Affinché suo figlio Tuhuruhuru crescesse forte e coraggioso, Tinirau volle che a celebrargli la cerimonia del nome fosse, non uno qualsiasi, ma il migliore dei ministri del culto. La scelta cadde su Kae, che era anche un prestigioso capo della tribù Ati Hapai, oltre che un sacerdote di fama, abile nell’eseguire tutti gli incantesimi e i riti.
Tinirau mandò una canoa a prenderlo, e quando fu il momento giusto, Kae venne e fu accolto, come tutti gli altri ospiti, con molta deferenza.
Il giorno fissato per la cerimonia vennero stesi nel portico della casa tutti i meravigliosi mantelli che Tinirau possedeva, e per fare sfoggio di ricchezza e potere, vi furono esposti sopra bastoni di giada e osso di balena. Vennero stesi anche molti rotoli di stuoie appena intrecciate e altri doni per gli invitati alla cerimonia.
Kae venne ed esercitò il suo ruolo: recitò tutti i canti appropriati, cantò tutti i miti delle origini, tutte le storie degli antenati dell’uomo, e infine affidò il bambino, come conferma il suo nome, alla protezione di Tu, dio della guerra.
Terminata la cerimonia, tutti si fecero avanti a salutare il piccolo Tuhuruhuru con lamenti, e alcuni gli rivolsero anche discorsi di benvenuto. Poi, furono portati alla festa preparata dalle donne.
Avevano cotto in grande abbondanza uccelli e piccioni, che poi avevano messo nei recipienti, e arrostito anche dei topi. Servirono pure pesci e anguille in gran quantità, crostacei e molluschi, gamberi e uova di mare, assieme a patate dolci, ignami cucinati nel forno a terra. Il cibo veniva servito agli ospiti in piccole ceste appena intrecciate di lino verde.
Tinirau, in particolare, fu contento del modo artistico in cui Kae aveva eseguito la cerimonia del figlio; decise allora di dare al vecchio un dono speciale.
Scese in spiaggia e chiamò a sé Tutunui, la balena scelta come animale preferito del figlio. La balena accorse al suo richiamo e si stese sulla spiaggia; Tinirau tagliò dal suo fianco un pezzo di carne, lo fece cuocere per Kae e poi glielo diede. Il sacerdote lo trovò squisito e ne avrebbe mangiato dell’altro, se ce ne fosse stato.
Finita la festa, la maggior parte degli ospiti tornò ai propri villaggi. Solo Kae trovò delle scuse e si intrattenne ancora alcuni giorni. E quando infine decise di tornare al villaggio, Tinirau diede ordine di preparargli la migliore canoa, fornita dei più abili pagaiatori.
Il sacerdote però avanzò delle obiezioni su quella canoa. Disse che avrebbe preferito non salirci. La sua era tutta una scusa, perché voleva convincere Tinirau a farlo andare a casa sul dorso della balena: così avrebbe potuto gustare dell’altra carne di quel grande animale.
Tinirau però non aveva piacere che Tutunui si allontanasse dalla sua vista, e perciò non aveva nessuna intenzione di affidarla a Kae. Esitò e non gli disse né sì né no. Poi, alla fine, quando Kae gli fece solenni promesse che avrebbe trattato l’animale come si deve, cedette.
«Bene – disse a Kae. – Prendi pure l’animale di Tuhuruhuru, ma ti prego di prestare la massima attenzione a quanto ti dico. Se durante il viaggio desideri fare qualcosa, falla sul lato sinistro e non su quello destro. Una volta raggiunta la spiaggia della tua isola, la balena toccherà il fondo con il ventre e te lo farà sapere con uno scrollone. Allora tu fa’ subito un balzo dalla parte destra e poi cammina nell’acqua bassa. La balena saprà come tornare a casa».
Durante la traversata, Kae non obbedì agli ordini di Tinirau; fece ogni cosa dal lato sbagliato e, quando Tutunui, raggiunta la spiaggia, si scrollò, Kae non saltò giù in acqua. Rimase sul dorso, ben aggrappato, pronunciando formule magiche, che rendevano impossibile a Tutunui di allontanarsi.
Anzi, mentre la balena cercava di allontanarsi, lo sfiatatoio restò bloccato dalla sabbia e poco dopo il cetaceo morì.
