Nezâmî – La principessa turca

Ero un tempo l’ancella di un certo Re, del quale, anche ora che è morto, son soddisfatta: era un re possente e grande, che aveva dato sicurezza alla pecora col lupo. Molto aveva sofferto e lottato e, per protesta contro l’ingiustizia, s’era vestito di nero, e il cielo, per il suo lamentevole oroscopo, l’aveva chiamato «il re dei nerovestiti».
Una volta possedeva costui ogni genere di vestito, rosso e giallo mirabilmente prezioso; era ospitale come la rosa del giardino, sorrideva come fiore rosso in boccio; aveva ancella-neraapprestato un palazzo per gli ospiti che dalla terra s’innalzava fino alle Pleiadi, una mensa sempre imbandita, tappeti distesi e servi allevati con grazia, di modo che chiunque venisse, veniva accolto e ospitato da lui. Quando aveva imbandito la mensa e offerto cibi ospitali in relazione al grado dell’ospite, il re gli domandava la sua storia, notizie del suo paese o dei suoi viaggi, e il viaggiatore narrava al re, che l’ascoltava, qualsiasi meraviglia avesse visto. Così tutta la vita passò in questo modo, senza mai cambiare usanza.

Orbene, una volta, il re per un po’ scomparve, nascondendo il capo al modo della Sîmorgh, e passato vario tempo nessuno diede più notizie di lui, come fu della Fenice; ma un bel giorno, d’improvviso, come volle Fortuna, quel coronato ascese di nuovo sul trono, ma veste, copricapo e camicia, tutto, da capo a piedi, era nero. Così finché egli possedette il mondo, agì con acuto intelletto e, senza apparente disgrazia, si vestì di nero, vivendo nelle tenebre come l’Acqua della Vita, ma nessuno osò mai chiedergli quale fosse la causa di quella nerezza.

Una notte che io, con amoroso affetto, adoravo quel Tempio, posò su di me il piede con affetto e, lamentandosi delle stelle del firmamento, mi disse: «Guarda quale crudele assalto mi ha fatto il cielo, quale gioco ha giocato a un sovrano come me! mi ha strappato ai lieti giardini di Eram, per immergermi nel nero inchiostro di questo colore, di modo che sul mio argento si venisse a depositare nerezza».
Meditai bene le parole del re, e strofinando il suo piede sul mio volto, dissi: «O aiuto dei rattristati, o tu il migliore di tutti i sovrani! Chi mai sulla terra avrebbe la forza d’intaccare il cielo con l’ascia? Questa storia segreta tu solo conosci, e tu solo puoi dire».

Poiché il mio padrone vide che ero una confidente discreta, infilò il rubino e schiuse la borsetta del muschio, dicendo: «Poiché io nel mio regno ero, come tu sai, abituato all’ospitalità, a chiunque vedessi, buoni o cattivi, chiedevo di narrarmi le loro avventure. Un giorno giunse uno straniero con calzature, turbante e vestito tutti neri; come al solito ordinai che si dessero provvigioni, lo chiamai da me e aggiunsi doni alla sua arabo-neromagnificenza, poi gli dissi: “O tu, la cui lettera io mai lessi, perché la tua veste è nera?”. Rispose: “Desisti, lascia di domandar questo, perché nessuno ha mai dato notizia della Sîmorgh!”. Insistei: “Suvvia, di’, non cercar pretesti, informami del viaggio e di questo nere come la pece”. Disse: “Tu devi scusarmi, perché questo è un desiderio impossibile da adempiere con le parole; di questo nero ha contezza solo chi lo possiede e nessun altro”. Ancora gli feci richieste, ma io era iracheno e lui del Khorâsân; le suppliche non valevano a nulla con lui, non alzava il velo dal volto di quel mistero.

«Quando però le mie insistenti richieste ebbero passato il limite, gli venne vergogna della mia disperazione e disse: “C’è una città nel paese di Cina, adorna come giardino di paradiso; si chiama la città dei colpiti da stupore, la casa di lutto dei nerovestiti. I suoi abitanti sono come splendide lune, ma come la luna coperti da velo nero; chiunque beva il vino di quella città, quel luogo lo rende vestito di nero, e ciò che è nel destino di quel lutto, anche se non narrato, è storia meravigliosa; ma ora, anche se tu mi mozzerai il capo, non dirò più altro”.

«Detto questo, caricò il suo bagaglio sull’asino, e chiuse la porta alla mia curiosità; poi che il mio capo si fu addormentato su quella storia, il narratore s’allontanò dal mio seno. Il novellista partì, la novella scomparve, e io temetti di diventare pazzo.
Parlai a tutti di quella storia, mossi pedine da ogni parte, ma egli aveva loro chiuso la via per arrivare a Dama, in modo tale che non riuscivo a prendere al laccio quella Rocca. Cercai allora d’ingannare la mia mente con la pazienza, affinché sopportasse, ma il cuore non mi dava requie. Chiesi in pubblico e in privato a molti, ma nessuno seppe darmi notizia del vero; finii così per abbandonare il regno, posi sul trono uno dei miei parenti, presi vesti, gioielli e denari, tanti quanto bastassero a togliermi ogni preoccupazione, chiesi il nome di quella città, vi andai e finalmente vidi quel che volevo.

