Gli illustri Narti si erano riuniti e, seduti sulle loro sedie di legno scolpito, tenevano consiglio sulla situazione del loro popolo.
«I Narti erano veramente i Narti, il cielo non osava tuonare su di loro, quando sapevano morire per il loro popolo ed erano capaci, tutti, di essere padroni di sé. I Narti erano veramente i Narti, quando dalla loro bocca non usciva che la verità. Il nostro popolo era veramente un popolo, quando essi andavano dovunque a testa alta!».
Così parlò uno degli anziani dell’assemblea.
«Gli altri uomini erano gelosi dei Narti, la gloria dei Narti risuonava lontano, finché hanno saputo tenere a freno la loro ingordigia e si sono guardati dall’ubriachezza; finché non hanno versato, come fanno quelli di oggi, il putridume dei loro morti sui cibi e le bevande e, negli eccessi dei loro banchetti, non hanno perduto il pudore, spezzato la loro intelligenza e il loro valore».
Così parlò un altro fra gli anziani.
«I nostri uomini sono stati degli uomini, finché i giovani hanno rispettato e onorato gli anziani, finché la concordia ha regnato tra loro, né alcuno avrebbe rischiato il proprio onore per un amorazzo».
Così parlò un terzo tra loro.
Furono portati tre pezzi di panno, tesori preziosi ereditati dagli avi.
Uryzmæg ne prese uno e disse: «Gli anziani dei Narti riconoscono degno di questo tesoro colui che, tra i giovani, si distingua per l’intelligenza, il valore e le buone maniere. Chi oserà presentarsi come pretendente?».
Il narto Hæmyts si alzò e disse: «Sono io che otterrò questo pazzo di panno!».
«Ma come? – dissero i Narti. – Tu hai sempre avuto paura della tua ombra e, fino ai giorni della tua vecchiaia, non hai mai osato guardare un uomo in faccia!».
«Voi dite il vero, o migliori dei Narti! In me non troverete niente di cui possa vantarmi. Ma, con tutto il rispetto, nemmeno troverete tra i Narti uno più coraggioso e più valoroso di mio figlio Batradz. Mai egli farà o tollererà qualcosa di vile».
Uryzmæg prese il secondo pezzo di panno e disse: «Gli anziani tra i Narti faranno l’onore di questo tesoro a colui che meglio padroneggia la propria ingordigia e che sa portare con dignità, fino in fondo, quali che siano le difficoltà, il proprio compito di uomo».
«Anche questo panno mi spetta», disse Hæmyts.
«La tua pretesa non ci piace affatto, Hæmyts – dissero i Narti. – Chi non conosce la tua ingordigia? Chi mai ti ha visto sazio? Dopo una settimana di baldorie, è mai uscita dalla tua bocca la benedizione che mette fine ai banchetti?».
«È sempre a nome di mio figlio Batradz che io reclamo questo tesoro: non troverete nessuno che sia più moderato nel nutrirsi».
«Gli anziani dei Narti attribuiscono il terzo pezzo di panno – continuò Uryzmæg – a quello tra i nostri giovani che si mostri il più rispettoso delle mogli altrui e il più tollerante con la propria».
«Non cederò a nessuno quest’altro tesoro», disse Hæmyts.
«Il tuo dente d’amore è la favola di tutti – replicarono i Narti. – Tu passeresti dalla fessura di un muro per sedurre la moglie di un altro. E tua moglie, la figlia di Bytsentæ, non la portavi forse in tasca? Come hai la faccia di pretendere questo tesoro?».
«I vostri rimproveri non sono fuori posto, ma voi sapete bene, Narti, che in nessun luogo troverete un uomo più onesto verso le donne di mio figlio Batradz».
Allora i Narti decisero di mettere alla prova le virtù di Batradz, figlio di Hæmyts.
Poiché rientrava da una spedizione, gli anziani dei Narti mandarono contro di lui cento cavalieri. Ma egli indovinò le loro intenzioni e, come se avesse paura, girò le briglie.
I cavalieri si lanciarono all’inseguimento. Quando furono a buona distanza gli uni dagli altri, egli si volse bruscamente e – tale sia la sorte di colui che ti maledice! – li attaccò l’uno dopo l’altro. Molti non tornarono al loro focolare e quelli che si salvarono grondavano sangue da tutti i pori.
I Narti fecero poi un banchetto di una settimana. Batradz era presente, ma sistemato in modo che non poteva raggiungere alcun cibo. Per tutta la settimana non portò un boccone alle labbra! E tuttavia cantò più gioiosamente e danzò meglio degli altri.
