Furioso per il fatto che si pescasse di frodo nei suoi stagni, il Sole ne affidò la sorveglianza dapprima alla lucertola d’acqua, poi al caimano. Poiché era lui il ladro, il caimano continuò a rubare allegramente, finché il Sole non lo colse sul fatto e gli tagliò il dorso con il coltello, dando origine alle caratteristiche scaglie. Per aver salva la vita, il caimano promise la figlia al Sole. Solo che di figlie non ne aveva e dovette scolpirne una nel tronco di un prugno selvatico. Lasciando al Sole il compito di animarla se gli fosse piaciuta, il caimano andò ad appostarsi nell’acqua aspettando gli eventi. Da quel giorno lo vediamo fare così.
La donna era incompleta, ma un picchio in cerca di cibo le scavò una vagina. Abbandonata dal marito, il Sole, ella partì alla sua ricerca.
La storia a questo punto continua come nella versione carib, tranne che, dopo la morte del giaguaro, Pia estrae dalle viscere di quest’ultimo i resti di sua madre e la risuscita.
La donna, allora, e i suoi due figli si rifugiano presso una rana che estrae il fuoco dal proprio corpo e che rimprovera Makunaima quando lo vede divorare la brace di cui va ghiotto.
Makunaima decide allora di partire. Scava un canale che si riempie d’acqua, inventa la prima piroga e vi s’imbarca con la famiglia. I due fratelli imparano poi dalla gru l’arte di accendere il fuoco per percussione e compiono altri prodigi. In particolare furono loro a provocare la comparsa delle cascate, ammucchiando i sassi nei fiumi per catturare il pesce. Divennero così pescatori più abili della stessa gru, e questo suscitò numerose liti fra Pia da una parte e la gru e Makunaima dall’altra. Infine si separarono e la gru condusse Makunaima nella Guyana spagnola.
Pia e la madre vissero dunque soli, viaggiando, cogliendo frutti selvatici e pescando, fino al giorno in cui la madre, stanca, si ritirò in cima al Roraima.
Allora Pia rinunciò alla caccia e incominciò a insegnare agli indios le arti della civiltà. È a lui che si devono gli stregoni-guaritori. Infine Pia raggiunse la madre sul Roraima dove restò per un certo periodo. Prima di lasciarla le disse che tutti i suoi desideri sarebbero stati esauditi purché, nel formularli, essa avesse chinato la testa e si fosse coperta il viso con le mani.
È quello che fa ancora oggi. Quando è triste e piange sulla montagna si alza la tempesta e le sue lacrime scorrono a torrenti lungo i pendii.
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Quello che a questo punto possiamo chiamare il mito della «fidanzata di legno», vuoi per la sua ricorrenza nei molteplici racconti (cfr. Warrau: La fidanzata di legno, ecc.), vuoi soprattutto per la sua «posizione» nella Rete di scambi e d’intersezioni che connette i racconti tra di loro, costituisce di certo uno dei centri nevralgici di tutta l’antica narrativa sudamericana.
L’«eroina», se pure è passata alla storia (soprattutto a quella dei poeti) come la Fidanzata, diviene in realtà anche Madre: madre di uno o due figli (Haburi, o Aboré, in un caso; Pia e Makunaima nell’altro) a cui gli Indios attribuiscono la funzione prometeica di fondatori o inventori delle «arti della civiltà umana».
Non si tratta dunque di una fidanzata qualunque, e nemmeno di un’«eterna» fidanzata prigioniera del suo nubilato (abbiamo visto che questa è semmai la trafila della donna californiana a caccia di farfalle, che costituisce proprio il caso inverso al nostro: è infatti una madre che regredisce allo stadio di seduttrice, anziché una seduttrice che diviene madre).
La storia della nostra «eroina» non si blocca, non subito perlomeno, in una regressione. Non si esaurisce, per così dire, nell’incontinenza di una perpetua metonimia, ovvero di una coazione a ripetere sempre lo stesso atto, ogni volta però profittando di dargli un nome diverso, in modo da non riconoscerlo, da tenersi all’oscuro di quello che realmente nell’atto «agisce».
La storia della nostra «eroina» comincia addirittura da quando essa non era ancora al mondo, da quando era di là da venire, da quando – possiamo azzardarci a dire – nemmeno esisteva l’idea (e la cultura) del fidanzamento.
La storia comincia dal Padre della nostra «eroina», da quel Tale che i miti si compiacciono a chiamare il Goloso, il Vorace, il Bocca Aperta alla Fame, o se si tratta di un animale, se l’immaginano come il Caimano.
È lui, il Suocero ante litteram, il Venditore del corpo della figlia – colui cioè che al corpo della figlia attribuisce un «valore di scambio» con i servizi che il Genero a venire gli presterà fino a chiudere un occhio sui suoi «furti di pesce».