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«Era una città adorna come il giardino di Eram, dove ciascuno era segnato da colore di muschio, il volto d’ognuno era bianco come latte, ma tutti erano coperti di vesti nere come la pece. Deposi il mio carico in un caravanserraglio e vi posai casse su casse di vesti.
Per un anno cercai d’informarmi della situazione della città, ma nessuno volle darmene conto. Mentre cercavo da ogni parte vidi un brav’uomo, un macellaio, dal bel volto gentile e composto, che si asteneva dal parlar male di alcuno. Vistolo così buono e bene intenzionato, cercai di farne la conoscenza. Quando mi fui a lui legato d’affettuosa amicizia, mi accinsi a onorarlo come sovrano: gli diedi monete nuovissime e doni senza limiti, e ogni giorno ne aumentai il valore: incrostavo il ferro con l’oro. Punto per punto, lo feci mia preda, ora con un broccato, ora con un volto di broccato. Il macellaio, con quella pioggia d’oro, divenne mia preda come un bue da macello, e di tesori gliene diedi tanti che faticava a portarli.

«Un giorno mi condusse in casa sua, e mi offrì un banchetto più abbondante del solito. Dapprima imbandì la tavola e portò cibi, offrendomi splendido servizio; tutto c’era su quella tavola, eccetto quel che più l’ospite avrebbe desiderato.
Quando avemmo mangiato manicaretti d’ogni sorta, e parlato del più e del meno, il mio ospite mi pose avanti regali innumerevoli, e raccolto tutto quel che io gli avevo dato, me lo portò, chiese scusa e si sedette dicendo: “Una misura tale di gioielli e tesori mai nessun gioielliere ha pesato. Perché dare a me tutto questo, a me che mi contentavo di poco? Come posso ricompensare questa generosità sovrana? Ordina pure, son pronto a Nezami-cover-sette-principesseubbidirti. Ho una sola vita, ma se pure fossero mille, sarebbero di poco valore sulla bilancia di questa tua grazia!”.

«Gli risposi: “Amico, che significa questo abbassarti a schiavo? Siimi più maturo, a che questa acerbità? Nella bilancia dell’uomo civile, che peso mai hanno queste misere cose?”.
Poi feci un cenno con l’occhio ai miei schiavi che corressero a casa e dai miei tesori particolari portassero monete di purissimo conio, e di quei preziosi denari gliene diedi ancor più di prima.
Quell’uomo che non aveva capito la mia simulazione, si vergognò delle mie blandizie e diceva: “Ero tuo debitore, non sapevo come fare a estinguere questo debito, e tu mi hai dato ancora altri tesori! Ora io mi vergogno e non so come rimediare. Io ti avevo posto innanzi di nuovo quel che mi avevi dato, non per rinfacciartelo, ma perché un simile tesoro non deve esser disgiunto da qualche tormento o fatica per ottenerlo. Quando poi a tesoro hai aggiunto tesoro, io mi son vergognato, anche se tu sei soddisfatto. Se hai qualcosa da chiedermi, fallo, altrimenti riprenditi ciò che mi hai donato”.

«Quando fui certo, così, di potermi fidare del suo aiuto e fui sicuro della sua amicizia, gli narrai la mia storia, gli dissi della mia qualità di re, del mio paese, del perché fossi venuto fin là, abbandonando il regno, per sapere per qual motivo tutti gli abitanti di quella città fossero privi di gioia.
“Senza che sia loro capitata disgrazia – chiesi – perché lottano col dolore? Perché vestono tutti di nero?”.
Quando il macellaio udì queste parole, divenne come una pecora che fugge spaventata dal lupo; restò per vario tempo come terrorizzato, con gli occhi bassi come chi si vergogni, poi disse: “Mi hai chiesto qualcosa che non dovevi, ma ti risponderò la verità”.

«Quando la notte ebbe sparso ambra sulla canfora e gli uomini si furono allontanati dalla vista, egli mi disse: “Ora è tempo che tu veda quel che desideri e ne prenda notizia. Levati e ti svelerò il segreto, mostrandoti cose mai viste”. Detto questo, uscì di casa e io lo Nadal-nuitseguii. Lui andava avanti e io, straniero, dietro, e con noi non v’era alcuna altra creatura.
Come una fata, mi tagliò via dal mondo degli uomini, conducendomi verso un deserto. Giunti in quel posto desolato, coperti da fitto velo come fate, vidi un paniere legato a una corda; egli andò e mi portò più avanti, poi disse: “Siedi un momento entro questo paniere e guarda al cielo e alla terra, perché tu sappia per quale ragione i silenziosi son così vestiti di nero. Solo questa cesta ti potrà mostrare ciò che di bene e di male ti è nascosto!”.

«Poi che vidi che non c’era alcun danno, mi sedetti per un po’ nella cesta, ma quando mi ci fui accomodato, la cesta divenne uccello e volò nell’aria, e con un talismano rotante mi rapì così verso le ruote del firmamento: quello tirato da corde per forza alchemica, io misero ridotto a fare il saltimbanco sulla corda.
E la corda mi si avvinghiò come cera al collo: dura era la corda e debole il collo; come un prigioniero tormentato dalla malasorte, la corda non si staccava dal mio collo; io, strangolato, rantolavo e l’asino della mia fortuna era fuggito portandomi dietro con la corda al collo, e sebbene quella corda mi tormentasse il corpo, la mia vita a quella corda era appesa a un filo.

«Apparve un palo altissimo, che si ergeva alto fino alla luna, che a guardarlo in su sarebbe caduto il cappello. Quando la cesta giunse a quell’alto palo, la mia corda vi si impigliò; ciò che mi fu utile e mi sciolse, e io levai alti lamenti, ma non valse a nulla.
Guardai in alto e in basso attorno a me, e mi vidi nel cielo; il cielo aveva recitato sul mio capo un incantesimo, e io ero rimasto appeso, come il cielo. Siccome per lo spavento l’anima mi era scesa fino all’ombelico, lo sguardo era incapace d’operare, terrorizzato. Non avevo il coraggio di guardare in alto, e chi avrebbe osato mai guardare in basso?
Chiusi gli occhi pieno d’orrore, rassegnandomi a una totale impotenza, pentito della mia storia, nostalgico dei miei e della mia casa. Ma quel pentimento non serviva a nulla; non c’era che da temer Dio e riconoscerne la potenza.

