Matako – Origine delle macchie lunari

Il Sole cacciava le anitre.
Assunte le sembianze di anitra, armato di una rete, si tuffava nella laguna e sommergeva anitre-pescigli uccelli. Ogniqualvolta ne catturava uno, l’uccideva senza che le altre anitre se ne accorgessero.
Quando ebbe finito, distribuì le sue anitre a tutti gli abitanti del villaggio e diede un vecchio volatile al suo amico Luna.

Scontento, questi decise di cacciare per conto suo, impiegando la stessa tecnica di Sole.
Ma nel frattempo le anitre erano diventate diffidenti. Esse fecero i loro bisogni e obbligarono Luna, camuffato da anitra, a imitarle.
A differenza di quelli delle anitre, gli escrementi di Luna emanavano un gran fetore. In questo modo gli uccelli riconobbero Luna e l’attaccarono in massa. Gli graffiarono e gli scorticarono il corpo, cosicché la loro vittima fu quasi sventrata.
Le macchie della Luna sono le cicatrici blu che le unghie delle anitre hanno lasciato sul suo corpo.

***

Métraux cita due varianti di questo mito, una delle quali, chamacoco, sostituisce le anitre con degli «struzzi»; l’altra, di provenienza toba, sostituisce la luna con la volpe ingannatrice.
Nonostante le loro differenze, tutti questi miti formano un gruppo di cui si può definire l’ossatura senza tradirne la complessità. Certi miti rendono conto dell’origine delle macchie lunari o della luna stessa: corpo celeste che, soprattutto sotto il suo aspetto maschile, la filosofia naturale degli Indiani d’America rende responsabile delle mestruazioni.
Anche gli altri miti concernono un processo fisiologico, consistente nell’allungamento o nell’accorciamento del pene inteso in senso proprio o in senso figurato, e parimenti associato alla luna, assunta questa volta nel suo aspetto femminile.

luna-donna

Si tratta pertanto sempre di un evento definibile in riferimento alla maturità fisiologica, riguardante ora il sesso femminile, ora il sesso maschile, e che i miti descrivono, in quest’ultimo caso, dal diritto o dal rovescio.
Impotente o dotato di un pene troppo corto, l’uomo è simbolicamente nell’infanzia oppure vi ritorna. E quando se ne allontana in modo eccessivo o precipitoso, il carattere abusivo di questo distanziamento si manifesta sia con un pene troppo lungo, sia con escrementi (troppo) puzzolenti.
Cosa significa ciò, se non che nell’uomo le evacuazioni puzzolenti corrispondono allo stesso tipo di fenomeno che, nella donna, è illustrato più normalmente dalle mestruazioni?

Se questa ipotesi è esatta, risulta che Haburi, l’eroe del mito Warrau, percorre un ciclo inverso rispetto a quello percorso da una ragazza dalla nascita alla pubertà. Patologicamente adulto, egli sarà ricondotto dalle lontre alla normalità della sua infanzia, mentre una ragazza deve all’intervento della luna il raggiungimento di una maturità normale, ma segnalata dall’arrivo delle mestruazioni, le quali possiedono intrinsecamente un carattere patologico, giacché il pensiero indigeno considera il sangue sessuale come una lordura o un veleno.
Questo andamento regressivo del mito conferma un carattere che noi abbiamo luna-rossariconosciuto sin dall’inizio a tutti i miti che appartengono allo stesso gruppo e che ora verificheremo in un altro modo.

Infatti, non ci siamo occupati ancora delle anitre. Questi uccelli occupano un posto particolarmente importante nei miti del Nordamerica e, per essere rigorosi, dovremmo costruire il loro sistema basandoci sulla mitologia dei due emisferi.
Al punto in cui ci troviamo, questo tentativo sarebbe però prematuro e, limitandoci esclusivamente al contesto sudamericano, ci accontenteremo di presentare due ordini di considerazioni.