Kae salì al villaggio e poi ridiscese con la sua gente; trascinarono il corpo della balena a riva, lo tagliarono a fette e fecero un gran banchetto con la sua carne gustosa. Cucinarono la carne nei forni a terra coprendola con le foglie profumate di Koromiko e sopra ci misero la terra. Il grasso di Tutunui impregnò le foglie, che da quel giorno sono rimaste unte al tatto; da qui è nata l’usanza di dire, quando si mettono le foglie sul cibo da cucinare, che esse hanno «il sapore di Tutunui».
Nel frattempo, Tinirau aspettava che la balena tornasse a casa. Da quando l’aveva affidata a Kae erano già passate una notte e un’alba, e ancora non si vedeva. Solo nel pomeriggio si levò il vento di sud-est e gli portò l’odore gustoso della carne arrostita di Tutunui. Allora capì a volo cosa aveva fatto il sacerdote.
Si fece scuro di rabbia e cominciò a meditare la vendetta. Pensò a lungo e poi decise di mandare la moglie e alcune donne del villaggio a riportargli Kae. Se avesse mandato degli uomini, gli Ati Hapai avrebbero subito capito che il gesto significava guerra, mentre invece, vedendo arrivare delle donne, non avrebbero sospettato di nulla.
«Ma come faremo a sapere chi è Kae?», gli chiesero le donne. Esse, infatti, non avevano preso parte alla cerimonia del nome, e durante la festa si erano occupate del cibo e non avevano mai visto Kae da vicino.
«Lo riconoscerete dai denti – rispose Tinirau. – Ha denti ineguali, che si accavallano».
«Ma in che modo possiamo vedere i suoi denti? – chiesero ancora le donne. – Se tiene la bocca chiusa, come faremo a vederli?».
«Inventate dei giochi stupidi – rispose Tinirau. – Così lo farete ridere».
Quello stesso pomeriggio trascinarono in spiaggia una grande canoa, strinsero le rizze e la prepararono per la traversata. A bordo fecero salire tutte le donne che a quell’epoca godevano di un certo prestigio: la loro missione era oltremodo difficile.
Le donne s’imbarcarono e a colpi di pagaia quella sera stessa raggiunsero il villaggio di Kae, e andarono dritto alla Casa delle riunioni. A quell’ora tutti gli Ati Hapai erano là e, quando videro le donne, andarono a invitarle ai loro divertimenti, cioè ai canti, alle danze e alla haka, che era canto e danza insieme.
Le donne accolsero l’invito e presentarono alcuni numeri e alcune canzoni che fecero morire dal ridere le persone intorno a loro.
Uno solo non rideva: un uomo seduto accanto a uno dei pali centrali della Casa. Le donne allora capirono che costui era Kae. Sul suo volto cupo non era mai apparsa né l’ombra di un sorriso né tantomeno di una risata. Sembrava che l’astuto Kae sapesse cosa volevano da lui le donne.
Durante lo spettacolo ci fu un intervallo. Così, le donne di Tinirau, col pretesto di preparare altri numeri per la seconda parte del programma, si appartarono e si consultarono tra di loro.
«Perché non proviamo a fare il Waitoremi?», disse una di loro. Si trattava di un canto stupido, in cui le parole si alternavano veloci a fischi e giochi complicati con le dita. Non era facile eseguirlo mantenendosi seri ed era altrettanto difficile guardarlo senza scoppiare a ridere.
Così, quando si riprese il programma e le ospiti vennero invitate a eseguire il loro numero, presentarono il Waitoremi.
Ti insegno a fischiare,
e lui non fischia,
t’insegno come aprire bene le dita
e lui non le apre.
Nuku fischia, Rangi fischia!
Fischia un’arietta, o Puapua,
tu ammantato di rosso!
Fischia un’arietta, obbedisci
alla mia formula magica!
Questo canto fu la rovina di Kae, che non poté trattenersi dal ridere. Le donne, pur concentrate nel canto, notarono i suoi denti particolari. Da qui deriva l’abitudine maori che, quando qualcuno ascolta un racconto e si diverte e ride, un altro tocca col gomito il vicino e gli dice: «toh, la risata di Kae!».
Poco dopo le visitatrici dissero che si ritiravano perché erano stanche del viaggio e degli esercizi eseguiti; chiesero agli Ati Hapai di tenere i fuochi bassi, così potevano dormire.
Il vecchio sacerdote, che nutriva qualche sospetto, prese due pezzi rotondi di conchiglia paua, tagliati e ben lucidi, che dovevano stare al posto degli occhi in una incisione. Quando si stese a dormire, se li mise sulle palpebre: siccome brillavano alla luce del fuoco, sperava che le ospiti pensassero che era ancora sveglio.
