Tuhuruhuru crebbe nel villaggio di suo padre Tinirau.
Un giorno tutti i bambini giocavano all’aperto a teka, un gioco fatto con fusti di felce, tagliati a strisce, appesantiti da un nastro di lino annodato a un’estremità. Si preparava un monticello di terra reso liscio a furia di battere con le mani e con i piedi, e la teka veniva lanciata come un dardo per essere fatta rimbalzare di striscio su di esso. Vinceva chi era capace di far andare la teka più lontano.
Era stato Maui tikitiki a Taranga a inventare questo gioco, quando ordinò ai fratelli di mettersi giù e di fare da monticello, e poi fece rimbalzare di striscio la teka sulle loro schiene, causando così l’incavo che si nota sulla schiena degli uomini.
Tuhuruhuru giocava coi bambini del villaggio di Motutapu e vinceva perché era bravo nel lancio, ma soprattutto perché, prima di ogni tiro, pronunciava sottovoce una formula magica:
Tu sei il mio dardo.
Il dardo di Chi?
Il dardo di Tu.
Batti tutti gli altri bastoni
e va’ oltre.
Vinceva dunque sempre lui, e perciò gli altri ragazzi finirono per ingelosirsi, e divennero sempre più cattivi con Tuhuruhuru. Uno di loro, per deriderlo, arrivò a inventarsi una cantilena in cui lo prendeva in giro, perché lui solo, a differenza di tutti gli altri bambini, non aveva una madre. E assieme ai suoi compagni di gioco gliela cantò girandogli intorno, come fanno i guerrieri attorno a un nemico prigioniero.
Poi tutti i ragazzi si allontanarono per andare a giocare a un altro gioco e non vollero che Tuhuruhuru vi partecipasse.
Lo offesero profondamente nei suoi sentimenti, sicché, quando il ragazzo giunse a casa, chiese subito al padre: «Dove si trova mia madre?».
Tinirau gli rispose: «Non lo so, ma ti dico che non potrai raggiungerla».
«Dimmi dov’è – chiese di nuovo Tuhuruhuru, perché aveva il presentimento che il padre sapesse dove si trovava la madre. – Tu non me lo vuoi dire, solo perché hai paura che io fugga da lei».
Accortosi che la faccenda si faceva seria, Tinirau lasciò perdere quello che stava facendo e si sedette accanto al figlio: «Se è quello che desideri – gli disse – sappi che potrai andare da lei, e io ti dirò come devi fare per trovarla. Ma devi dare ascolto ai miei consigli. E per prima cosa dimmi se ti senti abbastanza forte per affrontare questo viaggio».
Il figlio rispose di sì.
«Bene, allora – gli rispose il padre. – Ecco quanto devi fare. Quando avrai raggiunto un pezzo di terra bruciata dal fuoco, poco prima del villaggio dove abita tua madre, prendi della cenere e sfregala sul volto in modo da sembrare uno schiavo. Una volta entrato nel villaggio, offriti di trasportare acqua per Rupe, che è il fratello di colei che cerchi. Ma quando gliel’avrai portata e lui piegherà la testa all’indietro, non versargliela in bocca, ma su per il naso. E alla sera, quando tua madre Hinauri insieme ad altre donne attende di ballare, tu recita questa formula magica:
L’indumento di Hinauri
è caduto, caduto.
La coperta di Hinauri
è caduta, caduta.
Se vuoi dunque andare, va’ pure, ma tieni a mente le mie istruzioni!».
L’incantesimo che aveva suggerito a Tuhuruhuru era quello che gli uomini recitavano, quando volevano far cadere a una donna la gonna.
Tinirau gli diede poi tutte le indicazioni necessarie a ritrovare il villaggio di sua madre, e gli raccontò che lì un tempo aveva abitato anche il grande Maui tikitiki a Taranga, e che colà aveva vissuto anche Irawaru, il primo sposo di sua madre.
Tuhuruhuru ripeté una per una le istruzioni del padre e, quando fu sicuro di aver imparato correttamente la formula dell’incantesimo e la via da seguire per andare al villaggio di sua madre, si mise in viaggio.
E quando fu nei pressi del villaggio, vide due donne che raccoglievano legna da ardere in un posto dove la vegetazione era stata bruciata. Allora, memore del consiglio paterno, andò in quel pezzo di terra bruciata, si rotolò tra le ceneri, se ne sparse un po’ sul volto per non essere scambiato per il figlio del capo e si stese, restando in attesa che le donne lo scoprissero.
