Chi è Socrate? È colui che nella soggettività inaugura lo stile da cui è sorta la nozione di un sapere legato a certe esigenze di coerenza, sapere preliminare a ogni progresso ulteriore della scienza come sperimentale – e dovremo definire ciò che significa questa specie di autonomia che la scienza ha assunto col registro sperimentale.
Ebbene, nel momento stesso in cui Socrate inaugura questo nuovo «essere nel mondo» che chiamo qui una soggettività, si accorge che non è la scienza quella che potrà trasmettere le vie per pervenire al più prezioso, all’aretè, all’eccellenza dell’essere umano.
Già qui si produce un decentramento – è a partire da questa virtù che si apre un campo al sapere, ma questa stessa virtù, quanto alla sua trasmissione, alla sua tradizione, alla sua formazione, resta fuori dal campo.
Vi è qui qualcosa che merita che vi ci si arresti piuttosto che precipitarsi a pensare che alla fine tutto deve accomodarsi, che è l’ironia di Socrate, che un giorno o l’altro la scienza arriverà a recuperare tutto ciò con un’azione retroattiva. Tuttavia, niente ce l’ha provato finora nel corso della storia.
Che cosa è successo da Socrate in poi? Molte cose: in particolare la nozione di io è venuta alla luce.
Quando qualcosa viene alla luce, qualcosa che siamo obbligati ad ammettere come nuovo, quando emerge un altro ordine della struttura, ebbene!, ciò crea la propria prospettiva nel passato, e noi diciamo – Non poteva non esserci, esiste fin dall’eternità. Non è forse una proprietà che la nostra esperienza ci dimostra?
Pensate all’origine del linguaggio. Ci immaginiamo che vi sia un momento in cui su questa terra si è dovuto cominciare a parlare. Ammettiamo dunque che c’è stata un’emergenza.
Ma a partire dal momento in cui questa emergenza è percepita nella struttura a lei propria, ci è assolutamente impossibile speculare su ciò che la precedeva se non per mezzo di simboli che possono applicarvisi da sempre. Ciò che di nuovo appare, sembra sempre estendersi così nella perpetuità, indefinitamente, al di qua di se stesso. Non possiamo abolire col pensiero un ordine nuovo. Ciò si applica a tutto ciò che volete, compresa l’origine del mondo.
Ugualmente, non possiamo più pensare senza questo registro dell’io che abbiamo acquisito nel corso della storia, anche quando abbiamo a che fare con le tracce della speculazione dell’uomo su se stesso in epoche in cui questo registro non era promosso come tale.
Ci sembra allora che Socrate e i suoi interlocutori dovessero, come noi, avere implicita nozione di questa funzione centrale, che l’io dovesse esercitare presso di loro una funzione analoga a quella che occupa nelle nostre riflessioni teoriche, come pure nell’apprensione spontanea che abbiamo dei nostri pensieri, delle nostre tendenze, dei nostri desideri, di ciò che siamo e di ciò che non siamo, di ciò che ammettiamo come espressione della nostra personalità o di ciò che rifiutiamo come suo parassita.
Ci è difficile pensare che tutta questa psicologia non sia eterna!
È così? Vale la pena porre la questione.
Il porla ci incita a vedere più da vicino se effettivamente non vi sia un certo momento in cui questa nozione di io si lasci cogliere come nel suo stato nascente.
Non dobbiamo cercare lontano, i documenti sono ancora freschi. Non risale al di là di quell’epoca, ancora recente, in cui si sono prodotti nella nostra vita tanti progressi, quelli che ci divertiamo a leggere nel Protagora quando qualcuno arriva il mattino da Socrate – Ehilà! Avanti, cosa c’è? – Protagora è arrivato. Quel che ci diverte è che tutto succede, come dice Platone, come per caso, in un’oscurità nera. Il che non è mai stato rilevato da nessuno, poiché interessa solo gente che, come noi, da neppure settantacinque anni è abituata a girare l’interruttore elettrico.
