Carib – La Rana, madre del giaguaro

C’era una volta una donna che portava in grembo i gemelli Pia e Makunaima. Ancor prima di essere nati, essi vollero visitare il padre, il Sole, e pregarono la madre di prendere la strada che conduceva a ovest. Si incaricarono di guidarla, ma in cambio la surreal-rana-princessmadre doveva cogliere per loro dei bei fiori. La donna coglieva qua e là ma si impigliò con il piede in un ostacolo, cadde e si ferì. Sgridò i bambini che, irritati, si rifiutarono di indicarle la strada; così si smarrì e arrivò esausta alla capanna di Kono(bo)-aru, la rana che annuncia la pioggia, il cui figlio, il giaguaro, era famoso per la sua crudeltà.

La rana ebbe pietà della donna e la nascose in una giara da birra. Ma il giaguaro fiutò la carne umana, scoprì la donna e la uccise; nello squartare il cadavere, trovò i gemelli e li affidò alla madre. Avvolti dapprima in un po’ di cotone, i bambini crebbero rapidamente e raggiunsero l’età adulta nel giro di un mese. La rana diede loro archi e frecce e li mandò a uccidere l’uccello /powis/ che – a suo dire – era colpevole dell’uccisione della loro madre. I ragazzi fecero allora un massacro di /powis/; per aver salva la vita l’ultimo uccello rivelò loro la verità. Furiosi, i fratelli si fabbricarono delle armi più efficaci con le quali uccisero il giaguaro e sua madre, la rana.

Si misero poi in cammino e giunsero a un boschetto di «cotton-trees» (certo, delle bombacee) in mezzo al quale si trovava una capanna dove viveva una vecchia che in realtà era una rana. I due giovani si stabilirono da lei. Andavano ogni giorno a caccia e, quando tornavano, trovavano della manioca cotta. Eppure, nella zona non c’era nessuna piantagione. I fratelli spiarono allora la vecchia e scoprirono che estraeva l’amido da una placca bianca collocata dietro le spalle. Rifiutando ogni cibo, i giovani invitarono la rana a stendersi su un letto di cotone cui diedero fuoco. La rana rimase gravemente bruciata ed ecco perché la sua pelle si presenta oggi raggrinzita e rugosa.

Pia e Makunaima si rimisero in cammino alla ricerca del padre. Passarono tre giorni con una femmina di tapiro che vedevano assentarsi per ritornare grassa e grossa. Così la seguirono fino a un prugno e qui scossero energicamente la pianta facendo cadere tutti i frutti, maturi o verdi che fossero. Furiosa per lo spreco di cibo, la bestia li picchiò e se ne andò. I fratelli la seguirono per un giorno intero. Infine la raggiunsero e stabilirono una tattica. Makunaima avrebbe tagliato la strada all’animale, lanciandogli un arpione quando questi fosse tornato indietro. Ma Makunaima rimase impigliato nella corda, che gli tagliò una gamba.
Quando la notte è chiara, li si può vedere: il tapiro forma le Iadi, Makunaima le Pleiadi e, più sotto, il Cinto di Orione raffigura la gamba tagliata.

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Una buona «madre» si lascia «guidare» da ciò che porta in grembo, ovvero: buona è la Matrice immaginale che si lascia «orientare» dai suoi stessi «presentimenti», perché, come dice il Racconto, essi soli – ancor prima di essere nati – possono mostrarle la via.
In quanto figli del Sole però, la sola via che essi sanno indicarle è quella del Padre: la via a occidente, la via del tramonto – la sola che può trarre la loro Matrice fuori dalla selva (di fantasie) in cui si è smarrita e pervertita.

Nel mito Warrau della fidanzata di legno, Yar, il Sole, e allo stesso modo l’uomo farfalla nel mito Maidu, consigliano alla donna di non «distrarsi» e di seguire le loro tracce: «Tieniti stretta a me – le dicono tutt’e due. – Sennò, ti perderai».
Per un po’ la donna si attiene alle istruzioni ricevute, e in assenza dello «sposo», non ha che un solo modo per rimanere sulla «retta via»: dare ascolto ai «nascituri». È così che fa una buona «madre»: ascolta i «figli», li ascolta fin da quando li porta in grembo e ancora, diciamo così, non li ha «realizzati».
In fondo, che le costa?

I «figli» non le chiedono altro che di cogliere dei fiori per loro. Basta appena forzare un poco il Racconto, per immaginare che nel mito Maidu è per il figlio, non per sé, che la Ernst-Marlenedonna dovrebbe andare a caccia di farfalle.
Fiori – farfalle – colori, balocchi, giochi cromatici «alla luce del Sole».
Se c’è un posto in cui l’Immaginazione è eccitata e tentata di lasciar perdere tutti i «buoni consigli», se c’è un posto dove sente di potersi riprendere la sua piena libertà, è proprio il Regno della Luce.

