La fama della grande fortuna di Policrate [tiranno di Samo] non rimase celata ad Amasi [faraone d’Egitto = Ahmose II], anzi la cosa lo preoccupava. E poiché la sua buona sorte cresceva in misura sempre maggiore, inviò a Samo una lettera in cui aveva scritto così: «Amasi dice questo a Policrate: è un piacere sapere che a un amico e ospite le cose vadano bene, però a me le tue grandi fortune non piacciono, perché so quant’è invidiosa la divinità. Io perciò desidero che a me stesso e alle persone cui tengo alcune cose abbiano esito felice e altre no, e che la vita trascorra tra sorti alterne, piuttosto che sia sempre in tutto e per tutto fortunata. Di nessuno finora ho infatti sentito dire che, a furia d’essere fortunato in ogni cosa, da ultimo non sia finito completamente in rovina. Tu, dunque, dammi retta e fa’ questo, contro la tua fortuna: dopo aver pensato quale sia la cosa per te di massimo valore e per cui ti affliggeresti nell’animo in massimo grado se la perdessi, gettala via, in modo che non ricompaia mai più fra gli uomini. Se perciò, d’ora in avanti, la tua buona sorte non s’alternerà con le sventure, tu ponivi rimedio nel modo che qui ti ho suggerito».
Avendo letto ciò, e convintosi che quello di Amasi era un buon consiglio, Policrate si domandò quale fosse il gioiello, per la cui perdita avrebbe provato il dolore più grande, e riflettendo lo trovò: egli era solito portare un anello col sigillo, legato in oro, fatto di uno smeraldo, opera di Teodoro figlio di Telecle, di Samo.
Deciso dunque a gettare via quest’anello, fece così: completato l’equipaggio di una nave a cinquanta remi vi si imbarcò, e diede poi ordine di salpare verso l’alto mare. Quando fu ben lontano dall’isola [di Samo], sfilatosi l’anello sotto gli occhi di tutti i compagni di viaggio, lo gettò in mare. Fatto ciò tornò indietro e, giunto a casa, se ne stava in preda al dolore.
Dopo cinque o sei giorni però successe questo: un pescatore, avendo preso un pesce grande e di bell’aspetto, lo ritenne un dono degno di Policrate. Portandolo alla reggia, disse di volere essere ammesso alla presenza di Policrate ed, essendogli stato concesso ciò, offrendogli il pesce disse: «O re, avendo io pescato questo pesce, non ho ritenuto giusto portarlo al mercato, sebbene io viva del lavoro delle mie mani, ma mi è sembrato degno di te e della tua potenza; dunque te lo porto in dono».
Policrate, compiaciuto di queste parole, così rispose: «Hai fatto davvero bene, e doppia è la mia gratitudine, per le parole e per il dono; e dunque ti invito a pranzo».
Il pescatore, tutto fiero di ciò, se ne tornò a casa; intanto i servi di Policrate, nel tagliare il pesce, trovarono nel suo ventre l’anello del loro re. Appena lo videro immediatamente lo presero, e contenti lo portarono a Policrate; nel consegnargli l’anello, gli raccontarono in che modo era stato trovato.
Pensando a quel punto che il fatto fosse di origine divina, Policrate scrisse in una lettera tutto ciò che aveva fatto e ciò che gli era successo, e la spedì in Egitto.
Amasi, letta la missiva di Policrate, comprese che è impossibile per un uomo sottrarre un altro uomo al destino che l’attende, e che Policrate, fortunato in tutto, di più: fortunato al punto da ritrovare anche ciò che perdeva, non era destinato a una bella fine.
E così gli mandò un araldo a Samo per annunciargli che scioglieva il legame di ospitalità. Amasi fece questo perché, nel momento in cui a Policrate fosse capitata una tremenda e grande disgrazia, non voleva addolorarsi nell’animo come nei confronti di un ospite.
(Erodoto, Storie, 3: 40-43)
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Amasi (e, tramite lui, Erodoto) si guarda bene dall’annoverare tra i suoi amici un papero che più culo sfondato di Gastone non potrebbe essere. Ci pensi? non compra il biglietto vincente della lotteria, lo trova per strada! Tutto gli viene facile, non gli riesce, neanche volendolo, di perdere qualcosa.
Amasi (Erodoto?) tutto questo lo trova «inquietante». Che il «perduto» ritorni al suo vecchio legittimo «proprietario», che il «gettato via», il rimosso, il remoto, torni a presentarsi, e che senza nessuno sforzo, ma per mano di altri, sia di nuovo alla portata di chi, dolorosamente, se n’era liberato, e che questo a lui sembri un fatto «di origine divina», un «miracolo», o una «prodigiosa coincidenza» di cui menare vanto o sentirsi fiero – tutto questo ad Amasi, tramite Erodoto, o viceversa, fa – diciamo così – scaramanticamente paura!
Quello di Amasi non è infatti, propriamente parlando, un «ragionamento». Ha tutta l’aria d’essere una «superstizione». Dove sta scritto che «ritrovare il perduto» è, necessariamente, il segno di un declino imminente della fortuna del suo amico?
Ci sembrerà pure strano, ma ciò che Amasi pensa di Policrate è un pensiero ben fondato. Fondato su una «ragione» a cui, semmai, noi ci neghiamo. Siamo noi, ma noi diciamo che sono gli dèi a non vedere. Diciamo che sono loro a invidiarci la Fortuna – che non possono vedere un uomo felice, ché subito cercano di sconvolgergli la vita.
Eppure, quello di Amasi, per quanto strambo, è un «ragionamento» del tipo: Policrate ha tutte le fortune, meno una. Policrate non ha mai la fortuna di vedere la fine definitiva neanche di quello che getta via da sé!
Perché perdere quello si considera un tesoro, per Amasi, è la fortuna di avere trovato un termine alla propria fortuna! Se la fortuna di Policrate lo «inquieta», se lo «turba», è solo e proprio perché è interminabile.
Nel suo «ragionamento», non la perdita d’un tesoro, ma il suo godimento interminabile … è disgrazia!
Perfino un nirvana interminabile è disgrazia. Una fedeltà eterna, un amore o un’amicizia senza tradimenti – altro che miracolo, prodigio o non so che cosa! – una gioia, una felicità gustata sempre e solo nel suo paradiso senza mai scendere su una terra, o peggio annegare nelle profondità di una rimozione, è un mondo troppo chiuso su se stesso, e perciò neanche gli dèi possono vederlo.
Gli dèi invidiano l’arroganza che non si stermina, da sé, in un gesto d’umiltà. Un amore «non sterminato», un’amicizia di cui ti duoli al solo pensiero di «perderla», e che – senza nessuno tuo sforzo – ti ritorna alla mente (c’è sempre un pescatore che, al posto tuo, te lo va a ripescare dal fondo del mare!) – è tutto fuorché una fortuna.
La Fortuna, Amasi come Erodoto e, scusate se mi aggiungo alla lista, anch’io la vediamo solo perdendola, e solo nel momento in cui, perdendola, sappiamo dire le parole, se le sappiamo poetare al modo giusto, lì sul momento stesso, in modo che l’addio sia veramente a dio, e non celi in sé né più serbi ancora una speranzella.
Solo di un’amicizia tradita, solo di un amore sinceramente dimenticato, si può dire che è stata una fortuna!
Ti amavo – cantava in illo tempore alla chitarra un mio vecchio amico ormai pure lui sterminato – ti amavo, ma non lo sapevo quando stavo con te.
Perdere, perché un altro trovi.
Nessuno trova sulla sua via
che il perduto altrui.
Perché negare ad altri la fortuna
che altri hanno perduto?