«Passato che ebbi un certo tempo su quell’altissimo palo, venne a posarsi lì un uccello, grosso come una montagna, cosa che mi preoccupò ancor più: era così grande, da capo a aquila-si-posapiedi, che avresti detto che il palo non lo reggeva. Aveva penne grosse come rami d’albero e zampe come gradini di un trono, un becco lungo come una colonna, un monte Bîsotûn con in mezzo una caverna. Ogni volta che faceva la mossa di grattarsi, le sue penne piovevano conchiglie piene di perle, e ogni piuma che spazzava la polvere versava a terra muschio fragrante.
Si addormentò sopra di me, e io rimasi sotto di lui come un affogato nell’acqua. Dissi tra me: “Se mi afferro alla zampa di quest’uccello, mi porterà via come sua preda, mentre se paziento, questo è un luogo ben pericoloso, ho il disastro sotto e la disgrazia sopra. La slealtà del destino ha soffiato su di me, crudelmente, un così freddo respiro: qual è il suo scopo nel tormentarmi così, nello spezzar così ogni mia forza? Mi ha tutto rapito e mi ha consegnato alla morte. Sarà meglio che mi afferri alla zampa dell’uccello, così potrò salvarmi da questo pericolo”.

«Quando giunse il momento del canto del gallo, e gli uccelli e ogni bestia selvatica si scossero dal sonno, anche il cuore dell’uccello si riscaldò, batté le ali e prese rapido il volo, e io, fidando solo in Dio, alzai le mani e afferrai la zampa di quell’alato possente. L’uccello ritirò le zampe, distese le ali e rapì me terrestre fino al culmine del firmamento; dal primo mattino fino a mezzodì io rimasi in viaggio, e lui terrorizzò il viaggiatore, e quando l’ardore del sole fu divenuto più caldo, mi vidi rotare sul capo la sfera del cielo; l’uccello s’accompagnò all’ombra e a poco a poco fu lieto di discendere, fino al punto che giunse all’altezza di una lancia da terra.

«Sul suolo c’era una verzura simile a seta, dal balsamico profumo di ambra e giulebbe. Con cento invocazioni di ringraziamento all’uccello, io sciolsi la mano dalla sua zampa e caddi, come fulmine, col cuore caldo di speranza su tenere erbe e fiori delicati.
Per un’ora rimasi a terra riverso, col cuore pieno di cattivi pensieri e, quando mi fui riposato dalla stanchezza, ringraziai Iddio di trovarmi un po’ meglio. Aprii gli occhi, come solevo, ed esaminai dappertutto quel luogo.
Vidi un giardino la cui terra pareva cielo, non tocco da polvere d’uomo, pieno di centinaia di migliaia di fiori sbocciati, di erbe rideste e d’acque dormienti. Ogni fiore aveva un diverso colore e il loro profumo giungeva a miglia di distanza: la treccia del giacinto aveva preso negli anelli del suo laccio il ricciolo del garofano, il gelsomino mordeva il labbro alla rosa, e il prato la lingua dell’Albero di Giuda.

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«La polvere era canfora, e la terra ambra, la sabbia oro, le pietre gioielli: vi scorrevano fonti come acqua di rosa e in mezzo agate e perle limpide, e nella fonte, dalla quale quel castello di turchese mendicava acqua e colori, nuotavano pesci, come dracme d’argento nel mercurio.
Era circondato da montagne smeraldine con boschetti di cipresso, di tek e di pioppi, e tutte le pietre erano rubini che coi riflessi colorivano i bianchi pioppi di rosso; dovunque c’era sandalo e aloe, e il vento n’era profumato di sandalo che brucia l’aloe; le urì avevano penetrato la sua sostanza, gli avevano portato tributo dai giardini del paradiso; Eram gli aveva posto il nome di Riposo del Cuore, e il cielo lo aveva chiamato Fieramente Azzurro.

«Quando scorsi un luogo simile, mi rallegrai come chi ha trovato un tesoro e, stupefatto della sua bellezza, esclamai vedendolo: sia lode a Dio! Passeggiai in su e in giù per la contrada a guardar quei giardini che carezzavano gli sguardi, e mangiavo frutta squisita, dando aperte grazie di tutta quella grazia a Dio.
Finalmente, pieno di letizia, mi misi sotto un cipresso maestoso e fino a sera quel luogo fu la mia dimora: non me ne andai anche se avevo mille cose da fare. Mangiai un po’, un po’ dormii, sempre ringraziando il Signore.

«Quando la notte ebbe apprestato un diverso ornamento, scartando il cremisi e raccogliendo antimonio, spirò un vento a spazzare la polvere, più piacevole di brezza di primavera, e venne una nuvola come nuvola d’aprile a spargere perle sulla verzura. principessa-turca-2Quando la strada fu spazzata e inumidita, tutte le vie, per i molti idoli, si fecero pagode.
Da lungi vidi centinaia di migliaia di luci che mi tolsero ogni pazienza e quiete: un mondo pieno di immagini luminose, spirante grazia come vino balsamico, e ogni immagine era come la fresca primavera, ognuna con le mani dipinte da figure di henné, con le labbra così rosse come papaveri nel prato, il loro rubino era il prezzo del sangue del Khûzestân; con le mani e le braccia piene di pendagli d’oro, il collo e le orecchie piene di fresche perle, con in mano ceri regali, privi di fumo, di forbici e di falene, s’avvicinavano graziose e tenere con mille bellezze quelle urì del paradiso, trasportando sul capo tappeti e sgabelli, come quelli dei giardini del cielo; poi stesero i tappeti, vi poggiarono sopra gli sgabelli e duramente rapirono come briganti la mia attenzione.