In primo luogo, il mito di Haburi fa di un eroe protetto da una rana l’ordinatore involontario di un settore del regno animale. Ogni tipo di piroga che egli inventa gli è rubato da anitre di una specie determinata che, appropriandosene, acquistano la capacità di nuotare nonché i loro caratteri distintivi.
Emerge così un rapporto diretto di parentela fra il mito di Haburi e quello della freccia rotta, dove un altro cacciatore, anch’egli protetto da una rana, diveniva l’autore involontario dell’organizzazione del regno animale, assunto questa volta nella sua totalità.
Dall’insieme degli animali della «freccia rotta», gerarchizzati per grandezza e per famiglia, si passa, nel mito di Haburi, a una famiglia animale particolare, differenziata in varie specie. Da un mito all’altro, perciò, l’ambizione tassonomica si impoverisce sino a isterilirsi. Rimane da vedere perché e come.

L’organizzazione zoologica e naturale alla quale provvede il cacciatore della «freccia rotta» risulta da una carenza culturale: non si sarebbe mai prodotta se l’eroe non fosse stato un cacciatore incapace.
Viceversa, nel mito di Haburi, essa risulta da una acquisizione naturale: quella dell’arte della navigazione, la cui invenzione era richiesta affinché le anitre potessero incorporare degli oggetti tecnici – le piroghe – a cui devono il loro aspetto attuale.
Questa concezione implica che le anitre non appartengono al regno animale a titolo originario. Derivate da opere culturali, testimoniano, nel seno stesso della natura, di un regresso locale della cultura.

surreal-anitra-violino

Taluni ci sospetteranno di sollecitare il mito. Tuttavia ritroviamo la stessa teoria in un mito tupi proveniente dal corso inferiore del Rio delle Amazzoni, in cui si narra che, in seguito alla violazione di un certo divieto, le cose si trasformarono in animali: la cesta generò il giaguaro, il pescatore e la sua piroga si tramutarono in anitra: «dalla testa del pescatore nacquero la testa e il becco, dalla piroga il suo corpo e dalle pagaie le sue zampe».
I Karaja raccontano che il demiurgo Kanaschiwué diede all’anitra una piroga d’argilla in cambio della barca metallica a motore che gli cedette l’uccello.
Nel mito del diluvio dei Vapidiana un becco di anitra trasformato in piroga permette a una famiglia di galleggiare.

Analogamente, un mito taulipang trasforma un uomo in anitra dopo che egli è stato privato degli strumenti magici, i quali lavoravano la terra da soli. Se i suoi cognati non si fossero resi colpevoli della scomparsa di questi prodigiosi utensili, gli uomini non avrebbero avuto bisogno di faticare nei campi.
Il parallelismo con la storia di Haburi è manifesto: Haburi fa le anitre e poi scompare con le arti della civiltà; nell’altro caso, l’eroe diviene anitra quando scompaiono le arti di una «superciviltà», termine che qualifica perfettamente le arti negate agli Indios da Haburi, giacché queste arti sono quelle dei Bianchi.

L’accostamento di questi miti mostra quindi che non è da attribuirsi al caso né a un capriccio del narratore il fatto che nei miti le anitre compaiano come piroghe degenerate surreal-anitra-bimbain animali.
Nello stesso tempo, comprendiamo perché in un mito, sul cui andamento regressivo abbiamo spesso insistito, la parte dell’eroe in quanto ordinatore della creazione si trova limitata a un ambito ristretto: quello in cui, secondo le idee indigene, questa creazione assume proprio la forma di un regresso.
Il fatto che questo regresso si effettui dalla cultura verso la natura pone un altro problema di cui, per rimanere qui alle anitre, rimanderemo per ora la soluzione.

Infatti, se le anitre sono congruenti con le piroghe sotto l’aspetto della cultura, nell’ordine della natura esse mantengono un rapporto di correlazione e di opposizione con i pesci. Questi nuotano sott’acqua, mentre i miti che stiamo discutendo spiegano perché le anitre, nella loro qualità di ex-piroghe, nuotino sull’acqua.
Pescatori di pesci nei miti mundurucu, il sole e la luna sono pescatori di anitre nei miti del Chaco. Pescatori e non cacciatori, poiché i miti hanno cura di descrivere la tecnica impiegata: le anitre sono pescate con la rete da un personaggio che ha assunto le loro sembianze e nuota fra di esse. Ciò che più conta è che questa pesca si fa dall’alto in basso: gli uccelli catturati sono trascinati verso il fondo, mentre la pesca dei pesci, e più precisamente quella praticata dalle lontre, si fa dal basso in alto: togliendo i pesci dall’acqua per deporli sulla riva.