Un giorno, infine, mentre Batradz era fuori, i Narti introdussero il suo bovaro presso sua moglie. Quando rientrò, egli li trovò entrambi che dormivano nella sua camera, la mano del bovaro sotto la testa di sua moglie. Egli ritirò la mano del bovaro e mise la mano di sua moglie sotto la testa del bovaro. Poi, tornato nel cortile, si stese sulla sua pellanda, con la sella per cuscino, e non si mosse fino al sorger del sole.
Convinti delle qualità di Batradz, i giudici gli assegnarono i tre tesori degli avi. Ma si dissero: «Nessuno tra i giovani Narti è così perfetto come Batradz, è vero. Tuttavia noi non abbiamo spinto fino in fondo la nostra inchiesta. È necessario che sappiamo quali modelli, che capiamo quali princìpi gli hanno ispirato queste tre lodevoli condotte».
Fecero venire Batradz, e lo interrogarono.
«Di certo troverete la cosa sorprendente, o eminenti Narti – disse Batradz – ma l’esempio di valore che avete approvato, io lo devo al mio cane da caccia».
«Ma come!».
«Una volta, tornando dalla caccia, attraversai un villaggio dove i cani si riunirono in muta contro il mio. “Lo mangeranno!”, mi dicevo. Ma il mio cane fuggì a tutta velocità. Gli altri lo inseguivano in ordine sparso e lui, girandosi bruscamente, saldò loro il conto uno per uno. Io non ho dimenticato quella lezione. Se vuoi trionfare sui tuoi nemici, fa’ in modo che si dividano, che la loro forza si frazioni, e non ti sarà difficile vincere».
«E per la tua continenza a tavola, cosa hai da dire?».
«Una volta, a caccia, dopo aver ucciso della selvaggina, ci eravamo seduti per riposare. Acceso il fuoco, preparati i chachlyk, gli anziani ci avevano mandati a cercare dell’acqua. Sul sentiero, uno di noi urtò col piede una bisaccia. La prendemmo e, arrivati a una fonte che zampillava da una roccia, la tendemmo sotto il filo dell’acqua. Restammo così a lungo, senza riuscire a riempirla: essa si dilatava sempre più. Quando gli anziani ebbero bevuto a volontà, domandammo loro cosa poteva mai essere quella bisaccia che si dilatava senza fine. Essi deliberarono, ed ecco quale fu la decisione di coloro che molto avevano visto e molto appreso: “Non può essere altro che lo stomaco dell’uomo. Niente lo riempie, nessuno al mondo l’ha mai visto sazio”. Da quel giorno, non mi sono più riempito il ventre: mangiar troppo vuol dire attirare le peggiori malattie. Ho voluto mettermi alla prova. Ho fatto quattro parti del mio pane, e non ne ho mai mangiate più di tre: la mia forza non era inferiore, né il mio lavoro più faticoso. In seguito ho calmato la mia fame con la metà – e la metà la calma altrettanto bene quanto il tutto».
«E la tua condotta verso le donne, come la spieghi?».
«Noi giovani Narti facevamo, un giorno, una spedizione. Eravamo trentanove cavalieri. Attraversammo una vasta pianura senz’alberi e senz’acqua, dove non incontrammo alcuna selvaggina. La giornata era straordinariamente calda e uomini e cavalli non ne potevano più dalla fame e dalla sete. Verso sera, scorgemmo una luce. Ci avvicinammo: era un villaggio. Da una casa uscì, venendoci incontro, una donna con la figlia, perché non vi erano uomini presso di loro. “Sistematevi da noi – dissero. – L’ospite è inviato da Dio”. Noi ci guardammo: come entrare in una casa dove non c’erano uomini? Tuttavia mettemmo piede a terra e affidammo i cavalli ai più giovani. Dopo un buon pasto le nostre ospiti ci condussero in due camere, venti in una, diciannove nell’altra. Io mi coricai. Non lontano da noi, le due donne si misero a parlare in lingua hati (io solo, del nostro gruppo, capivo quella lingua).
“Figlia mia – diceva la madre – oggi o domani, chi sa, io posso morire all’improvviso, e non conoscerò più gli amori né i piaceri. Per te, al contrario, la vita comincia e ti riserva tante cose. Facciamo così: io mi occuperò dei venti, e tu divertirai i diciannove”.
“Eh! madre mia – rispondeva la figlia – la morte non distingue le età: si è visto più di un cavallo vecchio mangiare la sua biada nella pelle di un puledro! Io non ho ancora vissuto, non ho visto ancora niente, e chi sa se avrò o no il tempo di veder qualcosa. Quanto a te, tu hai vissuto e hai visto molto. Tocca dunque a me andare nella camera dei venti”.