Guardate la letteratura. Questo, voi direte, è caratteristico di gente che pensa, ma che la gente che non pensa deve pur avere, più o meno spontaneamente, una qualche nozione del proprio io.
Che ne sapete? In ogni caso, voi siete dalla parte della gente che pensa, o almeno venite dopo gente che ci ha pensato. Allora, proviamo ad aprire la questione, piuttosto di chiuderla così facilmente.
La specie di gente che con notazione convenzionale definiremo i dentisti, è molto sicura dell’ordine del mondo perché pensa che Cartesio abbia esposto nel Discorso sul metodo le leggi e i processi della chiara ragione. Il suo penso, dunque sono, assolutamente fondamentale per la nuova soggettività, non è così semplice come sembra a questi dentisti, e certuni credono di dovervi riconoscere un puro e semplice gioco di prestigio.
Se è vero infatti che la coscienza è trasparente a se stessa e si coglie come tale, appare però che l’io (je) non per questo le è trasparente. Non le è dato in modo diverso da un oggetto. L’apprensione di un oggetto da parte della coscienza non le offre anche le sue proprietà. Lo stesso accade per l’io (je).
Se questo io (je) è offerto come una sorta di dato immediato nell’atto di riflessione in cui la coscienza si coglie trasparente a se stessa, niente indica che la totalità di questa realtà – ed è già molto dire che si arriva a un giudizio di esistenza – sia in tal modo esaurita.
Le considerazioni dei filosofi ci hanno condotto a una nozione sempre più formale dell’io, in poche parole a una critica di questa funzione. Il progresso del pensiero si è distolto, almeno provvisoriamente, dall’idea che l’io fosse sostanza come da un mito da sottomettere a una stretta critica scientifica.
Legittimamente o meno, poco importa, il pensiero si è impegnato in un tentativo di considerarla come un puro miraggio, con Locke, con Kant, persino con gli psicofisici che dovevano solo seguire questa linea con altre ragioni, beninteso, e altre premesse.
Essi ponevano nel più grande sospetto la funzione dell’io, in quanto perpetua più o meno implicitamente il sostanzialismo implicato nella nozione religiosa di anima, in quanto sostanza rivestita perlomeno delle proprietà dell’immortalità.
Non è sorprendente che, per uno straordinario trucco della storia – per aver abbandonato un istante ciò che Freud apporta di sovversivo, e che può passare per un progresso in una certa tradizione di elaborazione del pensiero – si sia ritornati al di qua di questa critica filosofica, che non è di ieri?
Abbiamo usato il termine di rivoluzione copernicana per qualificare la scoperta di Freud. Non che ciò che non è copernicano sia assolutamente univoco. Gli uomini non hanno sempre creduto che la Terra fosse una specie di piano infinito, le hanno imputato anche dei limiti, delle forme diverse, a volte quella di un cappello da signora. Ma tutto sommato avevano l’idea che vi fossero cose che stavano in basso, al centro diciamo, e che il resto del mondo si edificasse sopra.
Ebbene, anche se non sappiamo ciò che un contemporaneo di Socrate poteva pensare del suo io, c’era comunque qualcosa che doveva essere al centro, e non sembra che Socrate ne dubiti.
Probabilmente non era fatto come quell’io che comincia a una data che possiamo situare verso la metà del XVI, inizio del XVII secolo. Ma era al centro, alla base.
In rapporto a questa concezione, la scoperta freudiana ha esattamente lo stesso senso di decentramento apportato dalla scoperta di Copernico. La esprime bene la formula folgorante di Rimbaud – i poeti, che non sanno quel che dicono, è ben noto, dicono però sempre le cose prima degli altri – io (je) è un altro.
Non lasciatevi stupire, non mettetevi a divulgare per le strade io (je) è un altro – non fa nessun effetto, credetemi. Per di più, non vuol dire niente. Perché prima bisogna sapere che cosa vuol dire un altro. L’altro, non riempitevi la bocca di questo termine.
Uno dei nostri colleghi, dei nostri vecchi colleghi, aveva avuto un po’ a che fare con «Les Temps Modernes», la rivista dell’esistenzialismo come si dice, e ci proponeva come un’audacia che, perché qualcuno potesse farsi analizzare, bisognava che fosse capace di cogliere l’altro come tale.