«Quando un po’ di tempo, non troppo, fu così trascorso, avresti detto che la luna scendesse dal firmamento. Comparve un sole da lungi che fece scomparire il cielo nella sua luce, un sole circondato tutt’intorno da centomila stelle d’alba, come urì e fate; era un cipresso, e quelle ancelle il suo prato, era rosa rossa, e quegli idoli il suo gelsomino. Ognuno di quei frammenti di zucchero teneva in mano un cero: ben stanno insieme zucchero e cera.
Così il giardino si riempì tutto di snelli cipressi, di lucciole con in mano una lampada. E quella Signora dall’augusta gloria venne, e come le spose novelle s’assise su un trono; il mondo tutto, a destra e a manca, era quieto ma, appena ella si sedette, apparve la Risurrezione.

«Quando fu restata per un istante seduta, si tolse il velo dal volto e le calze dai piedi, come un re che esca dal suo padiglione, con avanti e dietro l’esercito di greci e di negri; e i suoi biondi greci e i suoi neri negri come alba bicolore sconfiggevano tristezza e adornavano conviti; una turca dagli occhi sottili, ma alieni da avarizia, cipresso di luce, di fronte ai cipressi di terra.
Per un po’ stette col capo chino come un fiore, gettando fuoco nel mondo, poi alzò il capo e disse a una sua confidente che aveva accanto a sé: “Sembra che qui vi sia qualcuno dei non iniziati, adoratori della polvere! Levati e gira attorno a questo compasso, e portami ciò che incontrerai!”.

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«Quella figlia di fata subito si alzò e, come fata volò a destra e a manca; quando mi vide, si fermò stupefatta e, come a proteggermi, mi prese per mano e mi disse: “Alzati e corriamo rapidi come fumo, perché così ha ordinato la Signora delle Signore!”.
Io nulla aggiunsi a quel suo dire, poiché desideravo proprio quello, e preso il volo, come cornacchia assieme a un pavone, andai fino al luogo ove si mostrava la Sposa; rapido mi avanzai e baciai, io polvere, la polvere sua.

«Mi disse: “Alzati, non è quello il tuo posto, il rango di servo non è degno di te! Presso una compagna ospitale come me ben s’addice midollo e non corteccia come luogo dell’ospite, perché grazioso sei e amichevole, educato a delicate arti; vieni qui sul trono e siedi accanto a me, stanno bene assieme la Luna e le Pleiadi!”.
Risposi: “O Signora di angelica indole, non dir così a un servo come me! Il trono di Balqîs non è luogo per gli orchi, uomo degno di quel trono essere non può che Salomone!”.

«Disse: “Non valgono, non cercare pretesti, non cantare storie a chi recita incanti! Ogni posto qui è tuo, tu sei signore, ma devi fare quel che faccio io, affinché sappia il mio segreto e abbia parte della mia grazia!”.
Le risposi: “Degno compagno tuo non è che la tua ombra, la mia corona è il gradino del tuo trono”.
Ma ella mi scongiurò per l’anima sua di andar a sedere un po’ accanto a lei.
“Tu sei ospite mio – mi diceva. – nobile uomo, e l’ospite deve onorarsi”.

Nezami-principessa-nera«Poi che altro non vidi da fare che servirla, mi alzai in piedi come è uso dei servi. Un’ancella mi prese per mano dolcemente, mi fece sedere sul trono e si ritirò. Quando fui assiso su quell’alto seggio, vidi la luna e la presi al laccio; e quell’idolo bello con dolce linguaggio mi fece molte gentilezze. Poi ordinò che portassero mense e cibi fuori d’ogni descrizione e quelle tesoriere del paradiso imbandirono la mensa con cibi tutti saporosi d’ambra.
La mensa era di turchese, il vasellame di rubini, fortuna agli sguardi, cibo all’anima; tutto ciò che il pensiero poteva immaginare, il cuoco andava e lo portava.

«Quando fui sazio di cibi, di piatti caldi e di bevande fresche, venne il menestrello e partì il coppiere, e il pretesto fu completo alla gioia: ogni vergine perla infilzò una perla, ogni fresca fanciulla cantò una canzone, poi la danza aprì la piazza e chiuse i circoli, vennero le ali ai piedi e il galoppo alle mani.
In quel luogo piantarono ceri, ed esse stesse ristettero in piedi, come ceri. Quando ebbero smesso di danzare, diedero mano al vino, e la calda fretta del coppiere nel porgere i calici tolse di mezzo il velo della vergogna.

«Io, per la forza della passione e la scusa del vino, feci cose che sol fanno gli ebbri, e quella fanciulla dalle labbra zuccherine con intimità affettuosa non si sottrasse a quel gioco. Come vidi che era ben intenzionata ad amarmi, caddi, come la treccia, ai suoi piedi, baciai le mani dell’amica mia, e più lei diceva: basta!, più la baciavo.
L’uccello della speranza s’era posato sul ramo e ampio e libero era il nostro conversare; giocavo all’amore con baci e sorsi di vino, con un cuore e mille anime, con lei.

«Le chiesi: “Di che cosa hai voglia? Tu sei certo donna famosa: come ti chiami?”.
Rispose: “Sono una Turca dalle forme belle, e mi chiamano Nâznîn Torknâz”.
Le dissi allora: “Da familiarità e comunanza di rito viene ai nomi nostri parentela! Strano è che tu ti chiami Torknâz: perché il mio nome è invece Torktâz. Levati dunque e come turchi gettiamoci all’assalto, gettando gli indù nel fuoco. Nutriamo l’animo nostro del vino dei Magi e cibo augurale d’amore facciamo di dolciumi e di nettare, e poiché c’è qui vino e dolci confetti, poniamo i confetti sulla tavola e il vino in mano”.

