l’isola, gli equipaggi cominciarono a cantare, con un certo ordine, i canti dei rematori a loro assegnati in modo da tenersi in contatto tra loro sul mare.
Ma non passò molto tempo che una canoa cominciò a imbarcare acqua, e poi una seconda, mentre i rematori aggottavano freneticamente. Una dopo l’altra le canoe restarono indietro, e i loro canti si fecero sempre più deboli, finché non si udirono più. Così ripresero la via del ritorno a terra.
Andò avanti solo la canoa di Whakatau, che si chiamava Hikutoto, che vuol dire «spedizione di vendetta». Portava le zucche di olio di pescecane, che Whakatau aveva richiesto alla madre.
La canoa procedette spedita nella notte, ma non bastò a raggiungere l’isola degli Ati Hapai. Quando il sole salì all’orizzonte, Whakatau scoprì che c’era ancora un lungo tratto di mare da coprire, e comprese che gli Ati Hapai l’avevano probabilmente già avvistato. A una certa distanza dall’isola, gettò l’ancora e restò in attesa degli eventi.
Gli Ati Hapai erano molto arroganti e, quando avvistarono la canoa di guerra, tutti andarono in giro gridando: «Ciotola di cibo! Ciotola di cibo!».
Folle di persone si accalcarono lungo la spiaggia, guidate da tre uomini che si chiamavano tutt’e tre Mango, «Pescecane». C’era Mango urunui, ovvero «Pescecane testa grossa», Mango ururoa, o «Pescecane testa lunga», e Mango urutapena, o «Pescecane testa arrogante».
Il primo di loro gridò al di sopra delle onde che si frangevano: «Siete così pazzi da essere venuti qui senza essere stati invitati?».
Il capo degli sconosciuti, che si trovava nella Ciotola, rispose dal mare: «In quale delle arti di guerra potete voi dire di valere qualcosa?».
«Sono un nuotatore più veloce di voi tutti messi assieme, che siete così deboli», replicò allora Pescecane testa grossa.
«Se hai coraggio, allora, vieni qui a nuoto!», gli gridò Whakatau.
Mango si tuffò in mare e nuotò verso la Ciotola per tirarla giù. Ma Whakatau lo trafisse, usando come lancia il suo attrezzo da legno per scavare. Così il millantatore fu ucciso e il corpo fu issato dentro la grande Ciotola di legno.
Dalla spiaggia si levarono grida di rabbia e borbottii: «Aveva sbagliato a nuotare. Lasciate che ci vada io a nuoto sino alla prua».
Di nuovo Pescecane testa lunga gridò insulti agli uomini nella Ciotola.
«In quale delle arti della guerra valete voi qualcosa?», gridò Whakatau.
«Nessuno di voi sciocchi è capace di battermi nei tuffi», gridò di rimando Mango.
«Sei hai coraggio, su, tuffati qui», gridò Whakatau.
E Mango si tuffò dalla roccia e nuotò sott’acqua, con la certezza o quasi di raggiungerlo senza essere visto.
Ma Whakatau aveva aperto tutte le zucche contenenti l’olio che si era portate dietro, e l’aveva versato in mare intorno alla canoa rendendo così l’acqua trasparente. In questo modo Mango era visibile e, mentre saliva a nuoto dal fondo, Whakatau infilzò anche lui con l’attrezzo per scavare, e il corpo venne poi issato a bordo.
Dalla spiaggia si levarono grida di rabbia e borbottii: «È colpa del tuffo. Adesso mi tuffo io direttamente a poppa».
Fu poi la volta di Pescecane testa arrogante, che gridò un insulto e poi si tuffò anche lui e nuotò sott’acqua. Anche questa volta venne visto per via dell’olio. Ma quando Whakatau cercò di trafiggerlo col suo attrezzo, lo ferì solo alla lingua e Mango urutapena poté tornare alla spiaggia.
Whakatau allora si ritirò in mare aperto e scomparve. Nel pomeriggio ordinò comunque all’equipaggio di andare verso un’altra baia dell’isola e, una volta giunto, scese da solo sulla spiaggia, armato soltanto della sua taiaha.
Così, l’ultimogenito di Tuhuruhuru affrontò, coraggioso, il nemico da solo. Disse ai suoi uomini di tornare a Motutapu e di portare questo messaggio ad Apakura: «Whakatau ci ha ordinato di tornare indietro e di dirvi che non è potuto venire con noi. Ha detto che se cadranno grossi goccioloni di pioggia, vorrà dire che è stato ucciso, mentre se cadrà una pioggerellina e il cielo si accenderà di rosso, significherà che ha vendicato il fratello e incendiato la Casa delle riunioni».
Così gli uomini tornarono a casa e riferirono alla donna quanto il figlio aveva detto.
Whakatau fece un’offerta agli dèi, costituita di un po’ di capelli e pelle di uno degli uomini che aveva ucciso quel giorno. E dopo aver recitato la più potente formula magica che prepara un uomo ad affrontare i pericoli e a camuffarsi, mangiò e si incamminò verso gli Ati Hapai.
Verso sera, nei pressi della Casa delle riunioni, vide delle persone che raccoglievano legna da ardere. Si confuse in mezzo a loro, fingendo anche lui di raccogliere legna. Pose la sua taiaha in mezzo a un fascio di bastoni lunghi e trasportò il peso come tutti gli altri, un capo tra gli schiavi.
Una volta raggiunta la casa, Whakatau cercò di farsi strada fra gli altri ed entrò nella Casa con una lunga corda in mano e la fece girare intorno a tutti i pali. Lo vide soltanto la sorella Mairatea, che sospettò che lo sconosciuto fosse uno della sua gente. Whakatau fissò saldamente l’estremità della fune all’ultimo palo, tenendo l’altra in mano.
Aveva appena finito, quando tutti gli Ati Hapai si riversarono nella casa per discutere sugli avvenimenti della mattina.
Fu chiesto a Mango urutapena, l’unico che era riuscito ad andare alla Ciotola e ritornare, che descrivesse gli uomini che aveva visto e che aspetto avesse chi l’aveva ferito.
«Uno basso di statura, col volto largo e grandi occhi», rispose farfugliando Mango che aveva la lingua gonfia.
Un altro si alzò e gli chiese: «Mi assomigliava?».
Mango, facendo segni e con parole smozzicate, cercava di far capire che non c’era nessuno in mezzo a loro a cui l’uomo della canoa poteva assomigliare.
Allora Whakatau si alzò in piedi e gridò a voce alta da far girare tutti: «Per caso assomigliava a me?».
E Mango, che non l’aveva notato prima, lo fissò con attenzione. Poi disse: «Sì, ti assomiglia. Sono certo che tu sei quell’uomo».
«Hai ragione – gli gridò Whakatau. – Ero proprio io!».
Pronunciate queste parole, uscì di fretta seguito dalla sorella. Allora tirò la fune con tutta la sua forza e la Casa si accartocciò, e il tetto secco ricoperto di paglia cadde sulle persone che si trovavano all’interno e sui fuochi accesi. Il fuoco divampò e tutti gli Ati Hapai perirono.
Nell’isola di Motutapu, Apakura era seduta sul tetto della casa. Pioveva appena, e quando scorse il cielo tingersi di rosso, capì che il primogenito era stato vendicato e che la Casa delle riunioni era stata distrutta.