Dopo che ebbero desinato, un valletto entrò nella sala e consegnò una lettera alla regina, che pregò il re di farla leggere da uno dei suoi chierici. La lettera era di re Artù, che la salutava e le mandava a dire che tornasse con monsignor Galvano e tutta la sua compagnia, e che non attendesse Lancillotto che era arrivato sano e salvo a Camelot. Grande fu la gioia di tutti nell’udir queste notizie, e il viso della regina, da pallido che era, divenne color della rosa.
All’alba, ella si mise in viaggio con quelli del regno di Logres che Lancillotto aveva liberato insieme a lei. Re Baudemagu li scortò fino ai confini della sua terra, e là li raccomandò a Dio, mentre messer Galvano e Keu il siniscalco gli promettevano di servirlo come loro signore, e la regina gli gettava entrambe le braccia al collo.
Quando re Artù apprese che ella si avvicinava a Camelot, venne a incontrarla con tutta la sua gente. E subito le diede un bacio, poi corse da monsignor Galvano e da Keu il siniscalco e chiese notizie di Lancillotto.
«Sire, voi ne avete migliori delle nostre».
«In fede mia, non l’ho visto dal giorno in cui uccise Caradoc il Grande, signore della Torre Dolorosa!».
La regina comprese che era stata ingannata da una falsa lettera: fremette in tutto il corpo, il cuore le si fece pesante come una pietra, e svenne tra le braccia di monsignor Galvano che s’affrettò a sorreggerla. Poi si mise a piangere, senza curarsi di nascondere la sua pena, dicendo che mai più avrebbe conosciuto la gioia, poiché il miglior cavaliere del mondo era morto al suo servizio.
Re Artù decise di rimanere qualche tempo a Camelot, poiché quella città era vicina al regno di Gorre dove, secondo ogni apparenza, era rimasto Lancillotto. La regina amava quella città dove un tempo l’amico era stato armato cavaliere.
Dalla Pentecoste fino a metà agosto, ella pianse giorno e notte, fino a perderne la bellezza, e senza posa implorava il soccorso della Dama del Lago. Infine, il giorno dell’Assunzione, fu ben necessario che il re portasse corona e tenesse corte, com’era uso nelle grandi feste.
Quel giorno, mentre il sole sorgeva bello, chiaro e luminoso, e il mondo intero ne era già rischiarato, re Artù si mise alla finestra per ascoltare il canto degli uccelli che avevano dato inizio alla loro giornata.
Ora, guardando la campagna, vide arrivare una carretta trascinata da un cavallo a cui avevano tagliato la coda e le orecchie e guidata da un nano con una grande barba e una grossa testa, e su cui v’era un cavaliere con la camicia sporca e lacera, che aveva le mani legate dietro la schiena e i piedi incatenati alle stanghe; lo scudo senza insegne era appeso davanti, l’elmo e il giaco dietro; e il suo cavallo, bianco come la neve, bardato e sellato a dovere, era legato alla vettura.
La carretta entrò nel cortile e il cavaliere esclamò: «Ah! mio Dio! chi mi libererà?».
Due volte re Artù chiese al nano quale colpa avesse commesso il cavaliere; due volte, il nano gli rispose: «La stessa degli altri».
Allora il re domandò al cavaliere della carretta come potesse essere liberato.
«Da colui che salirà dove sono io».
«Non lo troverete oggi, bel signore!».
«Tanto meglio!», fece il nano.
E la carretta continuò il cammino per le vie della città, dove tutti fecero a gara a schernire il cavaliere, e gli scagliarono vecchie ciabatte e fango.
Intanto, il re s’era seduto a banchetto. Messer Galvano scese dalle stanze della regina: gli raccontarono quanto era accaduto, ed egli si ricordò dell’avventura di Lancillotto: «Maledette siano le carrette e colui che le inventò!», esclamò.
Mentre pronunciava queste parole, la vettura entrò nel cortile e il cavaliere della carretta scese e venne a chiedere posto a tavola; ma alcuno lo volle per vicino: gli dissero che non gli s’addiceva sedersi con dei cavalieri, e neppure con degli scudieri, e che per mangiare doveva accovacciarsi sulla soglia della porta. Tuttavia, messer Galvano andò da lui e gli dichiarò che gli avrebbe fatto compagnia, poiché, per quanto fosse condannato alla carretta, nondimeno era un cavaliere.
Vedendo ciò, il re mandò a dire al nipote che agendo così si disonorava, e che non era degno del seggio alla Tavola Rotonda.
«Se si è disonorati per essere andati sulla carretta, lo è dunque anche Lancillotto», fece semplicemente monsignor Galvano.