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«Vidi nel cenno dei suoi occhi un’autorizzazione a far scomparire tra noi ogni distanza e il gioco dei suoi sguardi sembrava dicesse: “È questo il momento di giocare all’amore, vieni, che la fortuna ti assiste!”. E il suo ciglio tutto si abbandonava e sembra dirmi: “Bello è il momento, rapisci baci, perché l’anima è pronta alle carezze”.
Poi che m’ebbe dato accesso al tesoro dei baci, ne chiesi uno e me ne diede mille. Sempre più mi riscaldavo, come fa l’ubriaco; avevo l’amica tra le mani e dalla mano m’era sfuggito ogni controllo, mi ribolliva il sangue nel petto.

«Ma il grido del sangue pervenne all’orecchio di quella luna che mi disse: “Per stanotte contentati dei baci, non chieder l’impossibile, perché ciò che oltrepasserà questo non ti sarà lecito: l’amico deve essere leale! Finché saprai dominarti, scioglimi le trecce, mordimi, baciami, ma quando sarai giunto al punto che non potrai più tener le briglie alla tua passione, fra queste ancelle, ognuna delle quali è una luna, un’alba per una notte d’amore, ordina che io liberi da me quella che ti sembra la più bella e più desiderabile, e la passi per un po’ ai tuoi ordini, affinché si accinga a servirti e ti porti in una camera a solo, dove farà all’amore con te e ti sarà sposa al tempo stesso e ancella, calmando il bollore del tuo fuoco e lasciando un po’ d’acqua per il mio pozzo. Se poi un’altra notte vuoi un’altra sposa, te la darò: tu sarai re del tuo desiderio; e ogni notte ti regalerò una di queste perle, e se te ne servono altre, altre te ne darò”.

«Detto questo e fatta questa promessa, mi trattò con affetto e con grazia, scrutò le sue ancelle, e quella che trovò degna dell’amore chiamò e me la consegnò graziosamente dicendomi: “Va’ e fa’ quel che vuoi”.
La luna donata mi prese allora per mano, mentre io rimiravo stupito il volto di luna Tanoux-favorita-sultanodell’altra: in eleganza fascino e bellezza era un’amica davvero degna di carezze. Lei andava avanti e io la seguivo, schiavo della sua treccia, indù del suo neo, finché giungemmo a uno stretto padiglione nel quale non entrò prima di avermi fatto passare.

«Quando ci fummo rigirati in quella stretta dimora, e adattati l’uno all’altra come il basso all’acuto, vidi, poggiato su alti tappeti, un letto di seta e di broccato, e i ceri sui tappeti illuminavano la stanza creando rubini di fiamme e bruciando profumi d’ambra.
Ci gettammo ambedue stretti assieme sui cuscini del letto, e io trovai un raccolto come rosa nel salice, delicato, tenero, caldo, rosso e bianco e, alla sua porta, una conchiglia sigillata, e dalla perla sua tolsi il sigillo.

«Fino a che fu giorno stette abbracciata a me, e il mio letto sembrava pieno di canfora e muschio.
Al mattino, ella si alzò, come la mia Fortuna, e preparò a una a una le cose occorrenti per il bagno. Mi fece bagnare in una vasca rossa di gioielli e gialla d’oro: mi lavai con acqua di rose e spuntai poi come rosa nella cintura e nel copricapo. Poi uscii da quel tesoro, che ancora qualche stella brillava nel cielo. Mi rannicchiai in un luogo solitario e per un po’ offrii le mie preghiere a Dio.

«Quelle spose e quelle bambole del palazzo se n’erano tutte andate e non rimaneva più nessuno. Io solo ero rimasto in quel verde, come una rosa gialla, sull’orlo del prato e della fredda fonte.
Con ancora l’effetto del vino nel capo, posi la testa sui fiori secchi, la chioma ancora umida, e dormii, dall’alba fino alla sera: desta era la fortuna e il suo padrone tranquillamente dormiva.
Quando la gazzella della notte cominciò a spargere muschio e il firmamento divenne una conchiglia triturante nero profumo, mi levai dal palanchino del sonno e mi sedetti, com’erba, sulla riva dell’acqua.

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«Tornarono il vento e la nube della sera prima, questa a spargere perle, quello a effondere profumo; il vento spazzava e la nube versava, questa seminava gelsomini, quello piantava viole.
Quando quel prato fu tutto odoroso d’ambra e l’acqua di rose cominciò a riversarsi ruscello su ruscello, le bambole tornarono, portatrici di delizie, e di nuovo il cielo si fece burattinaio.
Portarono un trono fatto d’assi d’oro e una coperta per quello trapunta di perle e, quando l’alto seggio fu alzato, lo rivestirono di tappeti di seta. Apprestarono un banchetto principesco e gli ornamenti suoi erano tutti di luce.

«D’ogni parte si levò tumulto e grida, e la folla di belle giungeva da destra e da manca e, in mezzo ad esse, quella sposa ladra di cuori, rapitrice di pazienza agli amanti, s’assise sul trono e il trono si colorò, per lei, di primavera. Ordinò di nuovo che mi cercassero e cancellassero il mio nome dal registro degli assenti.
Andai, mi invitarono sul trono, mi fecero sedere secondo il loro costume e, con lo stesso modo e apparato del dì precedente, imbandirono le mense coperte di cibi, e ogni manicaretto che si adattasse ai tappeti e apportasse a chi ne gustava colore di gioia prepararono, così come doveva esser fatto; e, quando ognuno ebbe finito di mangiare, venne il vino, s’accordarono i liuti e cominciarono a carezzarsi le arpe. Le offerte dei Nezami-padiglione-nerocoppieri e i calici di dolce nettare riscaldarono il mercato dell’amore, cominciò ancora la gioia dell’ebbrezza e il vino dava una mano all’amore.

