Il rito dell’esecuzione voleva che il condannato proclamasse lui stesso la propria colpevolezza con la confessione pubblica che pronunciava, col cartello che inalberava, con le dichiarazioni che senza dubbio lo si spingeva a fare. Al momento dell’esecuzione, sembra che gli venisse data l’occasione di prendere la parola, non per proclamare la sua innocenza, ma per testimoniare il proprio crimine e la giustizia della condanna. Le cronache riportano un buon numero di discorsi del genere.
Discorsi autentici? Sicuramente, in un certo numero di casi. Discorsi fittizi, fatti circolare in seguito a titolo di esempio e di esortazione? Fu senza dubbio ancor più frequente.
Quale credito accordare, ad esempio, a ciò che viene riferito sulla morte di Marion le Goff, celebre capobanda, in Bretagna, alla metà del secolo XVIII?
Ella avrebbe gridato, dall’alto del patibolo: «Padri e madri che mi ascoltate, curate e ammaestrate bene i vostri figli; io sono stata nella mia infamia bugiarda e fannullona: ho cominciato rubando un coltellino da sei liards … poi ho comandato una banda di ladri, ed ecco perché sono qui. Ripetetelo ai vostri figli, e che almeno questo serva loro d’esempio».
Un discorso simile è troppo vicino, nei suoi stessi termini, alla morale che, tradizionalmente, troviamo nei fogli volanti, i canards, la letteratura di divulgazione, perché non sia apocrifo.
Ma l’esistenza del genere «ultime parole d’un condannato» è significativa in se stessa. La giustizia aveva bisogno che la sua vittima autenticasse in qualche modo il supplizio che subiva.
Si domandava al condannato di consacrare egli stesso la propria punizione proclamando l’infamia dei suoi crimini; gli si faceva dire, come a Jean-Dominique Langlade, tre volte assassino: «Ascoltate tutti la mia orribile azione, infame e deplorevole, fatta nella città di Avignone, dove la mia memoria è esecrabile, violando senza umanità i diritti sacri dell’amicizia».
Da un certo punto di vista, il foglio volante e il canto di morte sono il seguito del processo; o piuttosto, proseguivano quel meccanismo per cui il supplizio faceva passare la verità segreta e scritta della procedura nel corpo, nei gesti e nei discorsi del criminale.
La giustizia aveva bisogno di questi apocrifi per trovare il proprio fondamento nella verità. Le sue decisioni venivano così circondate da «prove» postume. Accadeva inoltre che racconti di delitti e di vite infami fossero pubblicati, a titolo di pura propaganda, prima di ogni processo, anche per forzare la mano ad una giustizia che si sospettava d’essere troppo tollerante. […]
Ma l’effetto, come l’uso, di questa letteratura era equivoco. Il condannato si trovava eroicizzato dall’ampiezza dei suoi delitti largamente messi in mostra, e talvolta dall’affermazione del suo tardivo pentimento.
Contro la legge, contro i ricchi, i potenti, i magistrati, la polizia militare e la ronda di notte, contro l’esattoria e i suoi agenti egli mostrava di aver condotto un combattimento nel quale ci si riconosceva facilmente. I delitti proclamati amplificavano fino all’epopea lotte minuscole che l’ombra proteggeva tutti i giorni.
Se il condannato era presentato in pentimento, accettando il verdetto, chiedendo perdono a Dio e agli uomini dei suoi delitti, lo si vedeva purificato: moriva, a suo modo, come un santo.
Ma anche l’irriducibilità faceva la sua grandezza; a non cedere nei supplizi, egli mostrava una forza che nessun potere arrivava a piegare: «Il giorno dell’esecuzione, il che apparirà poco credibile, mi si vide, senza emozione, fare la confessione pubblica; mi assisi infine sulla croce, senza testimoniare alcun timore» (Compianto di J.-D. Anglade, giustiziato ad Avignone il 12 aprile 1768).
Eroe nero o criminale riconciliato, difensore del vero diritto o forza impossibile da sottomettere, il criminale dei fogli volanti, delle notizie alla mano, degli almanacchi, delle bibliothèques blues, porta con sé, sotto la morale apparente dell’esempio da non seguire, tutto un ricordo di lotte e di scontri.
Si sono visti dei condannati divenire dopo la morte una sorta di santi, di cui si onorava la memoria e si rispettava la tomba. Se ne sono visti altri passare quasi interamente dalla parte dell’eroe positivo. Se ne sono visti altri ancora per i quali la gloria e l’abominio non erano dissociati, ma coesistevano a lungo in una figura reversibile.