Il re ne fu molto stupito. […]
In quell’istante, ricomparve il nano con la sua carretta, ma questa volta essa portava una damigella velata che parlò così: «Re Artù, m’avevano detto che tutti coloro che erano senza consiglio trovavano qui buon aiuto; ma sembra che non sia vero: un cavaliere è andato via senza che alcuno dei tuoi avesse acconsentito a salire sulla carretta al posto suo. In quanto a me, non so se qualcuno verrà a liberarmi prendendo il mio posto».
«In nome di Dio – esclamò messer Galvano – lo farò io per amore del buon cavaliere che, un giorno, fu trasportato su quest’arnese!».
E saltò sulla vettura, mentre la damigella montava su un bel palafreno che andava all’ambio, bianco come il fiore di primavera, condotto da uno scudiero.
«Tu e i tuoi – ella continuò rivolgendosi al re – non avreste dovuto far torto al cavaliere della carretta, che egli non era là che per amore di Lancillotto, che un giorno si mostrò così al fine di riconquistare la regina Ginevra. E ora sappi che egli ha nome Bohor l’Esiliato ed è cugino di Lancillotto e fratello di Lionello che s’è messo alla ricerca di Lancillotto, e da folle perché non lo troverà davvero».
Detto questo, s’allontanò.
Si vide allora arrivare Bohor. E subito la regina si alzò davanti a lui, e non c’è festa che non gli fece per amor di Lancillotto. E il re volle accogliere Bohor tra i cavalieri della Tavola Rotonda, benché egli protestasse di non esserne degno.
«Bel signore – gli chiese la regina – chi è dunque la damigella che era sulla carretta?».
«È la Dama del Lago, che ha allevato Lancillotto, Lionello e me».
Ah, all’udir ciò, la regina fu sì dolente di non aver riconosciuto colei che tanto aveva invocata, che mai donna lo fu di più! Si fece portare il palafreno e corse alla ricerca della carretta che raggiunse nella città, dove il nano trasportava ancora monsignor Galvano: subito, ella mise piede a terra e si slanciò nella vettura; il re, che l’aveva seguita, fece altrettanto; e tutti i cavalieri che erano con loro, uno dopo l’altro.
E da allora nessuno fu più disonorato per essere andato sulla carretta: i criminali furono condotti su un vecchio cavallo con la coda e le orecchie tagliate. […]
Intanto, Lancillotto, mentre si stava avvicinando al Ponte Sommerso, incontrò il nano che, presolo da parte, gli disse che messer Galvano lo pregava di andare a raggiungerlo senza indugio.
Partì all’istante, dopo aver ordinato alla sua gente di attenderlo, e il nano lo condusse in un piccolo castello ben fortificato, circondato da fossati. E là, fu introdotto in una sala a livello del terreno, dove non aveva fatto tre passi che cadde in una fossa profonda più di due tese, ma senza farsi alcun male ché il fondo era stato giuncato d’erbe fresche.
Non dubitò affatto che questo tradimento fosse opera di Meleagant, ma che fare? Si lasciò dunque disarmare, e fu messo in prigione in una torre; d’altronde, non fu trattato male dal siniscalco di Gorre, suo guardiano, che gli lasciava ogni libertà, salvo quella di uscire, sicché non mancò d’apprendere la notizia che re Artù aveva indetto un trofeo che si doveva tenere a Pomeglay.
Ora, il siniscalco aveva una sposa bella e cortese. Ogni giorno, lasciavano uscire il prigioniero dalla torre e, poiché il siniscalco spesso non era in casa, Lancillotto mangiava in compagnia di questa donna, che non tardò ad accendersi d’amore per lui.
Quando s’avvicinò il giorno fissato per il torneo, ella notò che egli perdeva l’appetito e che si faceva sempre più pensieroso, cosa che, del resto, gli si addiceva molto bene e ancor più tormentava la donna. Invano gli domandava cosa avesse: egli non voleva dir nulla. Infine, confessò che moriva dal desiderio di andare al torneo.
«Lancillotto – disse la dama – non dovreste provare molta riconoscenza per chi si adoprasse perché possiate andarvi? Se m’accorderete un dono, vi consegnerò delle armi e un cavallo, e vi lascerò uscire sulla parola».
«Ah! signora, ve lo concedo volentieri!».
«Ebbene, sapete cosa m’avete donato? Il vostro amore».
«Signora – egli rispose con imbarazzo – dell’amore vi darò quanto mi è possibile accordare».
Ella pensò che fosse un po’ intimidito, ma che al ritorno non avrebbe mancato di essere tutto per lei. Perciò, al giorno fissato, dopo che egli ebbe giurato di ritornare senza fallo alla fine del torneo, la dama lo armò con le proprie mani ed egli partì. […]
Nel torneo Lancillotto compì tali prodezze che tutte le damigelle furono concordi nell’assegnare a lui il premio.