C’è dunque a monte di ogni fidanzamento, un Fidanzatore – a monte di ogni sposalizio, uno Sponsor: questo dice il Racconto. Dice che il vasto Reame dei desideri, e in particolare di quelli che noi chiamiamo «sessuali», sorge da un’«invenzione di fantasia», dall’«idea di un artista» (nel nostro caso è uno scultore) che tutto ha di mira, tranne che il solo libero ed esclusivo esercizio del sesso. O più precisamente: che nella libera e selvaggia circolazione delle connessioni sessuali introduce, lui, per via della sua Voracità, l’idea di un do ut des, di un «guadagno», «profitto», «controvalore» o «risarcimento».
L’Artista, insomma, approfitta del desiderio sessuale altrui, per «rifilare una sola» agli spasimanti di sua figlia, al solo scopo di asservirli alla sua Casa.
Non è poco, e non è secondario sapere il da dove di quella «perversione» che verrà nientemeno a tacciare, essa, di «perversità» le libere connessioni dei tempi selvaggi d’una volta. Può servire a qualcosa, chi lo può dire?, sapere che «perversa» è, alla lettera, la contaminazione dei bisogni di sussistenza materiale (sfamarsi) coi desideri di accoppiamenti e sposalizi sessuali (godersi).
Si tratta di due pratiche «naturali», mangiare e copulare, che naturalmente non c’entrano l’una con l’altra: ad associarle e renderle reciproche, è il Padre, il Suocero, il Caimano sempre Affamato, il Capostipite della Cultura. È lui, l’Artista Perverso, che mischia i piani, e confonde bisogni e desideri, Fame e Sesso. Va da sé che per Lui il sesso conta così poco, direi così talmente poco da spiegare, da solo, perché per noi conta così tanto – se solo per caso ci attrae un attrezzo qualunque della sua Bottega.
Perciò, chiunque sia una volta entrato nell’Arte, chi una sola volta abbia usato un attrezzo della Bottega dell’Artista, si faccia il piacere di riconoscere a se stesso che ogni suo «fidanzamento», reale o anche solo virtuale, è viziato a monte da quell’antico do ut des.
Do ut des: tre paroline, una formula magica. Basta pensarla, per fare la magia: al posto della Donna Reale ecco apparire la Donna Artificiale, il frutto di un artificio mentale – la Donna Truccata, la Donna Vestita, la Donna Tatuata secondo le mode dei tempi e dei luoghi culturali – la Donna, quest’altra che la Cultura ha prodotto, e che è la Sola Sopravvissuta, a quanto risulta.
Non è dunque insensato quel che il mito dice.
Dice che la vagina di questa Donna, la si è dovuta scavare. Dice che gli uccelli se la sono dovuta sudare, facendosi strada nell’«ottusità» dell’Arte che l’aveva fabbricata. E dice soprattutto che, quando finalmente la vagina venne aperta, ne uscì la monnezza della monnezza dei pensieri che il Padre, in quanto Suocero Eterno, aveva insinuato nelle sue intimità.
Ne esce una pozza di colori, un frastaglio cromatico, una frammentazione di suoni, uno sfarfallio di vertigini all’infinito. Ne esce la distinzione delle Specie. Questo arriva a dire il Racconto.
Arriva a dire che la Babele delle lingue non è che il tardivo contro-effetto di una differenziazione della Natura stessa in più Specie di viventi. E che perciò chiunque brighi con gli attrezzi della Bottega dell’Artista, e le parole sono gli attrezzi che la nostra Specie usa specialmente, insomma: chiunque parli, e come tale entri nella Rete del Racconto, è un «sedotto» dall’Arte che vive sulla pelle dell’Uomo.
Vogliamo dirla all’antica? è un «iniziato alla seduzione», così come la scandisce e la ritualizza l’Arte del do ut des, del «mi do a te per prenderti in mio possesso».
Questo è il «serpente» che alligna nelle viscere della Fidanzata – ovvero della Donna che siamo costretti a vedere attraverso le lenti dell’Arte propria della nostra Specie. Questo è il «maligno» di cui la Fidanzata deve essere svuotata, per aprirci la strada all’Empireo della nostra immaginazione.
Dunque: la Donna, il cui «corpo naturale» è stato artisticamente manipolato di quell’un per cento di «valore culturale» che basta a farne l’«oggetto» per eccellenza dei desideri e degli appetiti dell’intera Tribù, il Racconto dice che deve essere non solo aperta, ma aperta e depurata – prima di passare ai fatti, pardon: ai confetti!
