Sappi, figlia mia, che c’era una volta un mercante con averi e armenti, moglie e figliuoli. Iddio gli aveva dato la conoscenza delle lingue degli animali e degli uccelli. Questo mercante abitava in campagna, e aveva in casa un asino e un bue.
Un giorno, il bue si recò al posto dell’asino, e lo trovò spazzato e innaffiato; e vide nella greppia orzo e paglia passata al vaglio, e l’asino che se la dormiva riposatamente. Solo di quando in quando il padrone lo inforcava per qualche faccenda che gli si presentava, e poi subito faceva ritorno.
Un giorno, il mercante sentì il bue che diceva all’asino: «Buon pro ti faccia! Io sono stanco e tu sei riposato; tu mangi l’orzo passato al vaglio, e sei servito; solo di quando in quando il padrone ti monta e poi torna; mentre io son sempre all’aratro e alla macina».
Rispose l’asino: «Quando esci sul campo, e ti mettono il giogo sul collo, mettiti a dormire e non ti alzare anche se ti battono; sta’ a dormire, e quando fanno ritorno con te, e ti mettono davanti le fave, non le mangiare come se ti sentissi fiacco. Astieniti così dal cibo un giorno o due, e ti riposerai dalla stanchezza e dallo strapazzo».
Il mercante stava a sentire questo discorso. E quando il bovaro portò al bue il suo foraggio, questi ne mangiò solo un poco; e la mattina, quando venne a prenderlo per l’aratura, lo trovò fiacco.
Il mercante allora gli disse: «Va’, prendi l’asino e attaccalo all’aratro per tutt’oggi in sua vece…».
L’uomo prese l’asino, in luogo del bue, e lo tenne all’aratro per tutta la giornata.
Quando l’asino tornò a sera, il bue lo ringraziò della sua compiacenza, per averlo fatto riposare tutta la giornata dalla fatica. Ma l’asino non rispose, amaramente pentito.
Il secondo giorno, venne il contadino, prese l’asino e lo fece lavorare all’aratro fino alla sera; l’asino se ne tornò col collo scorticato, morto di stanchezza; il bue lo osservò e lo colmò di ringraziamenti e di lodi.
L’asino disse tra sé: «Me ne stavo fermo e tranquillo! Mi ha rovinato l’impicciarmi dei fatti non miei!» e poi al bue: «Debbo darti un consiglio. Ho sentito il padrone che diceva: “Se il bue non si alza da dove sta, datelo al beccaio, che lo ammazzi e faccia della pelle un tappeto di cuoio…”. Ora io temo per te, e ti ho dato un buon avviso. Dio ti conservi…».
Al sentir ciò, il toro disse: «Domani andrò fuori con loro!», quindi si mangiò il suo foraggio per intero, tanto da leccare la greppia. E il padrone stava a sentire tutto.
Al mattino, il mercante e la moglie vennero alla stalla, e il bovaro venne a prendere il toro, che, alla vista del padrone, agitò la coda e dette chiari segni di paura, mentre il mercante rideva a crepapelle.
«Perché ridi?», chiese la donna.
«Per una cosa, – rispose, – che ho visto e sentito, ma che non posso rivelare perché morrei».
«Devi assolutamente dirmi perché ridi, anche a costo di morire».
«Non posso rivelarlo, ho paura di andare all’altro mondo».
«Ma tu ridi di me», e tanto insisté e premé che il marito, vinto e non sapendo come cavarsela, fece venire i figliuoli e mandò a chiamare il cadi e i testimoni per far testamento, rivelarle il segreto e morire. Giacché egli assai l’amava, come sua sposa e madre dei suoi figli; e del resto egli aveva già la bella età di centoventi anni.
Fatta dunque venire la sua famiglia e i vicini, raccontò loro il fatto, e aggiunse che se avesse detto il suo segreto sarebbe morto.
Tutti i presenti scongiurarono la donna a lasciare andare la cosa, perché il marito, il padre dei suoi figli, non avesse a morire. Ma l’altra dichiarò che non avrebbe receduto dal farlo parlare, a costo di lasciarlo morire.
Così tutti desistettero. Il mercante si levò e andò a compiere le abluzioni alla stalla, indi tornò per rivelare il segreto e morire.
Or egli aveva un gallo con cinquanta galline, e un cane. Il mercante sentì il cane che apostrofava e ingiuriava il gallo, dicendo: «Tu stai allegro e il nostro padrone sta per morire».
«Come sarebbe?», chiese il gallo, e il cane gli ripeté tutta la storia.
«Il nostro padrone, – osservò il gallo, – ha poco senno. Io ho cinquanta mogli, e questa contento e quell’altra fo arrabbiare. Lui non ha che una moglie sola, e non sa come regolarsi con lei. Perché non prende un buon bastone di gelso, non entra in camera sua e non gliene dà tante da farla morire, o pentirsi e non tornare a chiedergli più nulla?».
Quando il mercante sentì le parole del gallo al cane, rifece senno, e decise di suonarle alla consorte.
«E così, – concluse il visir rivolto alla figlia Shahrazâd, – potrebbe capitare a te quel che egli fece appunto con sua moglie…».
«E cioè?».
«Entrò nella sua camera, dopo aver reciso per lei delle buone verghe di gelso, e averle nascoste nell’interno. Quindi le disse: “Vieni in camera, che ti racconti senza che nessuno mi veda, e poi muoia”. La donna entrò, e l’uomo serrò la porta e le piombò addosso a legnate finché cadde svenuta. Poi la donna disse: “Mi son pentita», e baciò le mani e i piedi al marito. I due riuscirono insieme, la compagnia si rallegrò, e vissero felici e contenti fino alla morte.
(Le mille e una notte)