«La mia Turca si mostrò più pietosa e trattò gentilmente il suo indù: mi carezzò in modo più affettuoso di prima, mi favorì con tutta la sua grazia, e con un cenno degli occhi alle amiche fece allontanare tutte le sue inservienti.
Lo starmene così solo con un’amica così delicata mi fece salire il fuoco della passione dal cuore al cervello; come la sua treccia misi la mano sulla sua cintura e, come usano gli amanti, la trassi al mio seno.
Mi disse: “Attento, non è il momento di turbarti, non è questa la notte in cui spezzare la tregua! Se ti contenti di zucchero e canditi, mordi pure e bacia: colui che si contenta in letizia, finché vive è dovizioso, ma colui che troppo presto cede ai desideri finisce per cadere in povertà!”.

«Le dissi: “Per amor di Dio, trova un rimedio, perché l’acqua m’è passata oltre la testa e le spine oltre il piede. È una catena la tua treccia nera come la pece, e io sono uno dei pazzi legati alla tua catena. Legami alla catena, ti dico, affinché come gli incatenati io non mi attorca folle. La notte è finita, spunta già l’alba e noi non abbiamo nulla concluso: se mi vuoi uccidere, non ti nego la vita, eccoti qui la testa, eccoti là la spada. Perché dunque tutta questa superbia? Non ride la rosa finché non piange pioggia il vento! Sei un ruscello d’acqua e io sono bramoso dell’acqua tua, sei impolverata e l’acqua che ti deterge sono io. All’assetato che soffoca per amor tuo, dona l’acqua, perché l’acqua è in tuo potere! Se poi non mi darai acqua, io ne morirò (possa tu vivere eterna e l’acqua mia anche possa divenire polvere ai tuoi piedi) perché è possibile che un po’ di polvere sia rapita via dall’acqua, e un cercatore d’acqua muoia annegato nel fiume. Ma tu non liquefare, per sete, una goccia qual io sono, fa’ la grazia di una goccia all’assetato. Fa’ conto che un dattero sia caduto nel latte, che un ago sia penetrato nella seta. Se non devo far altro che andarmene e gettar polvere sugli occhi del desiderio, immaginerò che un uccello si sia posato e sia volato via, né l’asino sia caduto né si sia rotta la bisaccia”.

«Mi rispose: “Per stanotte stattene lieto, e il ferro dello zoccolo del tuo destriero lascia immerso nel fuoco, perché, se per una notte rinuncerai a questa tua idea, otterrai da cero eterno una luce; non vendere una fonte intera per una goccia, tutto questo è amaro ma quello sarà dolce; chiudi la porta in faccia a un solo desiderio, per esser ridente di gioia Delacroix-odaliscaun anno intero. Prenditi i baci e scioglimi le trecce, poi va’ a giocare a nard con le ancelle; hai un giardino, lascia star le cornacchie; hai un uccello, non cercar latte d’uccello! Hai brama in cuore e modo di soddisfarla; perché poni mani al tradimento? Pazienta stanotte, e non voler di più, fa’ come hai fatto ieri notte, perché io, se scenderò da questo trono, verrò con te, tardi, ma verrò. I fiori di un qualsiasi prato siano calpestati, ma il prato dei garofani è altra cosa: afferra ora un pesce del ruscello, la luna la prenderai più tardi”.

«Come la vidi insistere in quel gioco, mi frenai e, in intimo colloquio con lei, mi contentai di baci zuccherini e aggiunsi il digiuno dell’oggi a quello dei giorni passati.
Ma poi nuovo calore prese me febbricitante, e i baci e il vino rinnovarono il desiderio; quando la mia deliziosa Turca sentì ribollire il fuoco nelle mie viscere, ordinò a una di quelle bambole che venisse a spegnere quel fuoco.
Era un’amica veramente come la vorrebbe ogni cuore, perché il cuore desidera ciò che è armonioso.

«Anche quella notte me ne andai con lei come d’abitudine e quella notte il desiderio era ancor più grande: fino all’alba mangiai canditi e danzai abbracciato a una fata. E quando l’alba ebbe imbiancato le vesti, e la notte, simile a tintore, ebbe spezzato il vaso, e tutti quei colori che fascinavano gli sguardi furono scomparsi dagli adorni tappeti, io mi trovai seduto sotto un cipresso, privo di compagne e di amiche, ad augurarmi che, tornata la notte, potessi ancor bere vino con gli idoli di Cina e di Terâz, potessi avvolgermi alla cintola ancora la treccia della bella Turca, e riceverne in cuore le delizianti carezze, ora libando a un calice con una fanciulla dalle labbra di zucchero, ora prendendo il mio piacere con un volto di rosa.

«Venuta la sera così, con vino e liuto, ogni notte piacere seguiva a piacere: al principio della notte miravo teatri di luce, alla fine della notte compagna m’era di nido una urì; di giorno ero in giardino, di notte in paradiso, dove la terra era muschio e la dimora aveva mattoni d’oro.
Ero insomma il re del Paese di Letizia, il giorno col sole, la notte con la luna, ma fu la mia cattiva fortuna che mi ridusse così; poiché per quelle grazie non ringraziai Dio abbastanza, il mio debito era fuori misura; volli troppo e finii per cancellare dalle mie carte il nome della letizia.

mughal-harem

«Erano ormai trenta notti che quella luna differiva di giorno in giorno la sua promessa; la trentesima notte annerì il mondo alle stelle e il ricciolo ambrato del palazzo del firmamento affettuosamente prese per le chiome la luna, il vento e la nube che solevano venire rinnovarono ancora una volta il loro fresco volto e di nuovo il tumulto sconvolse il mondo e l’invito ad ornarsi cadde nel cielo.
Come al solito, quelle ancelle vennero, con mele in mano e melograni nel petto, impiantarono il trono, si misero in circolo attorno ad esso e aprirono le gole al canto.

