Santillana – La storia da riscrivere

Ovunque, nel mondo cosiddetto libero, a ogni livello, si ritrova il trauma psichico, sempre diverso, e così mi si dice anche dei paesi delle Democrazie Progressive. Sembra davvero essere il prezzo che si paga per la mobilità e la libertà.
Qualche progresso c’è stato. Sissignori. Da ogni parte si spera che il vecchio detto homo homini lupus sia per recedere nel passato. Ed è ben vero che con l’espandersi di quella surreal-uovo-sodoche direi la comunione empatetica, o l’attenzione al fattore psicologico, si venga attenuando quella crudeltà sconsiderata che si potrebbe anche chiamare col nome non spregiativo di animale, che si tratti di Tamerlano o degli Ateniesi a Milo, e che si estende al contadino che picchia le bestie, al gatto col topo, al ragno con la mosca, alla vespa con l’ospite prescelto per le sue uova. Insomma, al comportamento irriflessivo che caratterizzava i generali sul Carso.

Si profila adesso il comportamento proprio dell’uomo, che si tratti di Stalin coi suoi «impietrati» o degli SS nei campi di sterminio. Si bada a traumatizzare, a degradare, a distruggere l’intelligenza con intelligenza, con direttive ben studiate, servendosi di persone scelte per la loro nevrosi, psicosi o altri comportamenti degeneri.
Homini humanum genus homo è forse il programma delle magnifiche sorti e progressive, come nel bene così anche nel male. E vi è forse una vendetta poetica nel vedere come proprio quella élite fra cui si creò la psicoanalisi si sia vista rifiutare di colpo la condizione umana, considerata non già come formata di schiavi o bestie, nemmeno come di vermi, ma come cosa anti-umana, da estirparsi attentamente fra tormenti studiati con intelligenza simbolica.

E fra questi l’incertezza traumatizzante, la tecnica del Nacht und Nebel fu attuata con amorosa cura, certo da gente che aveva riflettuto al Processo di Kafka.
Ecco perché ho parlato, per quanto spaventoso, di un certo elemento poetico nella vendetta; fra le vittime dei campi di concentramento, cedevano e si disfacevano per primi quelli che erano «eterodiretti» o, diciamo, ricettivi alle influenze sociali, mentre resistevano quelli che si erano forgiati una personalità centrata e chiusa all’antica, di carattere stoico.

lager

Se così ci appare il passato vicino, o il prossimo futuro, c’è altro che possiamo scoprire altrove?
Come ebbe a dire Galileo, si può avere nozione di cose remotissime da noi, e talvolta per avventura, più esatta che non delle vicine. Pensava allora alle proprietà matematiche che si riscontrano nell’universo.
Ma lo stesso vorrei dire, almeno per traslato, di certi aspetti dei tempi remoti della nostra storia, o piuttosto protostoria: perché lo spirito di questa gente di cui non sappiamo quasi nulla, era stato conquistato da una invenzione meravigliosa, quella del cosmo.

E dico invenzione perché, in fondo, che ne sappiamo anche oggi dell’universo, e che cosa abbiamo a che fare con esso?
Ma in quella fase arcaica, l’idea viveva negli uomini, era presente in ogni momento della loro vita. Era un’idea, come dice sant’Agostino, di Dio stesso, più lontana che non son le stelle, più vicina all’uomo che non è il battito del suo polso. Ad essa faceva capo ogni aspetto della vita e di ciò che ci attornia.

Non posso che accennare qui a quanto i miei collaboratori e io abbiamo impreso a mostrare, ma già ci appare chiara la fisionomia di questo continente sommerso dall’intelletto, e ci si rivela l’enorme sforzo di organizzazione intesa a chiarire i fenomeni celesti, a collegarli fra di loro e anche a noi, ancora prima che esistesse una scrittura; per cui la teoria doveva esprimersi attraverso un linguaggio tecnico che più tardi ci surreal-orologio-goticopervenne in forma di mito.