In tutta questa letteratura di delitti che prolifera intorno ad alcune figure dominanti (Cartouche e Mandrin in primis), non dobbiamo, senza dubbio, vedere una «espressione popolare» allo stato puro, ma neppure solo un processo concertato di propaganda e moralizzazione, venuto dall’alto; è un luogo dove si incontravano due implicazioni della pratica penale, una sorte di fronte di lotta attorno al delitto, alla sua punizione, alla sua memoria.
Se questi racconti possono venire stampati e messi in circolazione, è perché ci si attende da essi effetti di controllo ideologico, favole veridiche della piccola storia. Ma se essi vengono recepiti con tanta attenzione, se fanno parte delle letture di base per le classi popolari, è perché queste vi trovano non solo ricordi, ma punti di appoggio; l’interesse di «curiosità» è anche interesse politico.
Così questi testi possono essere letti come discorsi a doppia faccia, per i fatti che raccontano e per la risonanza che questi assumono, per la gloria che conferiscono ai criminali designati come «illustri» e per le parole stesse che usano (bisognerebbe studiare l’uso di categorie come quelle di «infelicità», «abominio», o i qualificativi «famoso», «lamentevole» in racconti come Storia della vita, grandi ruberie e astuzie di Guilleri e dei suoi compagni e della loro fine lamentevole e infelice).
Bisogna senza dubbio avvicinare a questa letteratura le «emozioni da patibolo» dove si affrontavano attraverso il corpo del suppliziato il potere che condannava e il popolo che era il testimone, il partecipante, la vittima eventuale ed «eminente» dell’esecuzione.
Nella scia di una cerimonia che canalizzava male quei rapporti di potere che cercava di ritualizzare, è «precipitata» tutta una massa di discorsi, proseguendo il medesimo scontro; la proclamazione postuma dei delitti giustificava la giustizia, ma anche glorificava il criminale.
Di qui il fatto che, molto presto, i riformatori del sistema penale chiesero la soppressione dei fogli volanti. Di qui il fatto che il popolo dedicasse un interesse tanto vivo a ciò che giocava un po’ il ruolo dell’epopea minore degli illegalismi. Di qui il fatto che essi abbiano perso d’importanza nella misura in cui si modificava la funzione politica dell’illegalismo popolare.
Ed essi sono scomparsi man mano che si sviluppava tutta un’altra letteratura del crimine: una letteratura in cui il crimine è glorificato, ma perché è una delle belle arti, perché non può essere opera che di nature d’eccezione, perché rivela la mostruosità dei forti e dei potenti, perché la scellerataggine è ancora un modo di essere un privilegiato: dal romanzo nero a Quincey, o dallo Château d’Otrante a Baudelaire, c’è tutta una riscrittura estetica del delitto, che è anche l’appropriazione della criminalità sotto forme recepibili.
C’è, in apparenza, la scoperta della bellezza e della grandezza del crimine; c’è, di fatto, l’affermazione che la grandezza ha diritto anche al crimine, anzi esso diviene addirittura privilegio di quelli che sono realmente grandi. I bei delitti non sono per i poveri dell’illegalismo.
Quanto alla letteratura poliziesca, a partire da Gaborieau, essa segue questo primo spostamento: con le sue astuzie e sottigliezze, con l’estremo acume della sua intelligenza, il criminale rappresentato si è reso insospettabile; e la lotta fra due ingegni puri – quello dell’assassino e quello del detective – costituirà la forma essenziale dello scontro.
Si è quanto mai lontani da quei racconti che seguivano nei dettagli la vita e i misfatti del criminale; che gli facevano confessare i suoi crimini, e che raccontavano minutamente il supplizio patito: si è passati dall’esposizione dei fatti o dalla confessione al lento processo della scoperta; dal momento del supplizio alla fase dell’inchiesta; dallo scontro fisico col potere alla lotta intellettuale tra il criminale e l’inquirente.
Non sono solamente i fogli volanti a scomparire quando nasce la letteratura poliziesca: è la gloria del malfattore popolaresco, è la cupa eroicizzazione attraverso il supplizio.
Adesso, l’uomo del popolo è troppo semplice per essere protagonista di verità sottili. In questo nuovo genere non ci sono più né eroi popolari, né grandi esecuzioni; vi si è cattivi, ma intelligenti; e se si è puniti, non si deve soffrire.
La letteratura poliziesca traspone a un’altra classe sociale quello splendore da cui il criminale era stato circondato. Saranno i giornali, a riprendere nella loro cronaca quotidiana il grigiore senza epopea dei delitti e delle punizioni.
La spartizione è fatta, che il popolo si spogli dell’antico orgoglio dei suoi crimini; i grandi assassinii sono diventati gioco silenzioso dei saggi.
(Foucault, Sorvegliare e punire)