Bretagna – La notte d’amore nella Torre

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Quella sera Lancillotto si mise a letto più presto di quanto fosse uso, dicendo che era sofferente, e le ore gli sembrarono lunghe come anni; tutti voi che avete fatto altrettanto, potete ben comprenderlo! Infine, quando vide che nella casa non v’era più candela né lampada né lanterna che non fosse spenta, si alzò e scavalcò il muro del verziere che era vecchio e decrepito.
In cielo, né luna né stelle: lui non se ne dispiacque affatto.

La regina lo attendeva alla finestra: non indossava né cotta né tunica, ma solo un mantello di scarlatto sopra la bianca camicia. E tutt’e due, tendendo le braccia quanto potevano, si presero per la mano.
«Signora, se potessi entrare!».
«Entrare, bello e dolce amico? Ma non sapete che il siniscalco dorme proprio qui? E non vedete che queste sbarre sono robuste e forti? Non potreste mai scostarle».
«Signora, nulla all’infuori di voi, potrebbe trattenermi».

E già Lancillotto, che mai alcun ferro arrestò, tirava le sbarre taglienti sì rudemente che le scalzò; ma ciò non avvenne senza che si ferisse le dita.
«Ebbene – disse la regina – attendete che mi sia coricata, e non fate alcun rumore a causa di Keu».
Non v’erano né cero né candela, perché il siniscalco si lagnava della luce, dicendo che gli impediva di dormire.

Lancillotto attraversò la camera sommessamente, entrò nella stanza attigua e, quando fu Ginevra-Lancillotto-baciodavanti al letto della regina, la salutò inchinandosi profondamente.
Ella gli rese il saluto, poi gli tese le braccia e lo attirò a sé. Lancillotto aveva le mani umide di sangue, e certo ella l’avvertì, ma credette fosse il sudore causato dal vigore dell’età. E grande fu la gioia che si scambiarono, ché molto avevano sofferto l’uno per l’altra; quando s’abbracciarono, ebbero un tal piacere che mai alcuno ne provò di simile.

Ma non si potrebbe dire in un racconto quale letizia Lancillotto ebbe tutta la notte! Così, quando apparve il giorno ed egli dovette lasciare colei che amava quanto può amare un cuore mortale, fu per lui un grande martirio: il corpo partiva, l’anima restava.
S’inginocchiò davanti alla sua dama per prendere congedo, mentre teneramente ella lo raccomandava a Dio. Poi egli se ne andò, dopo aver rimesso a posto con cura le sbarre; e la regina s’addormentò pensando a lui.

Al mattino, ella dormiva ancora nella camera adorna di cortine, quando Meleagant venne a renderle visita, com’era uso.
Appena entrò, scorse le tracce di sangue fresco sulle lenzuola. Andò al letto di Keu nella stanza contigua e lo vide similmente macchiato: ché le ferite del siniscalco s’erano riaperte durante la notte.
«Signora, ecco una novità! – esclamò. – Mio padre vi ha protetta molto bene da me, ma molto male da Keu il siniscalco. È una grande slealtà da parte vostra aver disonorato uno dei maggiori valentuomini di questo mondo per scegliere il peggiore!».

A tali parole, Keu, pur sofferente, non poté trattenersi dal gridare che era pronto a difendersi da tale ingiuria o per prove o per battaglia. Ma Meleagant, senza rispondergli, mandò a cercare il padre.
E quando re Baudemagu ebbe visto le lenzuola insanguinate: «Signora – disse – avete agito male!».
«Sire – rispose la regina – non faccio mercato del mio corpo! Molto spesso il naso mi sanguina, la notte. Che Dio possa non perdonarmi più, se fu Keu che portò questo sangue nel mio letto! Guardate – ella disse a Lancillotto che era venuto con il re – qual donna mi si considera e di che mi si accusa!».

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«Signora – egli disse – non v’è cavaliere al mondo contro il quale io non vi difenderò».
«Se osate negarlo, sono pronto a sostenerlo contro di voi!», esclamò Meleagant.
«Come? Siete dunque già guarito dalle ferite che vi ho inferto ieri?».
«Non ho ferita – disse Meleagant – che possa impedirmi di sostenere il mio diritto».
«Dio mi aiuti! – disse Lancillotto – poiché ne volete ancora, andate a farvi armare!».

Presto i due cavalieri si trovarono sullo spiazzo, e il re con loro.
«Sire – disse Lancillotto – una battaglia per causa sì nobile non dovrebbe esser condotta senza giuramento».
Il re fece portare le migliori reliquie che si poterono trovare, e tutt’e due si misero in ginocchio.
«In nome di Dio e di tutti i santi – disse Meleagant – è il sangue di Keu il siniscalco che ho visto nel letto della regina!».
«In nome di Dio e di tutti i santi – disse Lancillotto – voi siete spergiuro!».