Il saputello! Si sarebbe potuto domandargli – Che cosa vuole dire con l’altro? – il simile, il prossimo, l’idea di io (je), un catino? Tutto ciò, sono degli altri.
L’inconscio sfugge a questo cerchio di certezze in cui l’uomo si riconosce come io. È fuori da questo campo che esiste qualcosa che ha tutti i diritti di esprimersi con io (je) e che dimostra questo diritto nel fatto di venire alla luce esprimendosi a titolo di io (je).
È proprio ciò che è più misconosciuto dal campo dell’io, che nell’analisi arriva a formularsi, sì, come io (je).
Ecco il registro in cui ciò che Freud ci insegna dell’inconscio può assumere la propria portata e il proprio rilievo. Che abbia espresso ciò chiamandolo inconscio lo porta a vere contraddizioni in adjecto, a parlare di pensieri – lo dice lui stesso, sic venia verbo, se ne scusa continuamente – di pensieri inconsci.
Tutto ciò è terribilmente confuso perché nella prospettiva della comunicazione, all’epoca in cui egli comincia a esprimersi, è costretto a partire dall’idea che ciò che è dell’ordine dell’io è anche dell’ordine della coscienza.
Ma non è sicuro. Se lo dice è in ragione di un certo progresso dell’elaborazione filosofica che formulava a quell’epoca l’equivalenza io = coscienza. Ma più Freud avanza nella sua opera, meno arriva a situare la coscienza, e deve confessare che essa è in definitiva insituabile.
Tutto si organizza sempre più in una dialettica in cui l’io (je) è distinto dall’io. Alla fine Freud abbandona la partita – qui ci devono essere, dice, delle condizioni che ci sfuggono, l’avvenire ci dirà che cos’è.
Con Freud fa irruzione una nuova prospettiva che rivoluziona lo studio della soggettività e che mostra che il soggetto non si confonde con l’individuo.
Questa distinzione, che vi ho presentato sul piano soggettivo, si può cogliere – ed è forse il passo più decisivo dal punto di vista scientifico – anche sul piano oggettivo.
Se da behavioristi si considera ciò che nell’animale umano, nell’individuo in quanto organismo, si propone oggettivamente, si rileva un certo numero di proprietà, di spostamenti, di manovre e relazioni, ed è dall’organizzazione di queste condotte che si inferisce l’ampiezza più o meno grande dei giri di cui l’individuo è capace per arrivare a cose che sono poste per definizione come le sue mete. In tal modo ci si fa un’idea della profondità dei suoi rapporti col mondo esterno, si misura il grado della sua intelligenza, si fissa insomma il livello, la bassa in cui misurare il perfezionamento, o l’aretè della sua specie.
Ora, l’apporto di Freud è che le elaborazioni del soggetto di cui si tratta non sono per nulla situabili su di un asse in cui, nella misura in cui fossero più elevate, si confonderebbero sempre di più con l’intelligenza, l’eccellenza, la perfezione dell’individuo.
Freud dice – il soggetto non è la sua intelligenza, non è sullo stesso asse, è eccentrico. Il soggetto come tale, funzionante in quanto soggetto, è altro da un organismo che si adatta. È un’altra cosa, e per chi lo sa intendere tutta la sua condotta parla da altrove che da quell’asse che possiamo cogliere quando lo consideriamo come funzione in un individuo, cioè con un certo numero di interessi concepiti sull’aretè individuale.
Ci atterremo per ora a questa metafora topica – il soggetto è decentrato rispetto all’individuo. È questo che vuol dire Io (je) è un altro.
In certo modo, ciò era al margine dell’intuizione cartesiana fondamentale. Se abbandonate, per leggere Cartesio, gli occhiali del dentista, vi accorgerete degli enigmi che egli propone, in particolare quello di un certo Dio ingannatore.