Ma quando gli si volle consegnare il montone dorato, si trovò solo il suo scudo, che aveva lasciato con la lancia e l’armatura del cavallo: ché era partito prima della fine del torneo per ritornare alla prigione, dove il siniscalco l’attendeva con grande inquietudine.
Quando la moglie gli aveva confessato d’aver lasciato partire Lancillotto, poco era mancato che il siniscalco l’uccidesse. Per prudenza, s’era affrettato ad avvertire Meleagant. E costui, questo traditore arda nel fuoco dell’inferno! – giurò che avrebbe saputo rinchiudere Lancillotto in un luogo da cui non sarebbe uscito senza congedo.
Lo fece infatti trasportare in una torre molto alta e ben fortificata, nel mezzo di una grande palude, nella marca del Galles. Furono murate porte e finestre, tranne una piccola apertura alla sommità: da lì, ogni giorno facevano passare al prigioniero un pezzo di duro pane d’orzo e dell’acqua torbida, che gli venivano portati in barca e che egli stesso tirava su per mezzo di una corda.
Fatto ciò, Meleagant si recò alla corte di re Artù, che in quel momento era a Londra, per reclamare battaglia contro Lancillotto e, nel caso che l’avversario fosse contumace, chiedere che la regina lo seguisse com’ella aveva giurato.
«Meleagant – disse re Artù – Lancillotto non è qui e non lo vedo da un anno, ancor prima che liberasse la regina. E voi ben sapete cosa dovete fare».
«Cosa dunque?».
«Attendere qui quaranta giorni, in fede mia! E se Lancillotto non si presenta, o qualcun altro in sua vece, voi porterete via la regina».
«Così farò», rispose Meleagant.
Ora, il Racconto dice a questo punto che egli aveva una sorella di primo letto. E questa pulzella lo odiava a morte perché s’era impossessato della terra che ella avrebbe dovuto ereditare da parte della madre, dopo averla tanto calunniata che re Baudemagu, loro padre, l’aveva esiliata ai margini del regno: cioè proprio nella marca del Galles.
Quando ella apprese che nella torre era stato rinchiuso un prigioniero, decise di saperne di più.
Sappiate che il sergente che sorvegliava la torre alloggiava ai limiti della palude, vicino alla strada, e che sua moglie doveva tutto alla sorella di Meleagant, che l’aveva allevata e maritata. Costei venne a trovare la sua protetta e a dormire da lei. Poi, la notte, quando ognuno si fu addormentato, ella montò sulla barca con due sue pulzelle, e remò fino ai piedi della torre, dove scoprì il piccolo paniere con cui si mandavano su i viveri.
E intese una voce che diceva: «Ah! Fortuna, come ha girato male la tua ruota per me! I villani dicono proprio il vero quando affermano che a fatica si trova un amico. Ah! messer Galvano, se foste in prigione voi come lo sono io da un anno, non ci sarebbe né torre né fortezza al mondo che non conquisterei, finché non vi avessi trovato! E voi, mia signora e regina, da cui m’è venuto ogni bene, non è tanto per me quanto per voi che rimpiango di morire qui, ché ben so che grande sarà la vostra pena quando saprete della mia morte!».
Così gemeva il prigioniero, e la damigella indovinò che era Lancillotto. Urtò il piccolo paniere ed egli, che se ne accorse, venne alla finestra e sporse la testa.
«Sono un’amica – ella disse – triste per la vostra pena. E mi sono messa in pericolo di morte per liberarvi».
Ella ritornò pian piano alla casa, da dove portò un piccone e una grossa corda, che legò a quella a cui era appeso il piccolo paniere. Lancillotto tirò lesto la corda, allargò l’apertura e si lasciò scivolare nella barca più silenziosamente che poté, e da lì essi raggiunsero l’alloggio del sergente.
La damigella lo fece coricare nella camera vicina alla propria. E l’indomani, appena fu giorno, lo vestì con uno dei suoi abiti; dopo di che lo condusse su uno dei suoi palafreni in mezzo alle pulzelle, sotto gli occhi dei guardiani che non lo riconobbero.
E sappiate che, una volta uscito dalla torre, per tutto l’oro del mondo Lancillotto non vi sarebbe rientrato! Ma il racconto torna ora a Meleagant.
Di lì a nove giorni scadeva il termine dei quaranta giorni. Il fellone si presentò tutto armato davanti a re Artù e dichiarò che, poiché Lancillotto non veniva, egli avrebbe portato via la regina nel regno di Gorre.
«Se Lancillotto fosse qua – disse messer Galvano – non avreste certo tanta fretta d’avere questa battaglia! Ma l’avrete, se la desiderate quanto fate mostra, ché io combatterò per amor suo e di madama».
E andò a farsi armare dagli scudieri.
