Bretagna – Il rapimento di Ginevra

Camelot-blu

Com’era costume, il giorno dell’Ascensione re Artù tenne corte a Camelot, la più avventurosa tra le sue città e una delle più piacevoli; ma fu una corte triste e non meravigliosa come quelle di un tempo.
Certo, la stagione era bella: ovunque verdeggiavano i prati e i boschi, e sotto le fronde gli uccelletti cantavano la loro letizia; ma alcuna pulzella pensava a coglier rose: Galeotto era morto, Lancillotto partito da un anno …
Ah! quante lacrime furono versate prima che quella corte si sciogliesse!

Mentre il re usciva da messa, arrivò Lionello dal cuore senza freni. Invano, per un anno e un giorno, aveva percorso tutti i paesi alla ricerca di Lancillotto: non ne aveva appreso alcuna notizia; e la regina, ascoltandolo, ebbe sì gran duolo, che a fatica riuscì a celarlo.
Quello stesso giorno si apprese che la dama di Malehaut era morta d’amore per Galeotto, signore delle Isole Lontane. E il re disse che Lancillotto doveva essere morto di dolore al pari di lei per la perdita dell’amico.

«Certo – fece messer Galvano – ne ebbe ragione, ché con Galeotto sono scomparse dal mondo ogni prodezza e valentia!».
Di tali parole la regina fu molto adirata, ché non credeva che Lancillotto fosse morto: pensava che fosse malato o prigioniero; il cuore ben glielo diceva.
«Come, Galvano – disse – non resta dunque sulla terra alcun uomo che valga? Rimane almeno il re, vostro zio!».

Tutti tacquero, e il re si mise a pensare tristemente. Mentre così meditava, entrò un cavaliere tutto armato e cinto di spada, ma senza elmo, grande e forte di membra, le cavaliere-elmogambe lunghe e dritte, ben fornito di reni, i fianchi stretti, il petto alto e massiccio, le braccia grosse e lunghe, le ossa dure, le mani quadrate, le spalle larghe, la testa grossa e il viso disseminato di lentiggini.
Attraversò la sala a grandi passi, tenendo in mano, per contegno, un bastone e, arrivato davanti al re, disse in tono fiero e sì alto che fu inteso da tutti: «Re Artù, faccio sapere a voi e a tutti coloro che si trovano qui, che io sono Meleagant, figlio di re Baudemagu di Gorre. E vengo a difendermi contro Lancillotto del Lago, ché ho inteso dire che egli si duole che io l’abbia un tempo ferito a tradimento. Se egli l’afferma, che si faccia avanti, ché sono pronto a sostenere che l’ho colpito in giusta giostra e da buon cavaliere».

«Signore – fece il re – siete figlio d’uno degli uomini più valenti del mondo e, per amor suo, si deve perdonare il vostro errore. Ignorate dunque che Lancillotto non è qui, e che non v’è da lungo tempo? Se vi si trovasse, saprebbe ben rispondervi».
Lionello, cugino germano di Lancillotto, si alzò: voleva pregare il re di prendere il suo pegno e raccogliere la sfida di Meleagant, quando la regina lo trasse bruscamente indietro: «Siate certo – gli disse – che quando Dio ci avrà ricondotto vostro cugino, egli non si riterrà vendicato se non l’avrà fatto di propria mano».

Vedendo che Lionello si rimetteva a sedere, Meleagant sorrise con insolenza e, dopo aver atteso un momento, disse ancora: «Sire, ero venuto alla vostra corte a cercar cavalleria, ma non ne trovo davvero. Tuttavia, tanto farò che avrò battaglia, se è vero che qui si trovano tanti prodi quanti se ne dicono. Nel regno di mio padre ci sono molti prigionieri di questo paese di Logres, che mai avete potuto liberare. Affidate, se volete, la regina a uno dei vostri cavalieri perché la conduca nella foresta, e io lo combatterò. E se egli difenderà la regina contro di me, i vostri Bretoni saranno affrancati e liberi; ma se la conquisterò io, la porterò con me come cosa che mi appartiene».
«Bell’amico – fece il re – mi addolora che li abbiate in prigionia, ma, per quanto io sappia, non saranno mai liberati in cambio della regina!».