«Allora ho capito che la donna è infelice e che talvolta ha delle ore penose. Quel giorno, ho promesso a me stesso che, se mai una donna entrava col mio nome nella casa di mio padre, io non l’avrei ingannata e che, se essa avesse avuto una debolezza, non l’avrei trattata con rigore».
L’assemblea degli anziani si rallegrò con Hæmyts a causa di suo figlio Batradz, e si complimentò con Batradz. Poi, si alzarono dai loro seggi di legno scolpito e si separarono.
Ancora una volta fu posta nella grande assemblea la domanda: «Chi è il migliore di tutti i Narti?». Discussero a lungo, senza concludere.
In quel momento Syrdon non era con loro e, di comune accordo, decisero di rimettersi al suo giudizio.
Quando comparve, lo interrogarono ed egli rispose: «Il migliore? È colui che, col ventre del cavallo ben cinghiato, caracollerà nella Grande Casa dei Narti e lancerà la sua cavalcatura come una rondine sull’orlo del buco per il fumo; poi, traversando il Grande Campo di Montagna dei Narti, dove il suo cavallo avrà aperto una traccia simile al solco dei grossi aratri, si dirigerà verso la pianura di Dio e rapirà la figlia stessa di Dio!».
Nessuno dei Narti osò affrontare queste prove. Soltanto Batradz, l’eroe d’acciaio, il figlio del vecchio Hæmyts, ebbe l’audacia di tentare. Strinse la cinghia del suo cavallo, caracollò con destrezza nella Grande Casa dei Narti e, con un colpo di frusta, sollevò la sua cavalcatura, come una rondine, fino all’orlo del buco per il fumo. Quindi, traversando il Grande Campo di Montagna dei Narti, dove il cavallo apriva un solco simile a quello dei grossi aratri, si diresse verso la pianura di Dio. Chi sa quanto tempo gli occorse? Ma finì per arrivare, rapì la figlia stessa di Dio, e la condusse presso i Narti.
(Fonte: Dumézil, Il Libro degli Eroi)
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Il «migliore» dei Narti, ossia il «meglio del meglio» che c’è tra i personaggi immaginari delle leggende del Caucaso, il Migliore degli Eroi Umani, l’Ottimo, non è il più «valoroso», non è – come c’era da aspettarsi – il «solare» Soslan, bensì quel «valoroso» che è capace di «valore» non solo sul campo di battaglia, ma anche a tavola e a letto, quel «valoroso» cioè che è capace anche e soprattutto di «continenza», e che risponde solo al nome di Batradz – solo cioè di quello dei Narti che ha il requisito di «mezzo uomo», in quanto uomo nato da una Rana, in quanto «meticcio» venuto alla luce alla confluenza tra l’Uomo e l’Animale.
Il «migliore» di noi non va cercato, dunque, tra quelli che eccellono in quanto a «umanità», ma tra quanti piuttosto hanno un’«umanità» difettiva, una per così dire «disabilità» congenita a farne degli «uomini integrali», a integrarli pienamente nell’«umanità» così come se la raccontano, tra loro, gli «uomini», i «mediamente uomini», i «normalmente uomini».
Il «migliore degli uomini» non è nella Norma, non rientra nella Media – ma eccelle. Non eccelle però in quanto a «valore culturale»: allora sì che la palma andrebbe chiaramente a Soslan. Il «valore» della sua eccellenza deve piuttosto essere oscuramente ambiguo: eccellere in ambiguità. Deve attingere «cultura» alla fonte della sua stessa «natura», e portare la propria «umanità» fin dentro le radici stesse dei suoi «sintomi animali».
Poco importa perciò se suo padre, l’«umano» nella cui «spalla» la gestazione di Batradz è stata portata a termine, è di tutti i Narti il più vile, il più pigro e il più incontinente. Anzi, questo conforta l’idea che il «migliore», per quanto allevato da un padre «culturalmente» di rango modesto, sarà quello che sarà perché nelle sue vene scorre il sangue di una madre «non umana», di una madre «animale», di una madre che è Natura incompatibile con la Cultura, Natura permalosa e suscettibile, pronta a ritrarsi, a richiudersi gelosamente nel suo «convento di Ofelia», alla prima parola che l’«offende».
Batradz sarà il migliore, perché è «sanguemisto». Perché ha ancora sulle «cose umane» uno sguardo «animale». Batradz sarà il migliore perché, le «cose», lui le vede alla rovescia di come le vedono normalmente, mediamente gli «uomini», e soprattutto quelli che si credono i «migliori» e fanno continuamente a gara a chi è più «umano».