E così avvenne. Dopo un po’, le due donne si avvicinarono e trovarono il ragazzo disteso come un tronco: «Ecco un giovane schiavo tutto per noi – esclamarono. – E per di più è carino! È proprio quello che ci vuole per Hinauri».
E così se lo portarono dietro.
Giunte a casa, scaricarono la legna e portarono il ragazzino, sudicio com’era e imbrattato di cenere, a Hinauri. E questa ne fu molto contenta: «Sì – disse. – È proprio quello che volevo. Andrà bene per portare l’acqua a Rupe».
Poco dopo al ragazzo venne data una zucca con l’ordine di andare a riempirla d’acqua per Rupe. Così fece; Rupe piegò la testa all’indietro e aprì la bocca, ma Tuhuruhuru gli versò l’acqua su per il naso.
Borbottando e imprecando, Rupe balzò in piedi gridando: «Questo monello mi versa l’acqua su per il naso!», e lo inseguì e, acciuffatolo, gli diede una bella battuta.
Il ragazzo allora gridò:
Invano sono venuto!
Rupe è mio zio,
Hinauri è mia madre,
e Tinirau è mio padre.
Invano sono venuto.
Ma Rupe, continuando a borbottare, non lo udì. «Il moccioso sta frignando ora, ma se l’è voluta», disse allontanandosi mentre sbuffava e cercava di schiarirsi il naso e la gola.
Quella sera, nella casa delle riunioni, si tenevano delle danze e Hinauri, insieme ad altre giovani, era in attesa di ballare.
Al che il ragazzo, ricordandosi di quello che Tinirau gli aveva detto, cantò a bassa voce l’incantesimo che faceva cadere la gonna.
Nessuno l’udì. Ma mentre ballava Hinauri si accorse che la gonna era divenuta troppo larga e le stava scivolando; allora si fermò per tirarla su. Riprese a ballare, ma Tuhuruhuru di nuovo recitò l’incantesimo. Questa volta però una ragazza lo sentì per caso e andò a bisbigliare a Hinauri nell’orecchio: «Quel ragazzino laggiù si sta prendendo gioco della tua gonna».
Hinauri rincorse allora il ragazzino e lo schiaffeggiò, sicché lui tra i singhiozzi gridò ancora:
Invano sono venuto!
Rupe è mio zio,
Hinauri è mia madre,
e Tinirau è mio padre.
Invano sono venuto.
Scappò dalla casa delle riunioni sconvolto e in lacrime.
Hinauri, vedendolo così sconsolato, si commosse e all’improvviso si rese conto del senso delle parole appena udite. Lo chiamò: «Torna qui da me!», e Tuhuruhuru capì che la madre si era resa conto di chi fosse.
Allora si precipitò verso il corso d’acqua, si tolse di dosso la cenere, che gli dava l’aspetto di uno schiavo, e si risciacquò.
Hinauri, che non ce la faceva a stargli dietro, invocò l’aiuto di Rupe: «Oh, Rupe, va’ subito a prendere quel ragazzino, che è mio figlio».
Rupe obbedì e le riportò il figlio nella casa delle riunioni, dove avvenne il grande incontro davanti a tutti che li guardavano.
Hinauri tra le lacrime gli gettò le braccia al collo e si augurò di non lasciarlo mai. Era fuori di sé dalla gioia perché, da quando era nato, era la prima volta che lo vedeva. Finalmente si liberò di tutti i rimorsi che l’avevano tormentata.
Al termine delle lamentazioni, gli chiese: «Che notizie mi porti di tuo padre?».
Il figlio allora le rispose: «Ha detto che tu, Rupe e io dobbiamo fare tutti ritorno per la cerimonia del nome».
Questa cerimonia, conosciuta col nome di purenga, era un rito importante nella vita di ogni ragazzo, specialmente per il figlio di un capo. Hinauri era contenta che non fosse stata ancora celebrata e che Tinirau desiderasse la sua presenza. Anche Rupe era felice. Sicché, la mattina, finiti i preparativi, i tre si misero in cammino alla volta del villaggio di Tinirau.
Tinirau, pentitosi della sua cattiveria, li rivide con grande piacere. Li lasciò dormire in modo che si riprendessero della fatica del viaggio; e intanto mandò in giro dei messaggeri, perché voleva che i capi dei villaggi vicini fossero presenti alla cerimonia del figlio.