Kerényi – Il fanciullo divino e il mare

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Talete, il primo filosofo greco, faceva nascere tutto dall’acqua. Con ciò egli non diceva più di quanto aveva detto Omero, menzionando Okéanos sia come «origine degli dèi», sia come «origine del tutto» (cfr. Iliade, 14: 201, 246, 302).
L’analoga dottrina di Anassimandro, il secondo filosofo greco, si riferisce agli esseri vivi e, secondo una citazione di Censorino, agli uomini: «Dall’acqua riscaldata e dalla terra sorsero o pesci o esseri vivi simili ai pesci. In tali esseri si formarono gli uomini che rimasero dentro di essi fino alla pubertà. Allora gli esseri simili ai pesci si aprirono. Uomini e donne ne uscirono, ed erano già in grado di nutrirsi». Da un compendio greco apprendiamo inoltre che tali esseri sorti «nell’umidità» erano, nello stesso tempo, simili alle piante, in quanto protetti da un involucro come foglie d’acanto.

Che cosa dobbiamo ritenere di questa concezione in cui l’immagine del Fanciullo che spunta da un fiore acquatico appare come tradotta nel linguaggio di una teoria scientifica?
All’inizio dell’800, Oken, filosofo romantico e studioso della natura, svolse a Jena la medesima dottrina. Egli non si richiamava ad Anassimandro, né a Censorino, bensì alle nozioni storico-naturali della sua epoca.

Secondo lui il primo uomo aveva dovuto «svilupparsi in un utero molto più grande di quello umano. Tale utero è il mare. Che ogni essere vivo sia nato dal mare, è una verità di cui nessuno che si sia occupato di storia naturale o di filosofia vorrà dubitare. Di altri, la scienza naturale moderna non si cura più. Il mare ha alimento per il feto; ha muco che oceano-immaginariol’involucro di esso può assorbire; ha ossigeno che quell’involucro può aspirare; non è ristretto, tanto che l’involucro vi si può estendere a piacimento, pur rimanendo e flottando in essi più di due anni. Simili embrioni, se nascono, nascono evidentemente a migliaia nel mare. Alcuni vengono gettati sulla riva ancora immaturi e periscono; altri si schiacciano contro gli scogli; altri sono preda dei pesci rapaci. Che importa? Ne restano migliaia che già maturi vengono portati dolcemente sulla riva, dove spezzano da sé il loro involucro, cavano dalla terra i vermi, tirano fuori le lumache e i frutti di mare dai loro gusci …».

È, questo mitologema dei fanciulli primordiali, scienza seriamente intesa? Secondo le indicazioni di Oken indubbiamente.
Tuttavia, l’analogia più calzante ad essa noi la troviamo – a parte Anassimandro – nel racconto che Maui, fanciullo divino dei Polinesiani, fa della sua nascita. Egli aveva, oltre al mare, una madre divina che l’aveva partorito anzitempo sulla spiaggia. […]

Oken stesso tradisce quanto gli siano familiari le immagini mitologiche e particolarmente quelle del Fanciullo. Nel suo trattato sulle origini del primo uomo egli parla anche della derivazione degli animali dalle piante, e aggiunge: «L’animale è, non solo in senso poetico, ma realmente, l’ultimo fiore o il vero frutto della pianta, un genio che si culla sul fiore».
Il suo pensiero scientifico non è soltanto involontariamente di carattere mitologico come appare già dal confronto col racconto di Maui: l’immagine di Prajâpati gli è evidentemente nota, certo attraverso gli studi mitologici del romanticismo.

Qui non è il caso di indicare la via precisa in cui la trasmissione di quelle nozioni mitologiche è avvenuta. Ci basta osservare come un’immagine del genere di questa: «Questo mondo era acqua, nient’altro che proluvie: solo Prajâpati era comparso alla vita, su un petalo di loto» (Taittitirya Aranyaka, 1: 2): un’immagine di questo genere, dunque, fiore-di-lotorisuscita a vita nella scienza di quell’epoca.
Oltre al dio primordiale indù si potrebbe menzionare anche Arpocrate, il fanciullo solare egizio che viene raffigurato seduto su un fiore di loto.