Allora Meleagant uscì dalla sala e, rimontato a cavallo, se ne andò verso la foresta al piccolo trotto, guardando spesso indietro per vedere se alcuno lo seguisse. Ma non v’era persona che non giudicasse grande follia mettere a repentaglio la regina come egli aveva proposto.
Artù-GinevraTuttavia Keu, il siniscalco, era andato ad armarsi nel suo alloggio; ritornò davanti al re, l’elmo in testa e lo scudo al collo.
«Sire – gli disse – io vi ho servito di buon cuore, e più per amor vostro che per le terre e i tesori, ma vedo bene che non m’amate più: così lascio la vostra compagnia e la vostra casa».

Il re amava il siniscalco di gran cuore.
«Come vi siete accoro – fece – che io vi amo meno? Se v’è stata fatta ingiuria, ditemelo e io vi porrò tal riparo che ne avrete onore».
«Siniscalco – disse la regina a sua volta – vi prego di rimanere per amor mio, e se v’è cosa che desiderate, ve la farò avere, quale che sia. Messere il re sarà garante della mia promessa».
E il re s’impegnò.
«Sire – riprese il siniscalco – vi dirò dunque qual è il dono da farmi: condurrò madama la regina dal cavaliere che è uscito di qui, lo combatterò e libererò le nostre genti, ché saremmo tutti disonorati se egli partisse dalla vostra dimora senza battaglia».

A tali parole, il re fu così adirato e afflitto che parve sul punto di perdere il senno. Ma la regina fu ancora più dolente. Ché il cuore le diceva che Lancillotto non era morto e, pensando che non lui l’avrebbe difesa, ma Keu, e che ella era in gran pericolo, poco mancò che s’uccidesse.
Eppure, quando il suo palafreno fu pronto, il re la mandò a cercare nella sua camera, dove ella piangeva di tutto cuore.
Passando ella guardò monsignor Galvano: «Bel nipote – disse – avevate ragione: dopo la morte di Galeotto è scomparsa ogni prodezza».
«Montate a cavallo, signora, e non temete – fece Keu. – Vi riporterò salva, se piacerà a Dio».

Ora, mentre s’allontanavano, messer Galvano dice al re: «Come, sire, tollerate che madama la regina sia condotta nella foresta da Keu il siniscalco, al quale sarà senza dubbio strappata! E così quel cavaliere la porterà via senza fatica!».
«Sì – disse il re – ché sarei disonorato se un uomo della mia casa intervenisse. Certo un re non deve rinnegare la parola data».
«Sire – riprese messer Galvano – avete commesso una grande leggerezza».
E decise che sarebbe andato a riconquistare la regina e a sfidare Meleagant fin nel regno di Gorre. Si fece armare e partì all’istante, seguito da due scudieri che conducevano per la briglia due bei destrieri.

foresta-cavalieri

Nella foresta, intanto, Meleagant attendeva con più di cento cavalieri. Quando vide arrivare Keu, li fece nascondere e affrontò il siniscalco: «Cavaliere – disse – chi siete, e chi è questa dama?».
«È la regina».
«Signora, toglietevi il velo, ché io vi veda».
La regina alzò il velo ed egli conobbe che era proprio lei. Allora propose a Keu d’andare in una landa vicina, la più bella del mondo per giostrare, ché la foresta era troppo fitta perché due cavalieri vi potessero combattere lealmente. E là prese il palafreno della regina per il morso.
«Signora, siete presa!».
«Non l’avrete sì facilmente», replicò Keu.

E tutt’e due, avendo preso campo, si gettarono l’uno sull’altro, la lancia sotto l’ascella, impetuosi come smerigli.
Ora, Keu aveva commesso tal follia, ché non aveva controllato le staffe, che erano logore vicino alle fibbie: si ruppero al primo urto, e così il pettorale del cavallo, di modo che egli volò a terra, la sella tra le cosce, e cadendo si contuse fortemente.
Allora Meleagant lo calpestò sotto le zampe del destriero. Così conquistò la regina Ginevra, quel glorioso, quell’ammazzasette! E la portò via, insieme al siniscalco svenuto, che due sergenti avevano adagiato in una lettiga.

Galvano si stava intanto avvicinando alla foresta, quando ne vide uscire il cavallo di Keu, che galoppava senza direzione, le redini rotte, le staffe spezzate. E, poco dopo, scorse un cavaliere, l’elmo in testa, che spingeva il destriero sfiancato e che, dopo averlo salutato, Galvano-Gawain-Camelotgli gridò da più lontano che poté: «Signore, concedetemi a prestito o in dono uno dei cavalli che i vostri scudieri conducono. Vi prometto in cambio il servigio che vorrete».
«Bel signore, scegliete quel che vi piace».
Senza rispondere, il cavaliere saltò sul destriero più vicino, diede di sprone e disparve nella foresta.