Allora inforcarono i destrieri e fecero correre i cavalli, le lance si spezzarono, ed essi si urtarono con i cavalli, gli scudi, i corpi, sì rudemente che con la schiena toccarono l’arcione posteriore; ma Meleagant volò sopra la groppa del destriero.
Subito Lancillotto salta a terra, sguaina la spada, getta lo scudo sopra la testa e corre verso colui che odia a morte. Meleagant si difende da buon cavaliere, ché era prode, pur Ginevra-duellose traditore e fellone; ma la ferita s’era rimessa a sanguinare e Lancillotto lo incalzava con più foga di quanto avesse fatto la prima volta.

Quando il re vide che nuovamente la battaglia volgeva male per il figlio, non lo poté tollerare: andò ancora a implorare la regina nel nome di Dio e dei servigi che egli le aveva reso.
«Sire – ella disse – andate a separarli».
E il re s’affrettò a mandare a dire a Lancillotto che la regina voleva che egli lasciasse ora la battaglia.
«Signora, lo volete?», gridò Lancillotto.
«Sì», ella rispose.
«E voi?», chiese Lancillotto a Meleagant.
«Sì, ché vi ritroverò quando vorrò».

Lancillotto ripose a malincuore la spada nel fodero, dicendo all’avversario che avesse ben presente che lo faceva per forza.
Poi trascorse la giornata con la sua dama, e l’indomani ripartì, come doveva, accompagnato da quaranta cavalieri, verso il Ponte Sommerso, alla ricerca di monsignor Galvano.

(Il cavaliere della carretta, 14-15)

***

Tutto per … una notte d’amore. Per rubare una dama alla Luna del proprio Destino, Lancillotto si assoggetta a tutte le prove di cui il Maligno, il «male agente» Meleagant, gli ha lastricato il cammino.
Tutte, le affronta e le supera per … giungere a godere di quella sola notte che, lunatico, il Destino accorda al suo desiderio. Lancillotto desidera Ginevra. Se non può amarla – perché Ginevra ha il suo «legittimo» Amante, non può però neanche fare a meno di desiderarla.
Le sue sono le avventure del suo Desiderio. Lancillotto non va che là dove il Desiderio lo Munch-bacio-colours«rapisce» alla corte di Artù e alle sue «legali» cortesie.
Il Desiderio è Scortese.

Non conosce «regole» né «buone maniere». Il Desiderio è Natura che si prende la rivincita contro ogni Cultura che prova a imbrigliarlo nelle formule dell’Amore. Ginevra «ama» Artù, ma «desidera essere desiderata» anche a costo di «tradire» il suo amore.
Il Desiderio è Traditore: per concedersi, pretende non una, ma una sequenza di «trasgressioni», ognuna delle quali comporta un «ratto», una «fuga» o una «malignità» in cui avventurarsi. E per che cosa?
Tutto per … una notte dove, confuso per amore, può finalmente consumarsi il Desiderio.

Non c’è bisogno di forzare il racconto, per giungere a queste conclusioni.
Cosa dice il Racconto? dice che Lancillotto è stato «adottato» dalla Dama del Lago. E chi è la Dama del Lago? Colei che, nientemeno, ha sedotto per magia il Mago dei maghi, Merlino. È la Rana che «seduce» i bambini, Colei che li «adotta» nel suo Reame – che è quello delle «seduzioni naturali», delle magie con cui la Natura strega i bambini e li strappa alle loro madri.
La Natura «rapisce» i bambini. Li rende «commestibili» alle sue tentazioni golose, «appetibili» alle sue provocazioni più lussuriose, e più illegali, e più scortesi che può.

Ginevra ama lealmente Re Artù. È la Regina del suo «amore». E perciò Lei non ama che Lui. E mai «amerà» altro che Lui.
Ma dal momento in cui ha visto Lancillotto, come se da Lancillotto emanasse quell’altra «cosa», quella «magia» che seduce naturalmente e che in ogni nome culturale, in ogni Segno con cui la Cultura prova a significarla, sta sempre stretta – perché in quella «magia» s’aggira qualcosa di irriducibile a tutti i segni e i simboli, anche al più nobile di essi qual è Amore – Ginevra da quel momento desidera essere desiderata dal «figlio adottivo» della Rana del Lago. Ginevra è stata «rapita» a tradire il suo «amore» il giorno che Lancillotto ha fatto la sua apparizione a corte. Il giorno che l’inconsapevole messaggero delle magie della Strega le è comparso innanzi e ha fatto breccia nelle sue fantasie.

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Che poi questo «rapimento», da metaforico qual è «cominciato», diventi un fatto reale – non dipende né da Lancillotto né da Ginevra, ma dall’incidenza tra loro di un altro «mago», di un Mago Maligno, di una «malignità» spuntata come una mala pianta dalla «buona radice» (Baudemagu = il bello del mago).
Lancillotto e Ginevra, in quanto «rapiti» reciproci, si trovano a essere invischiati in un conflitto più grande di loro – tra la «buona» e la «cattiva» Magia. Tra gli «angeli» buoni e cattivi – dal cui tiremmolla dipende il Destino di ogni «desiderio naturale».

