«Non potrò morire – disse Batradz ai Narti – fin quando la mia spada non sarà stata gettata in mare!» – infatti era misticamente unito alla sua spada, come se questa racchiudesse la sua «anima esterna».
Ma come avrebbero rimosso i Narti quest’arma formidabile?
Cercarono di ingannare l’eroe, di persuaderlo che l’arma era stata già gettata in mare, e che era giunta per lui l’ora di morire. Avevano un bel giurare, Batradz chiese loro quali prodigi fossero avvenuti quando la spada era stata gettata nei flutti.
«Nessuno», risposero confusi.
«Questo vuol dire che la mia spada non è stata gettata in mare, altrimenti avreste visto dei prodigi».
I Narti si dovettero rassegnare. Spiegarono tutte le loro forze, aggiogarono molte migliaia di animali. Alla fine, riuscirono a trascinare la spada di Batradz fino alla costa e la gettarono in mare.
Subito si alzarono onde e uragani, il mare ribollì, poi divenne rosso di sangue. I Narti erano irrefrenabilmente stupefatti e felici. Corsero a raccontare a Batradz quel che avevano visto.
Convinto, Batradz esalò l’ultimo respiro.
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Così recita una delle due versioni della morte di Batradz. Essa ha offerto materia a un confronto di vasta portata. Infatti descrive in forma narrativa una scena simile a quella d’un rituale degli Sciti in onore del loro Ares.
Ad Ares [gli Sciti] sacrificano in questo modo. In ogni distretto dei loro regni innalzano ad Ares un santuario siffatto: si accatastano fascine di legna piccola e se ne forma un mucchio lungo e largo tre stadi, di altezza minore. Su questo mucchio è ricavata una piattaforma quadrata, tre lati della quale sono inaccessibili, e solo il quarto in declivio e vi si può salire.
Ogni anno vi si aggiungono centocinquanta carrettate di legno novello piccolo per livellare l’affossamento provocato dall’inverno. Su questo mucchio viene piantata da ciascuna tribù un’antica scimitarra di ferro: è l’immagine di Ares.
Gli Sciti offrono ogni anno a questa scimitarra sacrifici di armenti e di cavalli, e le vittime sono ancora più numerose che per gli altri dèi. Gli immolano anche una percentuale dei prigionieri catturati, ma secondo rituali diversi da quelli del bestiame. Dopo aver versato libagioni di vino sulla testa delle vittime, le sgozzano sopra un vaso issato sulla piattaforma di legna sottile e versano il sangue sulla scimitarra.
Mentre portano così il sangue in cima alla catasta sacra, ecco cosa fanno in basso: tagliano la spalla e il braccio destro degli uomini sgozzati e li gettano in aria, e poi, compiuto il sacrificio di tutte le altre vittime, si allontanano. La mano rimane là dove va a cadere, e il corpo giace separatamente.
(Erodoto, Storie, 4: 62)
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La catasta di cento carrettate di legna che Batradz ordina ai Narti di portargli, su cui l’eroe d’acciaio degli Osseti sale e da cui scende solo per massacrare i Narti in offerta al padre ucciso, è la trasposizione drammatica dell’accatastamento rituale delle centocinquanta carrettate di fascine che gli Sciti di un distretto portano, su cui piantano la spada, simbolo del loro dio, e intorno a cui i prigionieri erano immolati a schiere.
Certo, mentre le fascine accatastate per Ares pativano solo le intemperie, salvo essere reintegrate tutti gli anni, il rogo di Batradz è bell’e consumato; ma questa differenza attiene ai livelli di presentazione, l’uno cultuale, sottoposto alle condizioni del clima, l’altro narrativo e libero. […]
Il fatto di simboleggiare Ares con un tipo di spada è connesso allo stretto legame più volte dichiarato tra Batradz e la sua spada: per una legge di natura, egli non può morire che nel momento in cui, entro una scenografia wagneriana, essa è gettata in mare; dopo la sua morte, la spada ne diventa il sostituto, slanciandosi da sola dal mare al cielo contro gli Spiriti, come da vivo faceva lui. […]
A questo insieme coerente va tuttavia aggiunto un altro elemento, a prima vista senza nesso logico, ma che – come il rogo testé menzionato – viene a ribadire una sorta di «dimestichezza congenita» di Batradz col fuoco: il tema del «cenerentolo».