All’andatura a cui andava, non tardò molto a raggiungere Meleagant e le sue genti. E sappiate che costoro erano più di cento. Senza esitare, il cavaliere dà di sprone e si abbatte su di essi come uno smeriglio. Meleagant si volge contro di lui, ed entrambi si urtano sì rudemente che gli occhi mandavano faville; dal colpo, Meleagant è sì indebolito che per non cadere deve abbracciare il collo del destriero.
Ciò vedendo, i suoi cavalieri si gettano sullo sconosciuto, ma costui comincia a colpire a destra e a manca, sì duramente che a quanti riesce a raggiungere, il mento urta il petto, sì che otto uomini non avrebbero potuto far di più, e taglia scudi e elmi e giachi.

Allora Meleagant gli corre addosso urlando: «Siete morto!». Pure s’accontenta di colpire slealmente il cavallo dello sconosciuto, che s’accascia; poi s’allontana col suo gruppo, come gente che non ha tempo da perdere, portandosi via la regina e Keu il siniscalco.
Lo sconosciuto li inseguì correndo quanto poté e finché si ritrovò così stanco che dovette mettersi al passo.
Camminò a lungo, quand’ecco vide una carretta. Al timone stava seduto un nano piccolo, rozzo e accigliato, che teneva in mano una lunga verga.

«Nano – gli chiese dopo averlo salutato – sapresti darmi notizie di una dama che è passata di qui?».
«Parlate della regina? Desiderate molto avere sue notizie?».
«Sì», disse lo sconosciuto.
«Te la mostrerò domani se farai ciò che io t’indicherò. Sali su questa carretta e io ti condurrò dove potrai vederla».

Ora sappiate che, a quei tempi, la carretta era cosa sì ignobile che alcun cavaliere poteva salirvi senza perderne tutto l’onore. E quando si voleva punire un assassino o un brigante, lo si faceva montare sulla carretta, come oggi si fa con la gogna, e lo si portava Lancillotto-charettea spasso per la città. Ed è a quel tempo che si diceva: «Quando incontrerai la carretta, fatti il segno della croce perché non t’accada niente di male». Per questo lo sconosciuto rispose al nano che sarebbe andato ben più volentieri dietro che sopra la carretta.
«Mi giuri che, se vi monto, mi condurrai da madama la regina?».
«Ti giuro – disse il nano – che te la farò vedere domattina, a prima».
Allora lo sconosciuto montò sulla vettura senza più esitare.

E subito, ecco arrivare messer Galvano seguito dai suoi due valletti, di cui uno gli portava lo scudo e l’altro l’elmo, e conduceva per la briglia un destriero.
E a sua volta messer Galvano domandò al nano se avesse notizie della regina; e il nano rispose che, se avesse voluto salire sulla carretta, gliela avrebbe mostrata l’indomani mattina.
«Se piacerà a Dio, non salirò mai su una carretta – disse messer Galvano. – Signor cavaliere, affinché non ve ne derivi un’onta più grande, prendete questo cavallo che è molto buono, ché scommetto che sarete meglio servito da un cavallo che da una carretta».
«Non lo farà davvero – disse il nano – ché s’è impegnato a rimanervi tutto il giorno».
Messer Galvano non osò insistere, ma fece con loro il cammino. E andarono così fino a sera, finché arrivarono davanti a una bella città fortificata, ai margini di una foresta.

Quando la gente della città vide il cavaliere che il nano conduceva con sé, gli domandò quale fosse il suo misfatto. Ma egli non si degnò di rispondere; allora piccoli e grandi, vecchi e bambini, tutti gli corsero dietro e gli gettarono addosso del fango come si fa con colui che è vinto in campo chiuso.
E ciò addolorava molto monsignor Galvano, che malediceva l’ora in cui erano state inventate le carrette.
Al castello, una damigella riservò una grande accoglienza a Galvano, mentre al cavaliere della carretta disse: «Signore, come osate giungere qui su una carretta, come un criminale? Quando un cavaliere si è tanto disonorato, lascia il mondo e se ne fugge in luogo ove non sia mai più riconosciuto!».
Ma neanche a questo lo sconosciuto replicò parola; solo domandò al nano quando avrebbe visto ciò che gli era stato promesso.
«Domani, a prima. Ma per questo bisogna alloggiare qui!». […]

