imbrattai di colpo la carta dei giorni triti
spruzzandovi colore da un bicchiere
(Majakovskij al tempo della pittura futurista)… solo spruzzandovi il suo sangue, l’Usignolo colora la Rosa
(Oscar Wilde da dietro il cespuglio di una Favola)
E già, i «giorni triti», le abitudini, le solite storie. È sempre così: ci vuole il «sangue» di un usignolo, per tingere di rosso i petali di un «m’ama … non m’ama».
Le mille e una notte … storie mille e ancora mille volte scritte e riscritte … e lontananze che invano tentano di mettersi sempre più lontane, parola dopo parola, a cercare l’Insolito che verrà, ma …
… non c’è avvenire alla Parola del Filosofo, scrive Kierkegaard: nessun futuro attende la Parola che per millenni, nella pretesa di spiegare tutto, ha occultato a se stessa quella piccola Piega a cui, incalzata dalla Necessità di tradire l’indicibile, si è piegata per gettarsi temeraria nella tentazione, non tanto di dire, ma di prendere alla lettera il suo dire.
A volte, addirittura senza il risarcimento dei trenta denari!
A chi scrive – specie se non vuole scrivere un libro, ma solo scrivere, e scrivere, e scrivere – è necessario leggere, e leggere, e leggere, per quanto gli è possibile, tutto quello che è stato già scritto sull’argomento, così consiglia Kierkegaard, non tanto però per accumulare sapere, quanto – secondo il volere di Apollo – per trovare, pure lui come i suoi «predecessori», il già scritto su cui conviene che lui spruzzi il suo colore. Il solito fiore a cui essere, lui, l’Usignolo che s’immola per renderlo nuovo, insolito.
Questo scriverci l’uno sull’altro, questo divenire l’uno per l’altro la «carta dei giorni triti», dicesi, non a caso, «catena di sant’Antonio». In primis, perché «incatena» solo eremiti alla sua «tradizione», e in secundis, perché riassume in uno stesso (se pur improbabile) Eremo nostalgici e futuristi, purché sappiano di aver «tradito» quel Santo di cui credevano di dire, mentre non dicevano altro che il folle legame che a loro parve unirli a distanza con le lontananze di altri Solitari.
Ogni anello della Catena non fa che scrivere per accoppiarsi: la Solitudine non anela che a innamorarsi, e non può fare a meno d’innamorarsi per giungere a scrivere le sue proprie fantasie nuziali, e le devozioni immaginali per cui è passato il suo «nubilato».
Questo è tutto.
Oltre a questo tutto, ovviamente c’è molto altro ancora. C’è l’innumerevole, c’è quello che non conta più, o che non ha mai contato. C’è il molteplice popolato di caotici milioni di truppe di fantasmi – ma sant’Antonio resiste, sant’Antonio continua a scrivere solo di quel tutto di cui è innamorato.
In fondo, sant’Antonio deve spiegare solo a se stesso, solo dunque dinanzi al suo dio, quel silenzio al cui richiamo non ha più dato ascolto dal momento in cui si è innamorato.
Il momento della cammella, ecco come si chiamava una volta quell’«istante» afrodisiaco che ci spinge, tutti, dentro la tale o talaltra piega della parola. Tutti a disobbedire al Silente. Tutti a tradirlo. A volte, perfino gratis e, per sommo paradosso, in questa gratuità del proprio tradimento trovarsi a scoprire la grazia di un dio della tradizione.
Nella sua Storia della strage dei monaci del monte Sinai Nilo di Ancira racconta di una strana usanza dei Predoni del deserto: una volta all’anno, dice il Santo Asceta, si davano convegno per «sacrificare» una cammella. La immolavano alla stella del mattino; anzi no, la divoravano nel brevissimo spazio di tempo che andava dalla sua apparizione eliaca alla subitanea scomparsa nella luce del sole sorgente.
Un istante, appena. Insieme apparizione e sparizione della Stella della loro venerazione. Splendore e occultamento della loro Venere mattutina.
Il Santo Monaco dice che al loro «pasto sacrificale» non avanzava un solo osso, o pelo, o unghia della Cammella.
Venere svaniva tutta quanta nel suo Silenzio, subito.
Vana Venere, fin dal principio.
Appena un istante di vanitoso avvelenamento, e quei «cannibali», quei miscredenti avvezzi solo alla Predazione, quei Predoni del deserto non s’infatuavano che di quell’istante fatuo in cui ardeva il fuoco della loro Stella d’Oriente. Se lo divoravano in uno slancio di cannibalismo immaginale.
Innamorarsi, forse è un’altra cosa.
Forse è diluire, protrarre e far durare l’«istante della cammella» al di là del tempo della sua estinzione afrodisiaca.
Innamorarsi, forse è solo quel che avanza dopo Venere: un osso, un pelo, un’unghia che non è stata «divorata» all’istante.
Innamorarsi, forse è chiamare altri nervi a concorrere postumi alla visione. È appellarsi al loro soccorso. C’è da meravigliarsi, poi, se alcuni di loro ci mettono, oltre agli occhi, anche la bocca?
L’amore comincia là, sul confine, dove un desiderio appena sorto si eclissa nell’ardore della prima parola. Forse, è sempre stato così: un desiderio è tramandato all’amore, un silenzio alla parola. Le sorti di Venere sono ormai nelle mani di suo figlio, Eros.
Perciò, non so che farmene dei tuoi trenta denari, Giuda. Io sono un traditore gratuito. Perché sono stato graziato dall’apparizione di una Fantasticata in viaggio sulla cammella. E perché ho digiunato in attesa di rivedere il suo volto.
Sono un pessimo Predone. Quando la Stella è scomparsa, io – sant’Antonio – ancora non avevo dato il primo morso alla Cammella.
Avevo voglia di mangiarla, ma non la mangiavo perché non volevo smettere di volerla.
Ho dunque da scrivere, nessun libro però. I libri, io – sant’Antonio – amo leggerli. Io amo le Sacre Scritture di tutti i popoli. Io amo i loro Miti, i loro Racconti, le loro Epopee. Amo perfino le proposizioni più sgrammaticate delle loro Leggende, se solo mi aiutano a digiunare un altro «istante» come quello.
Sarà pure lo scritto di un Santo Asceta divorato dal sacro fuoco della sua estasi, io l’amo – se solo mi serve a scriverci sopra un’eco di quell’irripetibile miraggio.
Ho da scrivere, e scrivere, e scrivere – solo di quello sguardo.
Ho da tradire solo quel segreto condiviso da me e dalla mia Stella.
Ho da gioire solo di quel Mattino, e da saziarmi solo di quel Digiuno.
Perciò vi prego, scrittori, smettetela di spiegare tutto, e parlatemi solo di Lei, vi scongiuro: scrivetemi solo di Colei che pure voi fantasticaste in groppa alla Cammella.
Di Colei che vi manifestò la Necessità di rubare agli altri le parole che meglio la lodassero. E su quelle parole versare il vostro sangue d’usignolo. Non importa, non più ormai, se non sempre ne è spuntata una rosa.
(Pavel Kutzko, Delle piraterie quelle poche che ci restano)