Ora, nel momento in cui montava sul suo destriero di Spagna, un cavaliere entrò nel castello: era Lancillotto! Ah! quale accoglienza gli fece messer Galvano! Sull’istante, si spogliò dello scudo, dell’elmo, del giaco, e l’amico si armò con le sue armi.
Intanto il re accorreva ad abbracciare Lancillotto, e la regina dopo di lui, e tutti i compagni; e già ogni pena era scordata, ché la felicità sconfigge e cancella il dolore all’istante. Ma Lancillotto non dimentica certo Meleagant e s’affretta ad andare da lui.
«Meleagant – disse al nemico stupito di vederlo – avete gridato e ragliato abbastanza per avere la vostra battaglia! Ma, grazie a Dio, io sono uscito dalla torre in cui m’avevate rinchiuso col tradimento. È troppo tardi per chiudere la stalla, come dice il villano, quando non vi sono più cavalli».
Tutt’e due si recarono in un vallone, tra due boschi, cosparso d’erba fresca e minuta; al riparo di un sicomoro piantato almeno ai tempi di Abele, scorreva una fonte vivace su della ghiaia chiara come l’argento: là si sedette il re con la regina, dopo aver messo degli uomini a guardia, e quando il corno ebbe dato il segnale, i due campioni spronarono i cavalli.
Al primo urto, la lancia di Meleagant volò in frantumi: ché non colpiva col muschio, ma assi dure e secche. Quella di Lancillotto trapassò lo scudo dell’avversario e glielo serrò al braccio, e il braccio al corpo, e gli fece piegare il corpo sull’arcione, e rovesciò il cavallo insieme all’uomo.
Subito Lancillotto mise piede a terra e corse addosso a Meleagant, la spada in mano, coprendosi con lo scudo. E tutt’e due cominciarono a infliggersi gran colpi sull’elmo, a romper gli scudi, a tagliare i giachi sulle braccia, sulle spalle e le anche. E così fino a mezzogiorno.
Allora Meleagant parve sfinito. Era colpito in più di trenta punti, ché Lancillotto era uno schermidore molto più bravo di lui; aveva ricevuto colpi sì forti al capo, che il sangue gli colava dal naso e dalla bocca, e al punto che ne aveva le spalle coperte; in breve, non faceva altro che resistere e difendersi.
All’improvviso, mentre avanzava d’un passo per evitare una pesantissima percossa, Lancillotto lo urtò sì rudemente che lo fece cadere spossato, e subito gli saltò addosso e lo afferrò per l’elmo, ma le corregge erano forti: ebbe un bel tirare Meleagant, esse non si ruppero.
Allora lo colpì col pomo della spada sì da fargli entrare nella testa le maglie del cappuccio, tanto che l’altro svenne: poi tagliò i lacci e strappò via l’elmo; ma attese che Meleagant fosse ritornato in sé e, invece di mozzargli la testa, gli chiese di confessarsi vinto.
«Pietà – gridò il fellone. – In nome di tutti i santi che si pregano in Paradiso, abbiate pietà di me!».
E, mentre diceva tali parole, sollevava proditoriamente il giaco del vincitore per conficcargli la spada nel ventre. Vedendo ciò, Lancillotto alzò la propria e d’un sol colpo gli fece volar via la testa.
Mentre asciugava la lama tutta imbrattata di sangue e di cervello, Keu il siniscalco corse a togliergli lo scudo dal collo.
«Ah! signore – disse Keu – avete davvero dimostrato, qui come altrove, d’essere il fiore della cavalleria terrena».
Venne poi re Artù che abbracciò Lancillotto tutto armato com’era e volle slacciargli l’elmo con le proprie mani. Quindi arrivò messer Galvano, con la regina che era più felice di quanto donna sia mai stata, e tutti gli altri baroni.
Il re ordinò di preparare le tavole, e sappiate che concesse a Lancillotto un onore che mai aveva accordato ad alcun cavaliere, per quanto nobile: ché lo fece sedere proprio accanto a sé, sul palco. E certo, era accaduto che egli vi facesse sedere qualche cavaliere vincitore di torneo o di quintana, ma non così vicino alla propria persona.
Tale fu il posto di Lancillotto quel giorno, per preghiera di re Artù e ordine della regina sua signora, ed egli ne era tutto confuso.
Quando ebbero mangiato a sazietà, i cavalieri ritornarono ai loro alloggi; ma il re trattenne Lancillotto e lo fece sedere a una finestra della sala, insieme alla regina, a monsignor Galvano e a Bohor l’Esiliato. E là gli chiese di raccontare le avventure che aveva incontrato dopo aver lasciato la corte, e le ascoltò con piacere; poi mandò a chiamare i suoi dotti chierici e le fece mettere per iscritto.
È così che ci sono state conservate nel libro di Lancillotto del Lago.
(Il cavaliere della carretta, 16-18; 20-21)