L’origine sembra potersi rintracciare in un cerchio ristretto di pensatori audaci, vissuti in Mesopotamia verso il V millennio a. C., donde l’idea si diffuse per il globo per vari itinerari, in vari modi che gli etnologi oggi inglobano sotto il nome ormai convenuto di stimulus diffusion.
Se si pensa come lo sciamanesimo portò con sé pensieri già formati attraverso la catena di tribù dell’Asia Centrale, dall’India fino alla Lapponia, ci si può formare un concetto di come si trasmettessero i germi teoretici.

Non stiamo a sottilizzare troppo sulle date.
L’evoluzionismo inteso in senso volgare o volgarizzato vorrebbe ravvicinare tutto alle scadenze storiche, lasciando l’umanità precedente allo stato brado: ma c’è, per servirmi di un’espressione usata da Zolla, una curvatura del tempo che ci nasconde gli eventi remoti.

Nel Rinascimento greco, il pensiero a cui accenno diventò il pitagorismo, fonte di ogni metafisica, e del pensiero matematico stesso.
In tempi assai più antichi, però, nel periodo neolitico, si è rivelato quello che direi un proto-pitagorismo, un insieme di concezioni cosmografiche in cui terra e cielo s’incontrano, in cui cifre, ritmi, alfabeti, giochi come gli scacchi e i quadrati magici, le qualità delle cose, le proprietà degli alberi e delle piante, il destino degli uomini, i poteri degli dèi e degli astri, coi miti del loro divenire, s’intrecciano e s’intricano, direbbe Rimbaud «comme un opéra fabuleux».

Mi è venuta in mente quella parola nell’analizzarli. E quel che c’è di più favoloso in quest’impresa, è il potere del pensiero organizzatore divenuto esso «un opéra fabuleux», che si costruisce storie rigorose e coerenti per organizzare gli astri, i loro rapporti e le loro guerre, che audacemente sottomette il tutto alle misure e al numero, traccia allineamenti siderali per «stabilire la terra e agganciare il cielo», secondo il testo egizio – così che tutto venga in ordine.
O, per dirla coi Cinesi, far così che fra le misure celesti e i toni della siringa non ci sia lo spessore di un capello. È questo il potere della fantasia esatta, come lo chiamerebbe Leonardo.

cosmo-pennello

Ma in tutto questo, l’uomo dove rimane?
Si trova a essere tutto e nulla, proprio come si conviene. L’anima sua trascorre per l’universo, è della sua essenza. La persona dell’uomo invece rimane presa nel gioco del destino.
Quando Marcel Griaule, che ci ha rivelato civiltà ignote nel Sudan occidentale, chiedeva ai suoi esperti del luogo di parlargli un po’ della terra abitata, di dirgli quel che sapevano dei paesi lontani, si meravigliava di vederli sempre indicare il cielo. Finché – finalmente capì che per loro la «terra abitata» significava la zona dell’Eclittica.

Solo lassù vivono e si muovono i soli abitanti veri, cioè i pianeti. Poiché solo degli dèi si può dire in verità che esistono e sono.
L’uomo si rende ben conto d’esserci, e di dover badare alle sue cose, ma si sente un po’ come il sogno di un’ombra, se non attraverso gli atti rituali che lo uniscono al mondo «vero».
Vita e pensiero di selvaggi, si dirà.
Ma qui si ritrova chiarità e pace.

Non mi viene in mente che un solo documento della nostra letteratura che ci porti a contatto con questo mondo strano. Dico «nostro» perché insomma Platone è dei nostri. E nel suo Timeo c’è ancora il mondo arcaico chiaramente espresso. Platone era del nostro Schloe-pescatore-lunamondo e di quell’altro, l’ultimo degli arcaici e il primo dei moderni, essere bilingue e bifronte come il dio Termine.
Ora, se guardiamo a questo quadro del Timeo che si dice pitagorico ma che contiene anche elementi assai più antichi, scorgiamo un universo implacabile. Le nostre anime vengono dalle stelle, essendo della medesima natura; ma il Demiurgo nel creare il mondo le ha balestrate nel tempo. Le ha piazzate sugli «strumenti del tempo» cioè i pianeti, e lì si fa il loro addestramento all’esistenza che devono condurre una volta trapiantate in terra con l’attrezzatura di quel dato pianeta.