«Poi venne quella luna simile a sole, con sparsa sul petto la nera treccia di muschio, con candele avanti e dietro, (anzi, lascia il dietro, perché le candele lucenti erano avanti) e con mille e mille adorne e dolci movenze tornò ad assidersi al suo lieto banchetto; i menestrelli intonarono le loro melodie e le ancelle sedettero a riposarsi, e i coppieri prepararono il nettare del rosso colore dell’Albero di Giuda al suono dei liuti.
Quindi la regina delle fanciulle dalle labbra zuccherine ordinò: “Portatemi, presto, quel mio compagno!”, e le belle mi portarono a lei carezzevoli, mi consegnarono alla mia padrona.

«Come mi vide, s’alzò tutta gentile e mi fece posto alla sua destra: la servii e mi sedetti lieto e mi ricordai il desiderio passato. Poi, come al solito, imbandirono le mense ornatamente di cibi innumerevoli e rari, e finito che fu il cibo venne il vino ad illuminare col suo scintillio l’assemblea, e dalla mano dei coppieri generosa come il mare versarono Tanoux-odalisca-tamburinoperle le bocche delle conchiglie; il vino cominciò a scorrere a fiumi, più dolce di sciroppo di Nahâvand, e io di nuovo divenni folle ed ebbro, con in mano, come una corda, la sua treccia e di nuovo i miei demoni si sciolsero dalla corda e me folle legarono alla catena; divenni giocoso ragno della sua chioma: quella sera appresi a saltar sopra i fili. Divenni frenetico come un asino che vede l’orzo, o l’epilettico che vede la luna nuova.

«Tutto tremante, come un ladro bramoso del tesoro, trassi la mano sulla sua cintura, passai il palmo su purissimo argento; ella s’irrigidiva, io m’illanguidivo. Quando se n’avvide, la bella dal volto di luna affettuosamente pose la sua mano sulla mia e, quella causa di tumulto fra le urì, la baciò per allontanarla dal suo tesoro, e mi disse: “Non allungare la mano sul tesoro coperto, perché mano troppo lunga non arriva allo scopo; non si può, no, dissigillare la miniera, che è ben chiusa. Pazienta, tua è la palma fruttifera, non affrettarti a raggiungere il dattero. Bevi vino, poi verrà l’arrosto, e alla fine il sole arriverà alla luna!”.

«Le dissi: “O sole del mio giardino, fonte di luce ed occhio mio lucente! L’aurora del tuo volto è spuntata come rosa di giardino, come non morire dinanzi a te quale lampada? Prima tu mostri all’assetato acqua zuccherina, poi dici: Stringi le labbra e non bere! Quando il tuo volto mi si è mostrato, la mente s’è impazzita per aver vista una fata; quando di lunato orecchino adornasti l’orecchio, di nuovo immergesti nel fuoco il ferro del mio zoccolo. Come lottare contro il notturno assalto della luna? Come coprire il sole con un atomo? Come trattenermi da te, se sei in mia mano? Io di nulla mi curo, se tu sei con me, ma fin quando dovrò mordermi le labbra e fin quando succhiarmi i denti? La mia fortuna opera in virtù del tuo aiuto, è l’amicizia della Fortuna che rende felici; tu dici: Non rattristarti, ché io ti sono amica; tu fa’ pure, che io aiuto il tuo fare. Ma a chi è mai toccato un fare più difficile di questo? Liberami, liberami dunque, più non resisto! O rubacuori, anche se tu hai cosce di gazzella, fin quando vuoi darmi ingannevole sonno di lepre? Temo che questo vecchio lupo furbo come volpe non cominci a giocare alla volpe e al lupo, che non mi corra addosso come leone e mi getti sotto di sé come pantera. Ho desiderio molto di te: lascia che io ottenga da te il mio desiderio; ma se tu chiudi la porta al mio desiderio, brucerò tutto di brama, stanotte! Fammi grazia, ché far grazia all’ospite è dovere dei coronati e dei sultani”.

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«Poiché ormai non m’era più rimasta pazienza, mi disse: “Sì, lo farò, attendi! Sarò graziosa con te, anche se mi costasse la vita, se tu sei di Khallokh, io sono tua schiava abissina; a un ospite come te dare in dono la vita è ben povera cosa! Ma quel desiderio che tu dici, che in fretta cerchi e tardi trovi, ebbene quello da me non potrai averlo a meno che non cresca un paradiso da una spiga o sgorghi profumo d’aloe dal salice. Prendi di me tutto quello che vuoi, eccetto un sol desiderio, perché è desiderio immaturo. Le mie guance son tue, tuo è il labbro, tuo il petto, eccetto una Perla, tutto il resto del Tesoro è tuo! E se tu così farai, avrai più notti, di queste notti ce ne saranno mille ancora. Quando il vino acerbo t’avrà riscaldato i sensi ti donerò una coppiera come la luna piena, affinché tu prenda da lei il tuo piacere e lasci stare il lembo della mia veste”.