In Anassimandro simili mitologemi antichi non rivivono, ma semplicemente continuano a vivere. Nella sua epoca che è quella dei grandi pensatori ionici, la realtà, che costituisce il centro della mitologia, irrompe nella filosofia greca. In quell’epoca ciò che fino allora era immagine divina intuitiva ed efficace, comincia a trasformarsi in dottrina intelligibile.
Per trovare simili immagini divine in trasformazione, simili mitologemi intelligibili, Anassimandro non aveva bisogno di ricorrere a sacre storie orientali, e nemmeno egizie. La sua dottrina sull’origine dell’uomo riprende quello stesso tema fondamentale mitologico di cui ci stiamo occupando. E, trattandosi qui di un filosofema greco, dobbiamo cercare questo tema fondamentale anzitutto nella mitologia greca.

Tra gli dèi greci Proteo, la divinità marina continuamente trasformatasi, porta un nome il cui significato è: «il primo essere». Il mondo di Okéanos e Proteo – l’acqua originaria e il mare – stanno l’uno all’altro come il Fanciullo primordiale ai fanciulli appena nati: ambedue sono simboli – similitudini, nel senso goethiano della parola – dell’elemento atemporale della genesi e della metamorfosi.
Ma nella mitologia greca sia Okéanos che il mare sono il luogo di troppi e troppo singolari esseri divini: in questa molteplicità il Fanciullo che è l’archetipo anche dell’infanzia delle grandi divinità olimpiche, salta subito all’occhio.

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È troppo grande anche la distanza che separa le eterne figure dell’esistenza olimpica, i grandi dèi di Omero ed Esiodo, dal mondo della genesi e delle trasformazioni. Come potremmo pretendere che le figure olimpiche avessero familiarità con quel fluido elemento primordiale?
Ma tanto più significativo è il fatto che uno dei fanciulli olimpici, Apollo, ha tuttavia rapporti con il mare. Quei rapporti non si limitano al fatto che il suo luogo di nascita, Delo, originariamente era un’isola natante, sebbene anche questa circostanza meriti attenzione dal punto di vista mitologico. Ma una relazione più profonda di Apollo col mare ci conduce alla classica immagine greca della connessione tra mare e fanciullo.

La sconfinata acqua appartiene organicamente all’immagine del Fanciullo, esattamente come l’utero e il grembo materno. Gli Indi hanno dato un’espressione particolarmente vigorosa a questa connessione. Nella storia sacra denominata del pesce (Matsya), Matsya Purâna, Manu, il primo uomo, parla a Visnu dalla forma di pesce: «Come sorse, nella grande era del loto, il mondo lotomorfo dal tuo ombelico, mentre tu giacevi nel mare cosmico? Giacevi, dormendo, nel mare cosmico, col tuo ombelico di loto; come sorsero, fanciullo-delfinoall’inizio dei tempi, grazie alla tua potenza, nel tuo loto, gli dèi e le schiere dei Veggenti?».
Il Fanciullo che qui porta il nome del dio Visnu, è – secondo quest’immagine – nello stesso tempo pesce, embrione ed utero, esattamente come l’essere primordiale di Anassimandro.

Un uguale pesce, portatore di fanciulli e giovani, e contemporaneamente figura in cui si trasforma un fanciullo divino, ricorre anche nella mitologia greca. I Greci lo chiamano l’«animale utero» e lo venerano fra tutti gli esseri vivi del mare, come se avessero scorto in esso la qualità che rende il mare portatore e generatore di fanciulli.
Quest’animale è il delfino (δελφ significa utero), animale sacro di Apollo che, in virtù di questo rapporto, si chiama anche Apollo Delfinio.

Si conosce tutta una serie di monete greche che portano la raffigurazione di un delfino con sul dorso una figura di bambino o di giovane. Una simile figura di bambino è soprattutto Eros, il fanciullo alato. Ma può anche essere Falanto, e Taras, fondatore leggendario ed eponimo divino della città di Taranto.
Il fanciullo a cavallo d’un delfino porta spesso un fiore sulla fronte, tra i capelli: sembra che così si contrassegni un essere al limite tra l’esistenza di pesce e quella di bocciolo di fiore. […]

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Narra Erodoto che «al tempo del tiranno Periandro capitò un grandissimo prodigio: il trasporto a riva al Tenaro, sul dorso di un delfino, di Arione di Metimna, che era un citaredo, il migliore fra quelli del suo tempo, il quale, primo fra gli uomini di cui abbiamo conoscenza, compose un ditirambo, gli diede il nome e lo fece rappresentare a Corinto.