Dalla nascita alla fine dell’adolescenza, qualche volta con un intermezzo presso i geni delle acque, Batradz vive nel villaggio dei Narti con Satana sua zia. Questa, osservando il suo carattere e capendo che non è un essere come gli altri, teme che diventi «fatale a qualcuno» e lo rinchiude, solitario, in una camera buia. Lui però riesce a svignarsela e, quando è fuori, la sua forza esplode a spese dei bambini Narti, finché Satana, informata, lo riporta nella sua prigione.
Qualche volta, per queste prodezze si dà anche un’aria miserabile. Così appunto si presenta, tutto imbrattato di cenere, al ricco Buræfærnyg. […]
«Sulla pietra del focolare, vicinissimo al fuoco, è seduto un ragazzo, le gambe nude, e gioca con il fuoco».
È così che lo sorprende per la prima volta l’eroe Aræxzau in cerca di una guida che l’accompagni sulle tracce del narto Soslan: un ragazzo dall’aspetto miserabile, un «piccolo aborto» (come lo chiama la stessa sua nutrice, Satana), sempre alle prese col fuoco. Un «cenerentolo», appunto.
Se nei racconti osseti questo suo aspetto è solo accennato, e solo per il periodo limitato della sua infanzia, le cose stanno diversamente in quelli narrati dagli Abkhazi.
Gli Abkhazi hanno accolto Batradz fra i loro Narti … l’eroe era però popolare sotto un altro nome, propriamente un soprannome, Tswitsw … e possedeva una doppia natura, o almeno un doppio comportamento: pigro, trasandato, sudicio e in generale d’aspetto pietoso finché restava in casa, diventava viceversa battagliero, terribile all’atto di uscire, conciando a mal partito i monelli per la strada. […]
Questa peculiarità, gli Abkhazi l’hanno accentuata e l’hanno estesa a tutta la carriera successiva dell’eroe, adattandola alla condotta uniformemente buona che gli attribuivano.
Per intere giornate, Tswitsw restava seduto vicino al focolare tagliando legnetti. Se lo si cacciava da un posto, andava a sedersi da un’altra parte e continuava il suo inutile lavoro. Siccome i trucioli cadevano dappertutto, sul focolare, in cortile, in ogni camera della casa, si finì per chiamarlo Tswitsw, che vuol dire «truciolo». Non ne verrà fuori niente di buono, sentenziarono i Narti …
Tswitsw era di figura mediocre solo durante il giorno e quando lo si vedeva in casa. La notte, o quando partiva solo, in incognito, diventava il più grande degli eroi. Gli capitò perfino di esprimere palesemente questa doppia natura con un’acconciatura che aveva dato luogo a un soprannome: Metà-Nero Metà-Bianco …
Quando Tswitsw fu diventato uomo ed ebbe imparato a cavalcare si procurò di nascosto tre cavalli prodigiosi, il primo con il mantello bianco, il secondo rosso, il terzo nero e, sempre di nascosto, cucì tre tuniche degli stessi colori. Durante il giorno, restava seduto presso il focolare, ma dopo il calar del sole, quando era buio fondo, si trasfigurava e all’insaputa dei Narti partiva per spedizioni in cui si procurava grande gloria.
(Dumézil, Storie degli Sciti)
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Come non pensare ad Amleto e alla sua passione per il fuoco?
E chi è Amleto nell’antica narrazione, se non un altro Vendicatore? Chi se non lo stesso furente Marte o Ares che, per placarsi, pretende (senza però mai placarsi del tutto) che ogni anno a lui siano immolate centinaia e migliaia di vittime?