Haburi è descritto esclusivamente come cacciatore d’uccelli. Quando ne fallisce uno per la prima volta, egli si rannicchia e lascia cadere i suoi escrementi nel luogo in cui mangiano le lontre.
Questa «anti-pesca» dei pesci, produttrice di escrementi anziché di cibi, si fa quindi dall’alto in basso come la pesca delle anitre, e non dal basso in alto. E offende le lontre, nella misura in cui esse sono delle pescatrici di pesci.

È quindi importante sapere se esiste un termine che abbia coi pesci un rapporto correlativo a quello che le anitre hanno con le piroghe. Un mito già evocato ce lo fornisce, e proprio attraverso la lontra.
Quando i gemelli, che non conoscevano l’esistenza delle donne, pretesero di soddisfare il cacciatoreloro appetito sessuale negli occhi della lontra, questa spiegò loro di non essere una donna, aggiungendo che le donne si trovavano nell’acqua, dove gli eroi culturali avrebbero dovuto pescarle.

L’identificazione delle prime donne con dei pesci o la loro decisione di trasformarsi in pesci dopo aver litigato coi mariti, sono temi illustrati da miti così numerosi che siamo dispensati dal farne l’inventario.
Come le anitre sono ex-piroghe, così le donne sono ex-pesci.
Se le prime costituiscono un regresso della cultura verso la natura, le seconde sono un progresso della natura verso la cultura, e lo scarto fra i due regni rimane però piccolissimo in ogni caso.

Si spiega così perché le lontre, che si nutrono di pesci, abbiano con le donne dei rapporti caratterizzati dall’ambiguità e dall’equivoco. In un mito bororo le lontre si fanno complici delle donne contro i loro mariti, e le riforniscono di pesce a condizione che cedano ai loro desideri.
Viceversa, un mito yupa precisa che la lontra pescava per l’Indio che l’aveva adottata, ma si rifiutava di rendere lo stesso servigio alle donne.
Pertanto, le lontre sono ovunque degli uomini, o parteggiano per l’uomo; di qui lo sdegno della lontra del mito waiwai, quando i due sprovveduti vogliono servirsi di lei come di una donna, agendo nuovamente alla rovescia.

Abbiamo visto che, inventando la piroga. Haburi differenzia le specie delle anitre: ordina quindi la natura retroattivamente e parzialmente. Ma nello stesso tempo contribuisce in modo decisivo alla cultura, e si potrebbe credere che sotto questa angolatura il carattere regressivo del mito si trovi smentito.
Le vecchie versioni di Brett aiutano a risolvere questa difficoltà.
Nella trascrizione di questo autore, Haburi porta il nome di Aboré, ed è presentato come il «padre delle invenzioni». Se egli non avesse dovuto fuggire la vecchia sposa, gli Indios avrebbero goduto di molti altri frutti del suo ingegno, in particolare dei vestiti tessuti.

Una variante segnalata da Roth arriva anzi a raccontare che la fuga dell’eroe termina nel paese dei Bianchi (nell’isola di Trinidad), che così gli sono debitori delle loro arti.
Se si dovesse identificare Haburi o Aboré dei Warrau col dio che gli antichi Arawak chiamano Alubiri o Hubuiri, si dovrebbe annettere un significato dello stesso ordine all’osservazione di Schomburgk, secondo cui «questo personaggio non si preoccupava molto degli uomini». Escludendo la navigazione, unica arte della civiltà che gli indigeni sembrano attribuirsi, è qui in gioco proprio la perdita della cultura – o di una cultura superiore alla loro.

(Lévi-Strauss, Dal miele alle ceneri)

***

Dalì-baccanale

Strana filosofia è questa. Una filosofia senza «essere».
Come mai? se tu lo chiedi agli indigeni stessi, quelli, di sicuro, ti rispondono: l’Essere, Haburi l’ha «insegnato» solo ai Bianchi. La filosofia dell’Essere è un’«arte» a cui non ci ha istruiti. Non ha fatto in tempo. È dovuto scappare via da noi, per colpa di quella vecchia Rana che lo perseguitava. L’«arte della fuga» (nel mitologema dell’Essere) un fuggitivo non può impartirla a coloro da cui fugge. Ecco tutto.