Ecco allora Ginevra «realmente» rapita dal Maligno e rinchiusa nella Torre, ed ecco – insieme – Lancillotto «realmente» in cammino per … godere del suo desiderio nell’unico posto al mondo in cui può trovarne l’«oggetto»: nella Torre dove sono reclusi tutti i nostri desideri «irrealizzati» e tutte le nostre immaginazioni «inattuali».
C’è un solo posto al mondo in cui possono godere del loro oggetto «surreale», ma per giungervi c’è da seguire tutta una trafila «regressiva», a ripercorrere cioè a ritroso la via che dalla Natura ci ha condotti alla Cultura – dai Desideri agli Amori, e con gli amori alle Cortesie «armate» (di spada e di norme di legge) degli Amanti che si contendono il trofeo «reale»: il corpo dell’Amata.

La trafila è dunque a uscire dal Reame Simbolico, per regredire nell’ascolto dei richiami di Natura – per lasciarsi rapire dalla pazzia, dal gioco dei desideri secondo come Natura li «detta» (alla cieca, s’intende).
Lancillotto è così accecato alle «cortesie» del Reame di Re Artù, da gettarsi – che follia! – nell’avventura. Ma, d’altra parte, è sempre così: il Desiderio avviene, sempre e solo, nella Ginevra-Lancillotto-torreTorre che il Maligno ha recintato di mille astuzie. L’una più «tagliente» dell’altra. E come se non bastasse il Ponte della Spada, ecco, ultimo ostacolo, le sbarre che Lancillotto deve divellere per farsi strada.

All’appuntamento – al di là non della carne, ma della menzogna che riduce il Desiderio a quella cosa piccina che si dice Amore – all’appuntamento Lancillotto ci giunge, per forza di cose, «sporco di sangue». Vi giunge «ferito». Non sano, non integro, non perfetto – ma con le mani che sanguinano. Vecchie cicatrici si riaprono. Incisioni antiche che la Natura gli ha «scolpito» nell’immaginazione, tornano a trasudare «sangue».
La sua, non c’è che dire, è a tutti gli effetti una «regressione» nel linguaggio immaginario della sua infanzia «anonima».
Per giungere alla Torre dei desideri, Lancillotto ha dovuto infatti gettare via il suo «nome», e con esso ogni «onore», ogni «riconoscimento» culturale. Ed è salito sulla «carretta» della vergogna (come non vergognarsi del «tradimento» a cui lo spinge il Desiderio?). E alla guida della «carretta», c’è un Nano – c’è, in altre parole, un Adulto nel corpo di un Bambino, c’è la «precocità immaginale» del bambino che già si nutre dei desideri dei grandi, che già s’immagina grande – solo che il suo corpo è in ritardo sull’immaginazione.

Solo se si lascia portare dal Nano, solo se cioè si lascia tradurre dai suoi propri desideri precoci, Lancillotto può farsi strada alla Torre. Solo risalendo sulla carretta del Nano, con tutta la vergogna che ne consegue – solo cioè francescanamente abdicando a tutti i «vestiti» culturali, spogliandosi del prestigio di cavaliere leale della Tavola Rotonda, Lancillotto può entrare nel Reame del Maligno.

Maligno è ogni «figlio» degenere della «buona» Magia.
Questo è quanto il Racconto ci tramanda: un insieme di simboli di cui sarebbe «bene» servirsi per distinguere i «buoni» e i «cattivi» Fantasmi, che sono poi i «vocaboli» del Lancillotto-questlinguaggio con cui la Natura ci parla.
Il Racconto non ci lascia in eredità che la sua perplessità e, ovviamente, il problema che l’affligge. Dov’è il confine tra il bene e il male? Dove tra il desiderio e l’amore? tra la Natura e la Cultura? tra la fedeltà e il tradimento?
Il Racconto ci lascia i suoi «compromessi» verbali, e i suoi «equivoci» più o meno involontari, i suoi «lapsus», ma anche e soprattutto i suoi «omissis».
Ci dice «non desiderare, ama!», sapendo che è impossibile comandare ai propri desideri. E che l’amore, invece, quello lo si può «attuare», perché è il solo «resto» innocuo che avanza all’inferno del desiderio.

Bisogna essere Lancillotto per trasgredire il «non desiderare la Donna del Re» a cui sei devoto e fedele. Bisogna esserlo di natura, il Ranocchio che è stato allevato dalla Strega delle Seduzioni, per arrivare a sporcarsi del tradimento di Sua Maestà. Per tradire. Ma non solo. Perché è facile tradire.
Bisogna avere il fegato di Lancillotto /o di Prometeo/ per sopravvivere al tradimento del proprio dio o re. E questo è ben più difficile.
Perché ogni notte un’aquila glielo viene a rodere, e non è – come si potrebbe pur credere – il senso di colpa, ma l’impotenza a dire che cosa gli è realmente avvenuto, quando ha «rubato» il fuoco al suo dio, o la donna al suo re.
L’avvenire di quel «furto», come di ogni «rapimento», metaforico o carnale, è ineffabile. Lancillotto ha lanciato la sua lancia oltre ogni «dire».