Sì, alla rovescia: perché quando dovrebbe risparmiare gli altri «uomini», egli li stermina, e quando invece dovrebbe allungare la mano e prendere il cibo, o allungare la mano e prendere le donne, lui che fa?
Batradz fa il «continente», Batradz si astiene, Batradz digiuna, Batradz fa il contrario dei suoi «simili», di quelli – per la precisione – che gli somigliano soltanto nell’aspetto esteriore, nella sola forma di quel corpo che presumiamo essere quanto basta per essere «uomo».
Solo nel corpo di Batradz, nel corpo «d’acciaio» della sua «umanità», è vivo e ben custodito il segreto di sua madre, la Rana. Solo la sua corazza temprata al fuoco di mille inferni, gli permette di resistere alle «tentazioni culturali», agli adescamenti «sociali», alle mode e alle preferenze «popolari».
Quel corpo non può essere che quello che naturalmente è: il corpo di un figlio della Natura, il corpo di un animale che obbedisce ai richiami di Natura. Ma Batradz, questi «richiami» che vivono e son ben custoditi nella sua «origine animale», proprio perché li sente in tutta la loro «bestialità», per quanto è in lui, li contiene, li disciplina e li traduce in un comportamento «umano».
Batradz è pazz!
Scusa la rima, è che – come Batradz – neanche io so resistere alla tentazione di violare la tabellina pitagorica.
Tu mi mandi contro un «esercito», uno «sciame», un «gruppo», insomma un «collettivo» (un Discorso fatto di cento Segni cavalieri, ciascuno dei quali è «a cavallo» di una metafora), e io, proprio al modo di Batradz, così mi comporto: li prendo uno per uno, li affronto in una «relazione polare», in un «faccia a faccia», invece che a chiacchiere gettarmi nella mischia delle parole, per poi dover daccapo, come Psiche, ricominciare la cernita dei miei cereali.
Batradz è il «migliore degli uomini» perché è talmente pazzo da essere fuori dalla nostra media, normalissima, «umanità». Da essere così estraneo al Discorso Medio, alla Chiacchiera, da poterla intendere solo a condizione di rovesciarla nei fatti.
E il fatto è che, la tabellina dei cento cavalieri pitagorici, Batradz la fa letteralmente a pezzi: per lui tutti i numeri sono l’Altro, sono quell’altro, l’Uno, il Tutto, il Nemico, mentre al «bovaro» che trova a letto con la moglie quasi nemmeno ci fa caso. Si limita a togliergli la mano dal capo di sua moglie, per mettere quella di sua moglie sotto il suo capo!
Batradz non fa altro che invertire, rovesciare e ribaltare il Culturale nell’Animale, e l’Animale nel Culturale. È questo che fa di lui il «migliore dei Narti».
Batradz spezza le «alleanze» culturali, le associazioni armate di parole a cavallo. Rompe la Sintassi del Nemico. È abbastanza animale per rimanere fedele al «tu per tu», a misurarsi sempre con «uno alla volta». Sempre con «uno», senza passare per la fuorviante circolazione nell’ingorgo «collettivo».
E viceversa, costruisce nuove «alleanze», e dà un «futuro» (o almeno ci prova a dare un futuro) alla «bestialità» di chi gli vive accanto. A questa bestialità, Batradz è così pazzo da credere di poterle dare un futuro «culturale», semplicemente invertendo le «posizioni» animali di chi è sopra, e di chi è sotto, quando si fa all’amore.
Perché, in fondo, il «migliore degli uomini» (forse è questo che vuol dirci il Narratore del Caucaso), forse è solo quel pazzo che è davvero così pazzo da «rovesciare» il senso che i cosiddetti uomini attribuiscono alla sua pazzia.
Così pazzo da rovesciarlo fino al punto da scoprire che, il meglio di sé, ogni uomo lo coglie solo se, e solo fin dove, il suo sguardo ha il coraggio di rivedere la propria «disumanità» senza veli.
Quella «disumanità» da cui normalmente, mediamente volgiamo lo sguardo altrove – quella di cui noialtri non vogliamo sapere.
Eppure il Narratore del Caucaso non esita a dirlo: là dove normalmente, mediamente gli uomini falliscono, il pazzo Batradz, il mezzo uomo Batradz, ci riesce. Andare nientemeno a prendere la figlia stessa di Dio, e portarla tra gli uomini!
Voi che dite: non era altrettanto pazzo quel tale poeta che inseguì fin nelle lande più remote la sua Beatrice immaginaria, e la portò tra i Segni e le Parole di noialtri, uomini interi, uomini sani?
Pensate ancora che il migliore dei poeti debba essere cercato tra i poeti?