Conosciamo, all’incirca, lo stato della questione: l’Età dell’oro, il Tempo di Yama/Saturno è tramontato, Kronos è stato esiliato, la coppa di Jamshîd è caduta in fondo al mare, Hæmyts è stato ucciso a tradimento – il «padre sovrannaturale» del bambino è stato divorato dal Giaguaro. La cosa domanda vendetta.
Ovunque, osserva Santillana, a qualunque latitudine il Mito registra questo drammatico evento che in illo tempore avrebbe segnato la fine del mondo selvaggio di Kronos/Saturno, e l’avvento del Cosmo di Marte.
L’avvento, stavamo per dire, del Cosmo Culturale – l’emergenza traumatica, dal fondo stesso della Natura, di quel linguaggio «civile», «sociale», di cui Giaguaro è in Sudamerica il Signore.
Ma alla «confluenza dei due fiumi» linguistici, al trapasso dalla Natura alla Cultura, dal Biologico al Simbolico, là dove le acque si confondono – ecco sprizzare una scintilla, una sola, che però contiene in sé tutta la rabbia, l’ira, il furore, la pazzia (attributi di Marte) di una «volontà di vendetta», di una Nemesi insaziabile.
Fuoco nell’acqua – dicono all’unisono alchimisti e cabalisti.
Un fulmine è caduto nell’acqua: un germe «distruttivo», il seme di Šiva, dicono in India, è stato inoculato nella «creatività» di tutte le acque amniotiche. Osiride è morto. Bisogna piangerlo per seppellirlo e, una volta sepolto, attendere che da sé magicamente risorga la luce del nuovo anno.
È ovunque all’opera una stessa Rappresentazione: wagneriana o shakespeariana che sia la sua tonalità, è quell’irriducibile «fuoco nell’acqua», quel fuoco che fatica a spegnersi, quel fuoco che non vuole arrendersi, che non si rassegna al Nuovo Cosmo Simbolico, e che ancora si ribella alle categorie della Lingua del Giaguaro – è esso il Soggetto della Trama, il solo che non si assoggetta, non del tutto perlomeno, alla Nuova Legge.
La sua spada è così «incandescente» che solo la Candida Rosa dell’empireo della nostra mente può esserle alla pari.
È solo là che essa riposa in pace – quando rientra a casa sua, nella Casa in fondo al mare. Solo dispersa nell’Oceano dei racconti, essa ritrova, intatta, la sua «volontà di potenza», di nuovo libera da ogni rancore, da ogni risentimento, da ogni pensiero di vendetta.
Da laggiù, essa non risorge che in quel solo istante «incandescente» in cui, alla nostra mente infantile, le acque dei due linguaggi, immaginario e simbolico, confluendo in uno stesso gorgo, insieme «creano» distruggendo il vecchio.
Ma come avrebbero rimosso i Narti quest’arma formidabile? si domanda Dumézil. E di sicuro non poteva «indovinare» meglio di che si tratta, quando si tratta di dare sepoltura al «furioso». Perché i Narti, per esistere, hanno bisogno di «rimuovere» l’arma del loro Passato Immaginario.
Ma mentre tutte le altre secrezioni immaginali si sperdono facilmente nell’oblio, solo quella scintilla vendicativa, solo quello schizzo di pazzia, resiste e tarda a spegnersi.
Mentre gli altri immaginati possono facilmente essere dimenticati, solo Batradz richiede un trattamento speciale – la Rimozione.
La Rimozione è tutt’altro che una dimenticanza. Come la dimenticanza, è pur essa, è vero, vuota di memoria. Ma mentre una qualsiasi dimenticanza muore ed è sepolta e si estingue per sempre, la Rimozione invece si ripete, la spada riemerge di tanto in tanto. La Rimozione, dice il dottor Freud, è una ripetizione senza memoria. Un automatismo, la cui ragion d’essere giace in fondo al mare.