Lancillotto-carretta-manoscritto

Quando spuntò l’alba e il sole cominciò a vincere la rugiada, il nano entrò nella camera e si mise a gridare: «Cavaliere della carretta, io sono pronto a mantenere il mio giuramento!».
Subito lo sconosciuto salta giù dal letto in brache e camicia com’è: e il nano lo conduce a una finestra e gli dice di guardare. Egli guarda, e crede di veder passare la regina, e Meleagant che la conduce, e Keu il siniscalco portato su una lettiga. E guarda la regina molto teneramente fintanto che la può vedere, e si sporge dalla finestra, sempre più intento a ciò che guarda, al punto che il suo corpo è fuori fino alle cosce e poco manca che cada.

Fortunatamente, in quel momento entrava messer Galvano, e la damigella con lui. Vedendo lo sconosciuto in gran pericolo, egli l’afferra per il braccio, lo tira indietro e, poiché il viso gli si è scoperto, lo riconosce all’istante.
«Ah! bello e dolce signore – gli dice – perché vi siete così nascosto a me?».
«Avrei avuto vergogna d’esser riconosciuto, ché ho avuto l’occasione di conquistare ogni onore liberando madama e, per colpa mia, ho fallito».
«Certamente non può essere per colpa vostra! Perché dove voi fallite, non v’è alcuno che riesca».

Quando la damigella vide che messer Galvano tanto onorava il cavaliere della carretta, gli chiese chi fosse quello sconosciuto. Egli rispose che non l’avrebbe saputo da lui per il Morgana-fatamomento, ma che era il migliore tra i valenti.
Allora ella interrogò lo sconosciuto.
«Damigella – egli fece – io sono il cavaliere della carretta».
«È un gran peccato. Ma, anche se vi ho fatto dei rimproveri, ora non devo farvi torto. Qui vi sono buoni e bei cavalli: scegliete il migliore che potrete trovare, e la lancia che vorrete».
«Molte grazie, damigella – disse messer Galvano – ma non riceverà il destriero da altri che me, finché ne avrà uno, e ne ho due buoni e belli. Egli ne monterà uno, ma prenderà la lancia che gli offrite, se non preferirà la mia».
Dopo di che, portati i cavalli, lo sconosciuto ne inforcò uno, messer Galvano l’altro, e tutt’e due presero congedo dopo aver raccomandato a Dio la damigella.

Ora, se domandate come si chiamava il cavaliere sconosciuto, posso ben dirvi che era messer Lancillotto del Lago.
Lasciato il Sorelois, egli era sì dolente di non aver potuto trovare Galeotto e sì afflitto di credersi dimenticato dalla regina che, in breve, mangiò e dormì sì poco che la testa gli si svuotò e uscì di senno.
Errò per tutta l’estate, e fino a Natale. Infine, la vigilia della Candelora, la Dama del Lago lo trovò che giaceva in un cespuglio nel cuore della foresta di Tintagel, in Cornovaglia. Lo tenne con sé per tutto l’inverno, e la Quaresima; e, con la promessa che ella gli avrebbe fatto avere la gioia più grande, lo guarì sì bene che egli si ritrovò più forte e più bello di prima.
Ed ella s’era guardata dal fargli sapere della morte di Galeotto.

Cinque giorni prima dell’Ascensione, gli preparò il cavallo e le armi.
«Bell’amico – gli disse – s’avvicina il momento in cui riavrai ciò che hai perduto. Sappi che il giorno dell’Ascensione, all’ora nona, ti converrà trovarti nella foresta di Camelot. Certo, se tu non vi fossi a quell’ora, preferiresti la morte alla vita».
«In nome di tutti i santi – disse Lancillotto – vi sarò, a piedi o a cavallo!».
E andò direttamente nella foresta, dove giunse per vedere Meleagant combattere Keu e portarsi via la regina. Il suo destriero era così stanco che non poté arrivare in tempo, e fu grazie al destriero di monsignor Galvano che attaccò i cento cavalieri per salvare la sua dama.
Ora, perciò, doveva tentare di riconquistarla.

(Il cavaliere della carretta, 1-5)