Così la loro natura è data alle anime una volta per tutte, con le loro servitù e le loro passioni: è l’impronta iniziale da cui devono liberarsi via via per tornare pure e disposte a salire alle stelle.
Come farà a riordinarsi lo sprovveduto che viene da Marte, quel pianeta violento e non calcolabile?
Perché in quel mondo di fati vi è un solo criterio del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto. Non conta la preghiera o la speranza, non vi si tratta che di esattezza, di puntualità agli appuntamenti del Καιρός: la periodicità giusta che vi fa cadere a posto, lì dove il fato vi attende, o altrimenti si è ripresi nella bufera del tempo.
Fa pensare a quella storia di Kafka: la porta era lì, aperta per noi proprio per oggi, e adesso si richiude. Chi ha mancato all’appuntamento è perduto, deve andare errando attraverso i secoli, cercando il ritorno.

Questo sì che è un universo astronomico. Per noi, abbastanza spaventoso. Eppure è in esso che lo spirito arcaico ritrovava la sua pace; e ve la trovò per dozzine di secoli, quanti ne corrono dalla Grande Piramide fino a oggi.
Non sono cose facili a capire, questa accettazione totale, questo sottomettersi alla necessità, se non nelle grandi menti dei teorici che avevano formato il sistema.
Ma si trattava di necessità divina.
E possiamo forse comprendere il calvinista, pur così vicino a noi, che si umilia a esser surreal-pellicanoinspiegabilmente dannato? O possiamo comprendere il puritano wahhabita? La risposta è pur sempre quella: Islam, Abbandono.

Eppure sono proprio questi i messaggi che hanno scatenato le più grandi energie libere della storia.
Energia «stressata», al massimo, quando, come nel calvinista, l’Abbandono è doppiato da un dubbio terrificante quanto al proprio destino individuale.
Mentre nel sistema arcaico, non c’è capriccio sovrano della divinità, come non c’è d’altra parte da pensare a misericordia. Tutto è scienza.
Necessità ho detto, dipendente da forze divine che esse stesse non hanno libertà di scelta, che si identificano con le leggi naturali. […]

«Se io fossi un gatto – scriveva Albert Camus – apparterrei a questo mondo».
Ecco gente che appartiene a questo mondo, nelle dimensioni astronomiche, senza dubbi né fratture. Non sanno nemmeno di «essere» (ho detto che per essi chi «è» sono gli astri sull’Eclittica), e quindi tanto più nettamente «sono».
Tutte le angosce di Sartre nella Nausea non li toccherebbero per nulla. Hanno in sé tanto «essere» quanto quella radice d’albero che riduce alla disperazione il protagonista.
Qui davvero non si parla di taedium. Come non è il caso di parlarne nella civiltà tradizionale dell’India coi suoi riti e la sua bhakti, trasmessi anch’essi per via di meditazioni cosmologiche – anche se in quella civiltà così evoluta dobbiamo pur ammettere che si rivela il fatto grave: dall’alto in basso, manca di sense of humour. Manca il «reo dolor che pensa».

Qui insomma ci ritroviamo nel noto.
Partendo dal passato remoto, ci siamo ricollegati via via a situazioni più prossime, ovunque regni la costrizione accettata, l’obbedienza assoluta.
Lo sappiamo che quella è pace. Lo sanno gli psichiatri e i neurologi, quali siano i benefici dell’assenza di dubbio e di libertà, ma anche di sense of humour.
Mi torna a mente quel che scriveva quello scontento di Magalotti al suo Granduca: era entrato in convento, aveva accettato l’umiltà e la disciplina, ma quello che non gli andava giù era il modo melenso di quei cari padri di darsi un po’ di buonsenso innocente.
Niente da fare, siamo degli intossicati.

(Santillana, Fato antico e fato moderno)