Invece le donne di Tinirau non vi badarono e nel buio continuarono a recitare i loro incantesimi e mormorarono questa magia, che da allora venne tante altre volte usata per far venire il sonno:
O occhi che vedono,
chiudetevi nel sonno,
sigillatevi nel sonno, nel sonno,
o occhi che vedono.
La magia non tardò a dare i suoi effetti, e tutti nella casa sprofondarono nel sonno. Non c’era nessuno della gente di Kae che fosse sveglio, di certo non il vecchio Kae, anche se i suoi occhi sembravano brillare.
In silenzio le ospiti si alzarono e formarono una fila per trasportare fuori Kae. Due sollevarono dolcemente il vecchio sacerdote insieme alla stuoia su cui dormiva, con le conchiglie luccicanti sopra le palpebre; lo coprirono con le sue coperte per tenerlo ben caldo e poi se lo passarono dall’una all’altra.
In questo modo Kae raggiunse la canoa, dove c’erano due donne pronte a riceverlo. Lo stesero sulla canoa, ancora ben addormentato, e poi presero il largo nella notte, accorciando la via del ritorno grazie a un altro incantesimo.
Prima ancora dell’alba, Kae era di nuovo steso accanto a un palo, ma di un’altra Casa: della casa di Tinirau. E là dormì ancora per un bel pezzo, così potente era stato l’incantesimo delle donne. Dopo un po’ gli caddero le conchiglie dagli occhi, ma lui continuò lo stesso a dormire.
Tinirau, compiaciuto del lavoro che avevano fatto le donne, le lodò come si meritavano. Poi ordinò che al risveglio del sacerdote tutte gridassero: «Ecco che arriva Tinirau, ecco che arriva Tinirau!». In questo modo Kae avrebbe pensato di trovarsi ancora a casa sua, e che Tinirau stesse arrivando da lui come ospite.
Così fu fatto. Quando fu pieno giorno, si levò il grido delle donne: «Ecco che arriva Tinirau!». E Kae, mezzo confuso e assonnato, si scosse dal magico sonno, pensando di essere a casa, accanto a uno dei pali della Casa delle riunioni del suo villaggio, e che Tinirau fosse venuto a chiedergli notizie della balena Tutunui.
Tinirau, giunto alla porta, si fermò e gli disse: «Salve, Kae. Come sei giunto qui?».
Kae borbottò qualcosa tirandosi su a sedere, e poi disse: «Cosa vuoi dire, come sono venuto qui? Come sei piuttosto venuto tu qui? forse vuoi dire».
Tinirau sorrise a denti stretti al vecchio non ancora del tutto sveglio, che aveva ucciso e mangiato la balena, e gli chiese: «Quante travi ci sono nella tua casa, Kae?».
Kae levò lo sguardo. Doveva soltanto guardare, non aveva bisogno di contarle. I dipinti sulle travi non erano quelli della sua casa. Capì che era giunta la sua ora, e allora chinò il capo sulla sua stuoia.
Gli uomini di Tinirau lo bastonarono e lo portarono via. Lo cucinarono poi in un forno a terra e se lo mangiarono: fu, quella, la prima volta che gli uomini mangiarono la carne umana.
***
Cambia dunque il «veicolo acquatico», qui è la balena, altrove è il delfino – in ogni caso un mammifero – a incaricarsi di traghettare un certo viaggiatore.
Un viaggiatore di cui il Racconto dice che gode di un certo prestigio: Kae è un vecchio sacerdote, conosce i miti della sua gente, celebra battesimi e cresime, mentre Arione, dal canto suo, non è un pingopallino qualsiasi, né un modesto citarista: è anzi il migliore dei cantori della sua epoca e, tra l’altro, l’inventore del ditirambo (e, quando dici ditirambo, non puoi fare a meno di pensare alla tragedia e a Dioniso!).
Non sarà più la balena, né il delfino – sarà il canuto Caronte, ma l’incarico è sempre lo stesso: traghettare sull’altra riva il Viandante Prestigioso. In tutti i casi, la traversata non ha che da mettere alla prova questo suo Prestigio – ha solo da saggiarne la fondatezza, da verificare cioè se davvero viene dal fondo senza fondo della Fanciullezza Eterna, o se invece non è che millantare crediti e saccheggiare credenze al solo scopo di mascherare la propria «fame», fosse anche solo la fame di diventare famosi.