Il fatto è che non si può, quando si affronta la definizione di io, non implicare al contempo che le carte siano state distribuite male. Il Dio ingannatore in fin dei conti è la reintegrazione di ciò di cui c’era rigetto, ectopia.
Nella stessa epoca, uno di quegli spiriti frivoli che si danno a esercizi da salotto – è qui che talora iniziano cose assai sorprendenti, piccoli divertimenti alle volte fanno comparire un ordine nuovo di fenomeni – un tipo assai strano, che non corrisponde per niente all’idea che ci si fa del classico, La Rochefoucauld per dirne il nome, si è messo tutto a un tratto in mente di spiegarci qualcosa di singolare su cui non ci si è abbastanza soffermati, e che egli chiama amor proprio.
È curioso che sia parso tanto scandaloso. Infatti, cosa diceva? Metteva l’accento su questo, che anche le nostre attività in apparenza più disinteressate sono fatte per la gloria, anche l’amore-passione o l’esercizio più segreto della virtù.
Che cosa diceva esattamente? Diceva che lo facciamo per il nostro piacere?
Tale questione è molto importante perché, in Freud, tutto girerà intorno ad essa. Se La Rochefoucauld non avesse detto che questo, non avrebbe fatto che ripetere ciò che si insegnava da sempre nelle scuole – mai niente è da sempre, ma notate la funzione del da sempre in questo caso.
Da Socrate in poi, il piacere è la ricerca del proprio bene. Checché si pensi, si persegue il proprio piacere, si ricerca il proprio bene.
La questione è di sapere se tale animale umano, preso come poc’anzi nel suo comportamento, sia abbastanza intelligente da afferrare il suo vero bene – se comprende dov’è questo bene, ottiene il piacere che sempre ne risulta. Bentham ha spinto questa teoria alle sue ultime conseguenze.
Ma La Rochefoucauld fa valere un’altra cosa – che impegnandoci in azioni dette disinteressate, ci figuriamo di liberarci dal piacere immediato, e di cercare un bene di ordine superiore, ma che ci inganniamo.
Questa è la novità.
Non si tratta di una teoria generale secondo la quale l’egoismo ingloba tutte le funzioni umane. Questo lo diceva già la teoria fisica dell’amore di san Tommaso – il soggetto, nell’amore, cerca il proprio bene. San Tommaso, che non diceva nient’altro che ciò che si diceva da secoli, era d’altronde contraddetto da un certo Guillaume de Saint-Amour, il quale faceva notare che l’amore doveva essere altro dalla ricerca del proprio bene.
Ciò che è scandaloso in La Rochefoucauld, non è che l’amor proprio sia per lui fondamento di ogni comportamento umano, ma che è ingannatore, inautentico.
C’è un edonismo proprio all’ego, e che è appunto ciò che c’inganna, cioè che ci frustra sia nel nostro piacere immediato, sia nelle soddisfazioni che potremmo trarre dalla nostra superiorità nei confronti di questo piacere.
Separazione di piani, rilievo per la prima volta introdotto, e che comincia a introdurci, per una certa diplopia, a ciò che apparirà come una reale separazione di piani.
Questa concezione si iscrive in una tradizione parallela a quella dei filosofi, la tradizione dei moralisti. Che non è gente che si specializza nella morale, ma che introduce una prospettiva detta di verità nell’osservazione dei comportamenti morali o dei costumi.
Questa tradizione sfocia nella Genealogia della morale di Nietzsche, che rimane del tutto in questa prospettiva, in qualche modo negativa, secondo la quale il comportamento umano è come tale ingannato. È in questo incavo, in questa tazza, che viene a versarsi la verità freudiana. Siete ingannati, certo, ma la verità è altrove. E Freud ci dice dove.
In questo momento fa irruzione, con un fragore di tuono, l’istinto sessuale, la libido. Ma che cos’è l’istinto sessuale? la libido? il processo primario?
Voi credete di saperlo – anch’io – ma non ne siamo poi tanto sicuri. Bisognerà rivedere tutto questo da vicino, ed è ciò che cercheremo di fare …
(Lacan, Il Seminario: 2)