Alcuni indù avevano portato un elefante:
lo esibirono, ma in una casa al buio.
Parecchie persone entrarono, a una a una,
nel buio per vederlo.
Non potendo vederlo con gli occhi,
lo tastarono con la mano.
Uno che gli pose la mano sulla proboscide disse:
«Questa creatura è come un tubo per l’acqua».
Un altro gli toccò l’orecchio:
gli parve simile a un ventaglio.
Avendogli preso la zampa, un altro dichiarò:
«L’elefante ha la forma di un pilastro».
Dopo avergli posato la mano sulla schiena, un altro affermò:
«In verità, questo elefante è tal quale un trono».
E così, ogni volta che qualcuno sentiva una descrizione,
si faceva un’idea dell’elefante in base alla parte toccata.
Le loro affermazioni variavano secondo quanto avevano percepito:
l’uno lo chiamava dâl, l’altro alif.
Se ognuno di loro fosse stato munito di una candela,
le loro parole non avrebbero differito.
L’occhio dello sguardo è tanto limitato quanto il palmo della mano
che non poteva abbracciare la totalità.
L’occhio del mare è una cosa, un’altra ne è la schiuma;
tralascia la schiuma e guarda con l’occhio del mare!
Giorno e notte, provenienti dal mare, si muovono le falde di schiuma;
tu vedi la schiuma, non il mare. Non è strano?
Urtiamo gli uni contro gli altri come barche,
i nostri occhi sono accecati, l’acqua però è chiara.
O tu che ti sei addormentato nel battello del corpo,
hai visto l’acqua: contempla l’Acqua dell’acqua!
L’acqua ha un’Acqua da cui prorompe,
lo spirito uno Spirito che lo richiama!
(Jalâloddîn Rûmî, Mathnawî)