Narrano che questo Arione, che viveva perlopiù presso Periandro, venisse preso dal desiderio di recarsi in Italia e in Sicilia, e che, dopo aver guadagnato molte ricchezze, Salvator-Rosa-Arione-delfinovolesse ritornare a Corinto.
Partì dunque da Taranto e, di nessuno fidandosi più che dei Corinzi, noleggiò una nave corinzia. Ma i marinai in alto mare pensarono di gettare in mare Arione e di prendersi le sue ricchezze.

Egli, avendo compreso ciò, li supplicava, offrendo loro spontaneamente i danari, ma pregando di aver salva la vita. Ma non riuscì a persuaderli; anzi gli ingiunsero o di uccidersi da sé in modo da poter avere in terra una sepoltura, o di saltare in mare al più presto.
Allora Arione, messo così alle strette, li pregò che, dal momento che così avevano deciso, gli concedessero di cantare, ritto tra i banchi della nave, con tutta la sua acconciatura, promettendo di uccidersi dopo aver cantato.
E quelli, compiaciuti al pensiero che stavano per udire il migliore di tutti i cantori, si ritirarono da prua verso il centro della nave. Ed egli, indossato tutto il suo abbigliamento e presa la cetra, ritto fra i banchi eseguì il «nomos orthios» e, finito il canto, si gettò in mare così come stava, tutto vestito.

Quelli continuarono la navigazione per Corinto; lui invece narrano che un delfino l’abbia preso in groppa e l’abbia portato a riva al Tenaro; sceso a terra andò a Corinto in quell’abbigliamento, e lì giunto narrò tutto l’accaduto.
Ma Periandro incredulo tenne Arione sotto custodia, non lasciandolo andare in nessun luogo; teneva però d’occhio l’arrivo dei marinai. E appena essi giunsero, chiamatili, si informò se avessero da dargli qualche notizia intorno ad Arione. Ma mentre essi dicevano che era sano e salvo in Italia e che l’avevano lasciato a Taranto in ottime condizioni, apparve loro innanzi Arione, così come quando era saltato in mare; e quelli, sbalorditi, vistisi scoperti, non poterono più negare» (Storie: 1: 23-24).

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La storia di Arione, il cantore, che un delfino salva dalle mani dei pirati, è la più nota delle leggende greche che raccontano di delfini che hanno salvato i loro prediletti mortali o hanno portato i morti sulla riva. Essa mostra, in pari tempo, che ci troviamo qui nella sfera di Apollo, patrono dei poeti.
La seconda parte dell’Inno omerico ad Apollo (che alcuni considerano come un secondo inno indipendente) ci narra l’epifania di Apollo Delfinio. Il dio in forma di delfino guidò il suo primo sacerdote a Krisa, porto del suo oracolo appena fondato. La sua epifania fu nello stesso tempo un’epifania sulla nave: Apollo in forma di delfino aveva preso posto sulla nave del suo futuro sacerdote: una prova del fatto che anche qui «pesce» e «nave» sono immagini mitiche equivalenti. Esse, variazioni del medesimo tema, anche unite, esprimono la stessa cosa.

Apollo ha fondato da fanciullo il suo santuario di Delfi. Uno scenario significativo della sua infanzia è anche il mare tra Creta e la terraferma greca: lì è avvenuta l’epifania del delfino.
Non meno significativo è il luogo del famoso oracolo, Delfi. Il nome della località significa altrettanto quanto il nome del delfino. Come quest’ultimo è l’«utero» tra gli animali, Delfi significa l’«utero» fra i paesi.
Questa regione rocciosa era per il Greci simbolo di quella stessa cosa, per la quale il delfino, il mare e l’utero stesso non sono che altrettante similitudini: simbolo dell’origine assoluta, al di là della quale è la non-esistenza, al di qua l’esistenza: di quella condizione originaria di cui ogni simbolo enuncia qualche cosa di nuovo e di diverso – sorgente inesauribile di mitologemi.

(Kerényi, Il fanciullo divino, in Jung-Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia)