Corbin – Quando l’uomo fu umano

Nel lungo frammento (352 versi) di un poema rimasto incompiuto, «I segreti», Goethe ci presenta un viaggiatore, un adolescente, che designa come Fratello Marco, mentre cammina dopo una lunga giornata di marcia che l’ha condotto in una valle d’alta fratello-Marco-bussamontagna. È alla ricerca di un tetto ospitale per la notte. Salendo di roccia in roccia, dopo poco domina la valle intera.
«C’è qualcosa di umano da queste parti?», si domanda.

Ma ecco che, avanzando nella foresta, scorge un nobile edificio arrossato dai raggi del sole al tramonto.
La porta è chiusa. Sull’arco sovrastante c’è un’immagine misteriosa: una croce cui s’intrecciano rami di rosa. Qual è il senso dell’immagine? Non una parola, non un’iscrizione che aiuti a decifrarla. «Chi dunque ha associato le Rose alla Croce?».

Sono apparse le prime stelle, quando Fratello Marco bussa alla porta. Dice da quali lontani luoghi l’abbiano guidato sin lì gli ordini di esseri superiori, ed è accolto a braccia aperte.
Chi lo manda?
Ne abbiamo il presentimento, quando comprendiamo che il recesso in cui Fratello Marco è penetrato, potrebbe essere qualcosa di simile al Montsalvat; analogamente, lo vediamo subito messo al corrente di una situazione angosciosa da un vecchio cavaliere che potrebbe essere Gurnemanz che istruisce Parsifal.

Dopo avergli dato il benvenuto, il vecchio cavaliere gli chiede se reca un messaggio di speranza. Veniamo a sapere immediatamente dell’attività spirituale a cui si è consacrata, fin dalle origini, la confraternita cui il vecchio appartiene, e dell’angoscia e della luttuosa minaccia che ora la sconvolgono.
Colui che fu il legame fra tutti i membri, il fondatore della confraternita, loro guida e amico, ha deciso di lasciarli entro breve tempo e di scomparire. Il senso della tragedia ci viene rivelato col nome stesso di colui che fu l’Eletto, il Santo, il Saggio. Non è Anfortas, è Humanus, l’umano.

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In un’avvincente sintesi, il narratore delinea così l’epopea dell’eroe esemplare; potrebbe intitolarsi «quando l’uomo fu umano».
La separazione imminente allude forse alla minaccia dell’inumano? Oppure l’esegeta del poema deve vedere nell’arrivo di Fratello Marco, che varca la soglia contrassegnata dal misterioso emblema dei Rosacroce, l’annuncio di una palingenesi?

Lo stesso emblema, il giovane lo ritrova quando, dopo il pasto serale, i frati cavalieri lo introducono nella vasta sala in cui si dedicano alla loro attività spirituale. Sotto la volta a crociera che si perde verso l’alto, nessun ornamento che abbagli la vista. Dodici stalli, che ne circondano un tredicesimo, sono disposti lungo i muri come nel coro di una chiesa; ognuno è delicatamente scolpito da mani abilissime. Sopra ogni stallo è appeso uno scudo sul quale sono effigiate forme simboliche, e davanti a ciascuno è posto un leggio. Tutto esprime la meditazione e il raccoglimento, la quiete studiosa di un’intima confraternita.
Ed ecco che sopra il tredicesimo stallo, quello di Humanus, al centro dell’arco disegnato dai dodici stalli circostanti, il giovane riconosce lo stesso emblema: la Croce cui croce-roses’intrecciano le Rose.

Il poema incompiuto ci lascia appena intravedere il suo segreto in una visione che si manifesta a Fratello Marco, dopo un breve sonno, nel parco del misterioso castello ancora rorido delle brume dell’alba. Una teoria di figure giovanili coronate di fiori; il bagliore delle fiaccole fa balenare, nel crepuscolo mattutino, il candore delle vesti.
Da quali feste tornano, da quali notturne celebrazioni? Le fiaccole, come le stelle, si spengono e scompaiono in lontananza.

Trent’anni dopo alcuni giovani chiesero a Goethe come sarebbe stato il suo poema, se l’avesse concluso, e che cosa avrebbe svelato riguardo alla misteriosa confraternita.
La sua risposta precisa l’intenzione configurata nel personaggio di Humanus: è l’Uomo pienamente umano, come centro di una costellazione di individualità tipiche, che le loro aspirazioni radunano intono a lui sulla base dell’affinità, e che possono svilupparsi completamente solo adunandosi così attorno a lui.

Il lettore o l’ascoltatore che avesse seguito le peregrinazioni di Fratello Marco, sarebbe stato condotto a prendere coscienza del fatto che ogni singola religione raggiunge il momento più alto della sua fioritura e del suo fruttificare, quando si avvicina a questa Guida suprema, a questo mediatore, oppure s’identifica perfettamente con lui.
Le varie epoche sarebbero state simboleggiate da dodici personaggi, tanto rappresentativi da far comprendere che ogni riconoscimento di Dio o della virtù, per sorprendente che possa essere la forma in cui si manifesta, è sempre degno di venerazione e d’amore.

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Quel che lo sguardo spirituale di Goethe abbracciava nella visione di questo mistico consesso, era il ciclo completo della vera direzione seguita dall’umanità; tale direzione, l’umanità può seguirla senza saperlo, o magari contro la propria volontà e può ingannarsi su di essa; può rinnegarla, come può rinnegare le Guide invisibili che ignora o di cui non può nemmeno più sospettare quale sia l’ordine di realtà.
Ecco perché non mi pare del tutto arbitrario che sia stato già proposto un accostamento tra la visione dei cavalieri che, secondo il poema di Goethe, si raccolgono attorno all’emblema della Rosacroce, e la visione di altri consessi formati da personaggi la cui realtà sfugge del pari alla percezione comune.

È proprio dell’esistenza di una simile confraternita e di simili consessi che ci informano le lettere del misterioso personaggio che ci è noto come «l’Amico di Dio dell’Oberland».
Se è vero che sarebbe imprudente attribuire a questo personaggio l’esistenza materiale di un essere di carne sottomesso alle condizioni della realtà e dello spazio fisico, sarebbe ugualmente errato ravvisare in lui soltanto lo pseudonimo o uno «sdoppiamento» della persona di Rulman Merswin, lo Spirituale di Strasburgo, che fu il solo a corrispondere con lui e il mediatore che trasmise i suoi messaggi ai confratelli.

Il penultimo di questi messaggi ci informa che nell’anno 1379, il giorno di santa Gertrude, una riunione di sette amici di Dio, presieduta dall’«Amico di Dio manoscritto-Rulman-Merswindell’Oberland» come ottavo, si è tenuta accanto a una piccola cappella su di un’alta e selvaggia montagna.
L’anno seguente, un ultimo messaggio ci fa sapere che, in base a un richiamo del mondo spirituale, si è tenuto un nuovo capitolo nello stesso luogo e nello stesso periodo. La riunione si è protratta fino al lunedì di Pasqua; questa volta i fratelli non erano più sette, ma dodici, e presiedeva un tredicesimo, l’Amico di Dio dell’Oberland.

Sono queste le ultime lettere che Rulman Merswin abbia ricevuto da lui. Col suo ultimo messaggio, l’Amico di Dio prendeva congedo da lui; non gli avrebbe più scritto, e Rulman non avrebbe più dovuto scrivergli. Non si sarebbero più rivisti fino a quando non fosse piaciuto allo Spirito Santo di riunirli.
Due anni dopo questo messaggio, Rulman Merswin morì. Parecchi Spirituali della residenza dell’Ile Verte, a Strasburgo, si misero in cammino per cercare l’Amico di Dio di cui avevano tanto udito parlare e di cui si erano letti i messaggi. La loro ricerca fu vana. Nessuno riuscì mai a ritrovarlo.

Se ricapitoliamo i tratti comuni ai due consessi mistici da noi evocati, troviamo parecchi elementi comuni. C’è l’idea di certe Guide spirituali che vengono scelte e si trovano raccolte secondo gli ordini o le disposizioni di esseri appartenenti a mondi superiori; la loro comunità forma un’immagine plenaria del cosmo spirituale, le cui energie hanno un’azione determinante sull’umanità.
Ci sono il sette e il dodici. Il numero delle Guide propone ogni volta un’omologazione alle dimensioni cosmiche; da una parte le sette sfere planetarie (i sette metalli, i sette colori della luce, la scala dei sette toni musicali); dall’altra parte, le dodici costellazioni zodiacali del Cielo delle Stelle Fisse.

Ogni volta c’è l’idea di un pleroma, di una totalità plenaria.
Il numero dodici è investito di una virtù pleromatica. I dodici sono raccolti attorno a una misteriosa figura che è il loro centro: Humanus nel poema di Goethe, e l’Amico di Dio nella corrispondenza epistolare di Rulman Merswin.
In entrambi i casi, apprendiamo che il capo della confraternita ha preso la decisione di rioccultarsi. I suoi non debbono cercare di raggiungerlo in alcun luogo dello spazio fisico sensibile; la loro ricerca sarebbe vana.
In entrambi i casi, questa sparizione, questo passaggio allo stato di presenza invisibile, di «presenza assente», si annuncia come la soglia di un nuovo ciclo.

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Dalla fedeltà dei fratelli alla loro guida invisibile, dipende il compimento di tale ciclo, cioè l’avvenire e la sorte dell’umanità di cui essi sono i mediatori, giacché è attraverso di loro che l’umanità comunica con gli universi spirituali.
Insieme al loro capo, essi formano la chiave di volta di mistiche gerarchie che si aprono ininterrottamente sulla realtà umana, ma che sono conosciute solo da pochissime persone; il volgo le ignora, non immagina nemmeno la loro esistenza.

Pure, se cessassero di esistere, l’umanità sprofonderebbe nella catastrofe. È attraverso di loro che, di ciclo in ciclo, l’umanità compie il suo destino; essi soli conoscono la cifra della sua storia segreta; non se ne trova traccia in quei dati materiali, esteriori e apparenti, su cui lavorano le sociologie e le filosofie essoteriche e dai quali esse pretendono di dedurre, con le categorie di cui dispongono, quello che chiamano il «senso della storia».

(Corbin, L’Imâm nascosto)