La leggenda narra che la bella Saranyû, figlia del fabbro celeste Tvastr e sorella gemella del tricipite Triširas, dal giorno in cui andò sposa a Vivasvat, sparì per sempre alla vista dei mortali (Rig Veda, 10: 17.1-2), lasciando al suo posto un’immagine talmente simile a se stessa – così dice il Racconto – che lo sposo, Vivasvat, ci fece all’amore.
Roba da non crederci! Un altro Pigmalione!?
Eppure il Racconto così dice. Dice che non fu Saranyû, ma l’immagine che ne faceva le veci, a perdere in questo modo la verginità. A perderla però per dare al mondo quel figlio che al mondo ancora mancava: l’Uomo, così come un suo antenato «non ancora umano» se l’era immaginato.
Diversamente combinati, tornano i soliti Personaggi dell’antica Sceneggiata: c’è il Fabbro che fabbrica, ovvero lo Scultore che scolpisce la statua della Fidanzata, e la mette in mostra, la manifesta al mondo, e il mondo se ne innamora (c’è chi dice che è fatta di legno, chi invece sostiene che è fredda e algida come un blocco di marmo); c’è poi lo Spasimante, quello che più di tutti – o forse prima di tutti – devia dal suo solito cammino, attratto com’è dalla Bellezza dell’Esca «afrodisiaca»; e c’è, ovviamente, Lei – la Fidanzata «scolpita» nell’immaginario e, proprio perciò, tutt’altro che «reale» (sappiamo di che si tratta: la sua Immagine dev’essere «bucata», per poterci fare all’amore); e c’è, infine – last but not least – il coro degli Uccelli, ovvero degli «aiutanti magici» di cui lo Spasimante ha bisogno perché gli sia aperta la via «cromatica» (o la Vagina multicolore – che è poi la stessa cosa) a un aldilà del suo «principio di piacere», al di là dell’«oggetto» a cui attribuisce la potestà di poterlo «soddisfare».
È come il gioco delle Tre carte. Tutto sta a mescolarle in modo che gli uccelli si confondano nei colori del loro piumaggio, e le loro lingue si spartiscano a vanvera le note del Pentagramma Lussurioso.
Vulcano è un fabbro, ma per i Greci è solo lo Sposo Legale di Venere. Non è detto più che è il suo «fabbricante». Eppure, il Racconto conferma: la sua Venere è per tutti tranne che per lui. Ilmarinen è un fabbro, ma per i Finni l’opera sua che conta è la costruzione della volta celeste – sebbene ci metta tanta passione a forgiare la statua della sua Sposa. Anche in questo caso: la Sposa sarà, ma sarà di un altro. Non può che essere così, dice il Racconto: il desiderio è sempre il desiderio di essere quell’altro: quello là che ci copula con la Donna altrui.
La leggenda dunque narra che dalla copula immaginale tra Vivasvat e la copia conforme della sua Amata venne al mondo Manu Satyavrata, l’uomo futuro – quello che doveva traghettare l’Uomo al di là del diluvio, il Pescatore nella cui rete doveva finire un giorno il pesciolino depositario del Gran Segreto delle «misure» dell’Arca.
Tu mi dirai: ma come? si può a un pesciolino dare tutta questa importanza, è poi possibile che nel Racconto questo pesciolino non abbia un nome?
Oh, sì che ce l’ha il nome! è solo che volevo risparmiarti – almeno al primo approccio – l’intrigo di cui ogni nome proprio è sempre, in un racconto, il nodo da sciogliere. Per ora contentati di sapere che si chiama Matsya, e che Matsya è, nella tradizione indù, il primo avatar di Visnu (il primo dei dieci mondi sopravvissuti al diluvio!).
Il suo «rango» (se mi concedi di pazziare a dire la prima cosa che mi viene in mente) è quella di Kether, la Corona, la prima, la più intima delle dieci Sefirot della Cabala (le sfere, i cieli, gli oceani, le vie del firmamento, i mondi aperti ai pensieri e ai sentimenti, e le isole, i palazzi, gli accampamenti, e le loro rovine più o meno fumanti – tutta la Storia Umana raccolta, senti un po’!, in soli dieci Nomi Propri di Persona! dimmelo tu se questa è roba seria o solo cose da pazzi).
Insomma, il mondo sarebbe impazzito – sarebbe stato sommerso dalla sua pazzia (così dice il Racconto), se dal mare profondo non fosse emerso quel non-nulla, quel poco più di niente, anzi quel resto di niente, appena un pesciolino in fuga dai Predatori degli Abissi.