«Quando m’accorsi dell’inganno delle sue parole, le ascoltai, sì, ma non le udii; per quanto mi sforzassi per vergogna di calmarmi, il mio ferro era aguzzo e caldo il fuoco, e la mia Fortuna mi diceva da lontano: “Sciocco! Non c’è città oltre ‘Abbâdân!”. E io, acerbo, per l’eccesso del mio animo, dal molto caddi nel poco.
Dissi: “O tu che m’hai così duramente trattato e di colpo hai rapito ogni mia quiete! Centomila uomini sono morti in questo dolore e nessuno ha trovato la strada al tesoro, ma io che ho ormai già il piede nel tesoro, come trattenermi potrei, anche se vedessi tormenti? Finché avrò un soffio di vita non è possibile che io lasci sfuggirmi la tua treccia. Accendi dunque il mio cero su questo seggio, oppure inchiodami, come seggio, a quattro chiodi. Levati a far danza d’amore su questo tappeto, altrimenti porta sabbia e tappeto per l’esecuzione e tagliami il capo. Tu sei il cuore e l’anima mia, il mio intelletto e la mia vista: come posso rinunciare a te? E quello che io voglio da te, rubacuori, anche se Spanish dancer, by Luis Ricardo Falerolo pagassi con la vita lo considererei gratis; e chi è che non acquisterebbe un tesoro gratis, chi non comprerebbe un simile oggetto di desiderio con la propria vita? Hai labbra di miele e guance di rosa, ma il miele senza api è assurdo come la rosa senza spine; e dov’è colui che non mangerebbe miele di rose? Possa, un simile essere, se c’è, mai più mangiare! Stanotte io ardo come cero: per il dolore di te brucio come una lampada, ma l’ardore per te mi tiene vivo come la lampada, perché come lei vivo bruciando e muoio piagato; se il sole non girasse ardente, la pochezza del giorno porterebbe povertà al mondo. Non è questo un desiderio che io possa ottenere da te, è sonno e sogno che io narro a me stesso; il mio cervello è addormentato – in questo non c’è dubbio – morto e addormentato, anzi, perché l’uno è pur l’altro. Se l’occhio mio non avesse visto il tuo volto, dove mai avrebbe visto questi sogni? Se sei decisa a versare il mio sangue, affrettati allora, perché il mio sangue arde sempre più in fretta”.

«Poi, tanto fu il bollore del sangue e il fuoco del cervello che mi gettai all’assalto di quel tenero germoglio e, posta rapida la mano alla porta del tesoro, mi apprestavo a incrostare il rubino con l’agata. Ella chiedeva una dilazione, che pazientassi prima di toccare quella provvista di dolci cibi, ma io non l’ascoltavo.
Finalmente giurò: “Il tesoro sarà tuo, stanotte spera ancora e domani il tuo desiderio sarà soddisfatto! Desideroso di me che illumino il mondo, hai passato notte dopo notte, giorno dopo giorno; adattati stanotte alla speranza del tesoro, e domani notte l’avrai. Non è cosa assurda pazientare una notte; in fondo si tratta oggi di una notte, non di un anno”.

«Lei parlava e io, come pugnale aguzzo, mi attaccavo con la mano alla cieca alla sua cintura, anzi, il desiderio che lei esprimeva per salvarsi aumentava da uno a cento la mia eccitazione, finché giunsi al momento che agilmente riuscii ad allentare lo stretto nodo della veste.
Come lei vide la mia violenza, la mia impazienza e la mia irruenza, mi disse: “Chiudi gli occhi un istante, perché io possa aprire la porta al tesoro zuccherino! Quando l’avrò aperta su quel che tu vuoi, abbracciami e spalanca gli occhi!”.
Toccato dalla dolcezza di quel suo pretesto, chiusi gli occhi sul suo tesoro.
Quando le ebbi dato un attimo di tempo, mi disse: “Apri gli occhi!”, io li aprii e, speranzoso della preda, feci il gesto di stringermi al seno quella sposa, ma, quando guardai verso di lei, vidi me stesso nella cesta, solo: attorno a me, nessuno, né uomo c’era, né donna, e io non avevo a compagno altro che il mio freddo sospiro.

Johnsern-desolazione

«Ero rimasto come un’ombra lungi dal brillare della luce, un Torktâz lontano da Torknâz!
Mi trovavo in quello stato di terrore, quando di sotto il pilastro sentii un movimento che disturbò la quiete della cesta. Venne quel mio amico e sciolse dall’alto palo la corda, e, quando la mia Fortuna fu sazia di pretesti, la mia cesta scese da quella colonna.
Colui che prima era fuggito da me, mi abbracciò e mi chiese scusa, e disse: “Se anche te l’avessi raccontato per cento anni, non avresti mai creduto come veramente stanno le cose. Sei andato tu stesso e hai visto quel che era celato: a chi mai si potrebbe raccontare una simile storia? Anch’io sono bollito in quell’ardore caldo, e per protestare contro il destino mi sono vestito di nero”.

«Risposi: “O tu che come me sei stato ingiustamente trattato, la tua idea trova la mia approvazione; anche a me offeso conviene, nel silenzio, vestire di nero. Va’ e portami una seta nera!”.
Andò e mi portò tenebra di notte.
Io mi misi addosso quella stoffa nera e in quella stessa notte mi apprestai a partire. Venni col cuore angustiato alla mia città, tutto colorato di nero; io, che sono il Re dei Nerovestiti, come nuvola nera spargo lacrime perché da un simile maturo oggetto che avevo già in mano mi allontanai a causa di un desiderio immaturo!».

Quando il mio signore m’ebbe raccontato quel segreto nascosto, io, che ero sua schiava comprata, scelsi quel che egli aveva scelto, e per via dell’Acqua di Vita, insieme con Alessandro, entrai nella nigredo delle tenebre.
Del resto, la luna si gloria nel nero come sultano sotto parasole nero; non c’è nulla di meglio del nero: la bianca spina del pesce non vale come la sua schiena nera. Dalla gioventù deriva il nero dei capelli, e dal nero deriva gioventù al volto; per il nero della pupilla l’occhio vede il mondo, nessuna sporcizia può offuscare il nero. Se la seta della notte non fosse nera, come potrebbe esser degna di far da culla alla luna? Sette colori vi sono sotto i sette cieli, ma non c’è colore al di là del nero!».

(Nezâmî, Le sette principesse)