Che cosa poi voglia dire qui «depurare» è un altro problema. Non vorremo certo essere così ingenui da mitizzare una Donna Pura. La Donna con cui qui abbiamo a che fare, è l’Immaginazione – e la sua purezza non è che un’allusione alla sua primitiva stagione preverbale. A quando ancora non parlava parole, a quando ancora non simboleggiava per mezzo di segni, a quando ancora non usava gli attrezzi della Bottega di suo Padre.
Ma poi – una volta varcata la soglia – una volta che si aprì alla lingua dei Maestri di Bottega, una volta che vomitò il serpente che l’aveva sedotta, cosa avvenne dell’Immaginazione – cosa ne fu (della statua) di Venere?
Una cosa è Venere, altra la sua statua, il suo fantoccio. Una cosa la sua immagine, altra la sua riproduzione, il suo simulacro.
Avvenne che l’Immaginazione entrò nella Bottega Simbolica e ne mise a soqquadro gli attrezzi. Invece di avvilirsi, si entusiasmò. Anziché intestardirsi nello Stesso, si adattò ad automatizzarne certi movimenti proprio grazie, e non malgrado, la contaminazione col Simbolico.
Perché l’Immaginazione Umana è una Macchina che non si lascia bloccare più di tanto in un certo Guasto.
Nei millenni ha «meccanizzato» i suoi comportamenti, non si è lasciata «impietrire» come le altre Specie Animali in questo o in quel cromatismo limitato, ma si è presa la libertà di «imitare» e dunque di percorrere una molteplicità di scelte, di opzioni, di cammini che le altre Specie nemmeno percepiscono.
L’Immaginazione Umana si compiace della sua sempre più sofisticata e artistica «automazione», perché le apre nuovi spazi esistenziali dove le altre Specie di Animali nemmeno sognano mai di poter soggiornare.
Esse sono bloccate, prigioniere del colore di cui s’impregnarono all’apertura della Vagina e al conseguente sguazzo di putredine maligna, di cui sono state per così dire «indemoniate».
Altro, a quanto pare, è il Demone che la nostra Immaginazione infantile incontra sulla via. Un Demone che si fa forte della nostra speciale attitudine a «macchinarci» per trascinarci ben oltre il limite a cui sono ancora ferme le altre Specie.
La nostra Immaginazione, proprio ora che più si sta affidando alle tecniche della sua «automazione», può più facilmente scendere fin nell’abisso del suo stesso inferno. Lo può, e in qualche modo, già solo per il fatto di poterlo, per il fatto di vedervi un suo Possibile, sia pure folle, lo può e lo vuole, quasi lo deve fare – se vuole, se davvero desidera sapere di Se Stessa, di qual era prima che la mano di un Artista o Demiurgo la scolpisse a uso e consumo del suo Simbolismo Economico-Sessuale.
Sembra un compito disperato, ma forse non lo è. Forse, non è più necessario come una volta aggirarlo con un artificio retorico o di alta scuola metafisica.
Almeno, è quanto ho appreso da Kierkegaard e Nietzsche: dai «miei» artisti, da quelli a cui ho lasciato che mettessero le mani nella mia immaginazione, ho appreso che l’Inizio Immaginale non mi è più lontano ora, di quanto mi fosse agli inizi.
Ho imparato che essa, da se stessa, di tanto in tanto – torna sempre là. Torna a ripetersi. Torna a essere la Farfalla che è, quella che fu e quella che sarà, al di là dei «nomi di circostanza» con cui l’ho chiamata.
Ho imparato che la Seducente che essa si scolpì, con tutta la sua attrazione, serviva in realtà per distrarla da chissà quale Orrore, o da quale Bisogno inappagato. Serviva per un secondo fine.
Ecco la contaminazione: usare l’«oggetto» fabbricato dall’Artista con l’intento di sedurre e ridurre in sua schiavitù, e come rimanerne «immuni»?
Se te lo dico con un anacoluto, è perché di un anacoluto si tratta: si tratta dello «spostamento» d’un soggetto (nudo e crudo: la Donna Naturale) ad assumere la funzione, e soprattutto il peso, di oggetto (vestito e truccato: la Donna Culturale).
Il Suocero, il Caimano, il Pigmalione di turno, è il Contaminatore, il Sensale, il Contraente degli atti nuziali, il Notaio Simbolico, il quale – una volta che ha imposto il suo linguaggio alla stessa immaginazione – le impedisce di vedere al di là, a prima, all’immaginazione «nuda e cruda». È lui che fa di ogni nostra immaginazione una Puttana! È lui che ne ha fatto merce del suo mercato. E la nostra Immaginazione neanche dinanzi a questo Orrore si è pietrificata! Era diventata oramai una macchina capace di saltare i suoi stessi orrori. Di evacuarli, o vomitarli, se così si può dire, a ogni copula.