Dal fondo senza fondo … vuolsi così colà – là dove il Si «vuole» che, a uno a uno, passi l’«io» (il je) in viaggio.
Perigliosa è la traversata dal Linguaggio Immaginario al Reame dei SI DICE.
Il Racconto dice: solo i morti hanno diritto a essere traghettati di là. E tuttavia, allo stesso tempo, dice: c’è un «vivo» confuso tra i morti. Dice che c’è, nella folla confusa dei Personaggi Immaginari destinati a essere «rimossi», un tizio che vuole passare lo stesso «nella memoria». Un cantore, un musico, un poeta, uno che conosce i miti della sua gente, perché è immerso nel prestigio del suo stesso mito, e che di tutte le parole del SI DICE fa questo uso: usa parole e segni per andare fino in fondo alla radice del suo proprio «essere prestigioso».
I pirati lo vogliono fare fuori. Ad Arione danno solo una scelta: o morire sepolto nel Racconto, o gettarsi nel mare del Racconto, tra le onde tempestose dei suoi segni e delle sue parole, fiducioso che sarà il Racconto stesso, se così vuole che sia, a portarlo in salvo di là, sull’altra sponda. Il Racconto a «verificare» il ruolo di cui il Viandante si è auto-investito quando ancora non parlava parole, e ancora non significava, e non voleva significare nulla (se non la «gratuità» del suo «balbettio d’infante»).
Uno solo dei Personaggi Immaginari può passare «vivo» nel Linguaggio Simbolico. Non sarà facile far entrare Batradz nel santuario di Sofia. Per cose del genere ci vogliono i miracoli. Ci vogliono miraggi forti – come solo dio li sa piangere.
Arione è tratto in salvo, Dante è tratto in salvo – perché Kae no?
Detto in lingua maori: perché Kae non ha «evacuato» dal lato mancino, ma ha insudiciato anche la destra del suo «veicolo», l’ha insozzata degli escrementi della sua fame di «realtà». A Kae non è bastato l’assaggio che Tinirau gli ha concesso. No, Kae è troppo «goloso» per non mentire, e mentendo insozzare il suo prestigio.
Non mangiare il cibo dei morti, non usare le parole dei morti per procurarti da mangiare – ma cantale, respirale «senza nulla a pretendere», solo che diano nutrimento al tuo donchisciottismo. Al prestigio di Batradz, del Figlio della Fata che «vive» nella sua Casa in fondo al mare.
Veniamo dal mare. Veniamo dall’Oceano dei racconti – quando ancora non erano racconti, ma balbettii e semplici scioglilingua.
Il Prestigioso è nato là, a quei tempi – alla radice di tutti i miti.
E c’è da crederlo: una volta gli era più facile trovare il «pesce» o la «nave», era un gioco da ragazzi inventare la «piroga», che dico?, una serie di piroghe per andare via dalla «giurisdizione» della Rana e dei suoi incantesimi.
Ma il pesce è stato ucciso, le piroghe sono state rubate e … la traversata ormai deve passare per le piraterie, deve farsi strada attraverso l’inferno delle proprie e altrui «porcherie» immaginarie, deve avventurarsi dal lato sinistro della mente (suppongo che la cosa piacerebbe a Hillman), deve confondersi nella mischia delle lingue morte … se vuole provare a balbettare un aldilà al suo «cannibalismo».
Perché così, all’incirca, sono andate le cose: qualcuno ha reso «commestibile» la carne della balena, qualcuno ne ha «divulgato» il sapore segreto, a chi era meglio che se ne astenesse.
Ma, intendiamoci, ognuno ha il suo Kae «dentro». Sicché, ogni volta che ci rendiamo l’un l’altro «commestibili» in una relazione, c’è sempre in agguato il Vorace, il Pirata, il Mariuolo – pronto ad «arrostire» realmente i canti altrui.
A meno che … Airone non scelga per sé l’altra morte: gettarsi a occhi chiusi nell’oceano dei racconti, e se c’è da qualche parte ancora un «vocabolo» che lo possa trarre in salvo, ad esso affidare tutto il proprio prestigio.
Se dio piangerà, se farà il miracolo … il Morto allora tornerà a vivere, e il Rimosso riavrà, sia pure per un istante illusorio, diritto alla parola – oltre che al gesto, al tic nervoso – che intanto non gli è mai mancato di ripetere sotto traccia.