Ma chi è questo Matsya che s’avventura fuori del suo mondo natio – se non un matto pescato a caso? cosa se non uno schizzo di paura che, per sopravvivere, osa gettarsi in quest’altro mondo? – nel mondo di superficie?
Non c’è da fare nessuna elucubrazione. È lui stesso a confessarlo: se fugge è perché ha paura, fugge dalla paura, fugge lungo la linea di fuga che è la Paura stessa a tracciargli. È, come dire? – una paura a poter salvare (ma non è detto) il mondo dalla Paura della sua Fine. Una paura può diventare, ma non è detto che lo diventi, produzione di mondi nuovi e creazione di desiderio. Dalla Paura nascono insieme Visnu e Šiva – quello che l’uno crea, l’altro lo distrugge. L’uno apre una via di fuga dalla Paura, l’altro la chiude facendone un’istanza di morte. Chi la percorre, è pronto a distruggere ciò che lo spaventa, pur di trovare pace ed estinguersi. Forse.
Salvami! – è tutto ciò che il pesciolino ha da dire al Pescatore che per caso l’ha pescato e che per puro caso se lo ritrova tra le mani. Il pesciolino vuole vivere, vuole un’altra chance. Vuole la chance dell’altro a cui «lega» il suo proprio destino, quassù in superficie.
Eppure, ora lo sappiamo, è come se dicesse: Salvando me, salverai non uno, ma tutt’e dieci i mondi a venire. Salverai tutti i Possibili, dando a me la possibilità di vivere fuori dal mio mondo.
Se non è nuova questa idea del Pesce-Salvatore, se non è esclusivamente indù – pur tuttavia in India è congegnata in modo che risalti che, in fondo a ogni «anelito alla salvezza», non si cela che l’antica Paura degli Abissi e dei suoi Predatori. E che a dare la spinta al desiderio rifratto da Saranyû alla sua bella copia, e a costringerlo ad aprirsi una nuova via – fu quella Paura là, su cui ancora «giocano» Visnu e Šiva: uno per ricrearci, l’altro per distruggerci.
La leggenda narra dunque che la bella Saranyû fu la Matrice del Primo Uomo – Manu Satyavrata. E narra che questo tale Manu faceva il pescatore.
Ed ecco, un bel giorno, nella sua rete finì un pesciolino.
Dibattendosi nelle sue mani, il pesciolino gli disse: «Se salvi me, io salverò te!».
Manu, uomo di grande pietà, oltreché di purissima fede, chiese: «E come potrei salvarti?».
«Verrà il diluvio – gli rispose il pesce – e le immense acque sommergeranno tutto. Travolgeranno pure me, poiché sono troppo piccolo».
«Che devo fare dunque?».
«Serbami in un vaso, e per te prepara una grande nave».
Così fece Manu, e quando sopraggiunse il diluvio, il pesciolino era diventato un pesce gigantesco, con uno splendido corno sulla fronte.
Allora, mentre le acque spazzavano via ogni forma di vita dalla terra, il pesce prese sul suo corno la nave che intanto Manu aveva fabbricato e la portò al riparo al di sopra delle alte montagne dell’Himalaya. In tal modo la Specie Umana fu salva.
Che altro dire? quel corno è lo stesso del delfino che salva Arione.
Veniamo dal mare, fuggiamo dai Predatori degli Abissi. Ma quassù, in superficie, non è che le cose vadano tanto meglio. Qui ci sono i pirati. E i pirati, se ti acciuffano, non ti lasciano scegliere che come morire.
Il destino di ogni racconto è affidato alla scelta del suo Narratore: sta a lui decidere se darlo in pasto al «culto dei morti» (e dunque dei Nomi Propri) o se invece disperderlo nel vasto mare delle voci di babele.
In quanto ai Pirati – a quanti hanno avuto il privilegio di ascoltare Arione, il Sommo dei Cantori della sua epoca – a quanti si sono illusi di farla franca andandosi a rifugiare nella pirateria, nel «rapimento» cioè di un’Immaginata altrui – a quanti hanno praticato il furto senza mai donare se stessi al Canto che hanno rubato altrui – ebbene, sappiano che, in una sorta di rinculo vendicativo del Canto sui suoi prosatori postumi, proprio tra di loro è nato il più «terribile e oscuro» dei Filosofi.
Se non s’è capito – alludo a Parmenide, al Pitagorico eretico che fu l’ultimo dei Poeti in cui, sia pure detta alla greca (a proposito di pirateria), ritorna l’eco della leggenda della Sposa Immaginale – per sposare la quale perfino il Sole smarrì la «retta via» dell’Equatore Eterno. Figurati un ragazzino!