Solo che la Luce non è nessuna delle «cose illuminate»: non è fiore, né farfalla, né qualunque colore. La Luce, quella Luce che nei catechismi di molti popoli è «deificata», è l’aldilà dei colori e delle farfalle, è l’oltre delle immagini che i suoi giochi fanno apparire.
D’altronde, non dice il Racconto che lo stesso Sole, il «datore» di Luce, è stato lui per primo a essere ingannato? Perfino il Sole non ha visto ciò che mancava all’immagine della sua bella «fidanzata di legno»!
Come si può pensare dunque che la nostra immaginazione sia capace di una fedeltà, se non abdicando al suo «statuto naturale», che è quello di andare a caccia di colori e di farfalle, una volta distaccatasi dal suo primo Sposo?

Una volta perduta la strada, la nostra eroina trova scampo a casa della Rana.
Una volta perduta la strada (in fondo, è da qui che cominciano tutti i racconti: da uno smarrimento della via), la nostra eroina trova scampo presso la Rana, a meno che, c’è da supporre, non assuma su di sé anche la parte della Rana (come presumibilmente accade alla donna delle farfalle).
La Rana «seduce» i bimbi (solo i maschietti, dice il Racconto): delle figlie femmine dell’immaginazione la Rana non sa che farsene. È lei la Femmina, e non vuole certo ospitare «farfalle» a casa sua. È lei la Farfalla, anche se è vecchia e laida, e non ha mai volato una sola volta in vita sua.

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C’è insomma quella che farfalla non è, eppure pretende di esserlo; e quella invece che è farfalla, ma continua a ignorare di esserlo.
C’è l’immaginazione arrogante, dunque, e c’è l’immaginazione isterica.
C’è la vecchia Strega, e c’è l’eterno Ermafrodito: se nell’Eterno Ritorno della Ripetizione ermafroditica non c’è, in fondo, che la pazzia di perdersi in una perpetua metonimia dello Stesso, la casa della vecchia Bagascia offre in compenso una «dimora» in cui può trovare rifugio un’immaginazione in fuga da un certo «intruso». Nel qual caso, però, alla Madre viene strappato il «figlio»: al «posto» della Madre subentra, di prepotenza, con uno dei suoi artifici magici, una Seduttrice incallita – è Rana, ma ciò malgrado insiste a spacciarsi per Farfalla (per «oggetto» cioè delle mire del bambino, per «bersaglio» delle frecce dei suoi desideri).

La Rana è la «femmina dell’acqua stagnante», così come – all’opposto – il primo «sposo» della donna Farfalla è soltanto un «uomo di paglia».
Una, la Rana, è la Signora dell’acqua di palude, delle acque morte che stagnano nella surreal-rana-farfallacavità degli alberi. L’altra, la Farfalla che non vuole sapere di essere una farfalla, che non vuole, non più perlomeno, essere trattata da farfalla (le fa troppo male!), signoreggia nella Valle dei Fuochi Fatui, dei Desideri più «eccentrici», delle Micce che subito prendono fuoco, e subito, va da sé, si spengono.

In entrambi i casi, «muore» o «impazzisce», comunque sparisce dalla scena la Madre. Le sopravvivono i «figli». I suoi «resti» immaginali. I suoi cari «non estinti». E questi, sebbene inizialmente «ingannati», una volta venuta a sapere la «verità», vendicano la Madre e si riconquistano la libertà «uccidendo» Rana e Giaguaro. Ma solo per ricadere nelle grinfie di un’altra Rana, e dopo di lei, di una Femmina di Tapiro. Com’è difficile togliersi questo vizio!
Il vizio di farsi sedurre da ogni «femmina bestiale». Un vizio troppo antico, e così profondamente radicato nella «bestialità» della nostra natura animale, che non bastano due chiacchiere a liberarcene.
No che non basta «uccidere» questa Rana o quella Tapiro, né basta neanche stringere tra le mani la Farfalla – per liberarsi di questo vizio.

I nostri due «gemelli» alla fine lo capiscono.
Ma averlo capito non li salva, anzi li danna a esportare in cielo il loro proprio dramma. Averlo capito è capire che pure il cielo vive lo stesso smarrimento, dacché qualcuno l’ha «separato» dalla terra della sua androginia.
È accaduto allora: quando la Madre ha bussato alla porta della Rana. Allora, la Rana, sentendo il suo bambino piangere, ha domandato: «È maschio o è femmina?».
È la Natura che ha separato i sessi – di qua la Terra, di là il Cielo.
Una sola separazione, uno stesso dramma da cui niente e nessuno è escluso.