E allora, in mancanza dell’Essere, nello slargo di questa «carenza culturale», chi resta, chi non fugge appresso ad Haburi (il Racconto dice che il Bambino fuggì da solo!), deve scontare la sua pena, e sudare non so quante proverbiali camicie per mettere ordine nel molteplice della Natura.
Perciò, per cominciare a sbrogliare l’infinita matassa, chi è a caccia di sapere tenga fermo questo punto: che la Luna, a seconda dei casi, è ora maschio, ora femmina: se è maschio provoca le mestruazioni nelle femmine, se invece è femmina allunga o accorcia il pene ai maschi – e questo in entrambi i sensi, in senso proprio e in senso figurato (realmente e simbolicamente).

La caccia è un’arte per intromettersi realmente nella Natura. Solo un cacciatore inetto è chiamato a forzare simbolicamente lo scrigno dei segreti naturali.
Un’arte della caccia «imperfetta», qual è quella dell’eroe della «freccia rotta», è una cacciatore-aquilacarenza culturale – per rimediare alla quale il cacciatore deve mettere in ordine (di grandezza e di parentela) tutte le specie animali.
Haburi era una volta un bravo cacciatore, non aveva bisogno di simboli per orientarsi nel bosco. Un giorno però fallì il bersaglio, e quel primo fallimento fu l’inizio di un’altra vita, per lui. Una vita passata a tentare il «ritorno» a un’infanzia non vissuta, all’infanzia che gli era stata scippata dalla Rana.

In compenso, però, Haburi conosceva un’altra «arte», l’arte della navigazione. Ne aveva anzi una conoscenza così «perfetta», che perfino la Natura ne ha preso beneficio. Haburi ne aveva un «sapere» così immediato, congenito e naturale, che la Natura ne partecipava, non solo a dare, ma anche a prendere.
Un’arte «perfetta» è una ricchezza culturale che «fa bene» alla Natura – che permette cioè alla Natura di conquistare, di acquisire a sé gli «oggetti tecnici» dell’arte in questione.

Se l’uomo non avesse «immaginato» e insieme «realizzato» le sue immagini, pardon: le piroghe con cui navigare lontano dalla Rana – le anitre non avrebbero imparato a nuotare. Come tutti gli uccelli, avrebbero continuato soltanto a volare.
Perfetta è l’arte immaginata e simultaneamente realizzata. La freccia è già sul bersaglio. È quando le serve del tempo per giungere alla meta, è quando deve fare tutto un lungo giro per andare, se mai, a segno, è allora che la freccia di Haburi per la prima volta fallisce.

È questo fallimento che lo «respinge», che lo rigetta all’indietro, in quel «movimento regressivo», che il Racconto rende simbolicamente col pene che si accorcia all’adulto. Movimento di ritorno all’infanzia del mondo, a quando le «cose» e le «immagini», la Natura e la Cultura, erano ancora sorelle gemelle e simultanee.
Non si davano la caccia, allora, né avevano bisogno di ripescarsi da una casa in fondo al mare. Non c’era inconscio, allora – quando al bambino il pene era ancora breve e corto, e la bambina ancora non aveva evacuato il suo primo sangue mestruale. Insomma: quando la Luna non aveva ancora cominciato a combinare i nostri guai.

rana-topo-lucertola

È ad allora, alla temporalità di quel tempo, del tempo come scorreva allora – che il Mito ci riporta, come al luogo della Grande Separazione, e all’evento che colà avvenne: all’aprirsi di una vastità, di una distanza che realmente nel maschio, in mancanza di un «cifrario dell’Essere», non ha altro modo di manifestarsi che nell’allungamento del pene, e nella femmina nell’avvento delle mestruazioni.
Se c’è qualcosa di «patologico», è proprio questa (lunatica) «distanza», che spinge, come dicono i Bianchi, il Soggetto del Racconto in posizione eccentrica, «fuori di sé», alla periferia del suo linguaggio «animale».

Ripeto: nella filosofia sudamericana, se mai vi è contemplato qualcosa di «patologico», non è l’infanzia, né la «regressione» all’infanzia che il Mito ci suggerisce. Patologico è l’«adulto». Non il bambino, ma chi se lo contende. Patologico è Giaguaro, patologica è Rana – ma non Haburi. Anzi, Haburi è troppo «sano» per poter rimanere qui, nelle nostre «passioni», nelle nostre «cattive inclinazioni».