Tutta la scienza linguistica può essere analizzata come resistenza al poetico e all’opera di disseminazione e di dissoluzione che il poetico fa della «lettera».
Ovunque è il medesimo tentativo di ridurre il poetico a un «voler dire», di ricondurlo all’ombra di un senso, di infrangere l’utopia del linguaggio per ricondurlo alla topica del discorso.
Al ciclo della letteralità (reversibilità e disseminazione) la linguistica oppone l’ordine della discorsività (equivalenza e accumulazione).
Si può vedere in atto questa controffensiva in tutte le interpretazioni date qua e là del poetico (Jakobson, Fonagy, Umberto Eco). Ma da questa resistenza dipende anche l’interpretazione psicoanalitica. Perché la radicalità del simbolico è tale che tutte le scienze o discipline che lavorano a neutralizzarla si trovano a loro volta analizzate dal simbolico, e rinviate al loro disconoscimento.
Sono quindi tutti i princìpi della linguistica e della psicoanalisi che saranno in gioco a proposito dell’ipotesi anagrammatica di Saussure. Lui l’ha fatta su un punto preciso, e con beneficio d’inventario. Ma nulla vieta di svilupparla fino alle sue estreme conseguenze.
In ogni modo, la radicalizzazione delle ipotesi è l’unico metodo possibile – perché la violenza teorica è l’equivalente, nell’ordine dell’analisi, di quella «violenza poetica» di cui parla Nietzsche, «che rinnova l’ordine di tutti gli atomi della frase». […]
Il godimento poetico non è mai nella ripetizione di un’identità, ma è nella distruzione d’una identità. È il disconoscimento di questo fatto che costituisce la riduzione linguistica, è qui che essa distorce sottilmente il poetico verso i propri assiomi: identità, equivalenza, rifrazione dell’identico, «imitazione per aumentazione», ecc.
Soprattutto, non ammettere mai che c’è una diffrazione folle, una perdizione del significante, una morte nell’anagramma come forma simbolica del linguaggio. Restare nel gioco linguistico, dove la poesia non sarebbe che una cifra, una «chiave», come si parla di una chiave dei sogni.
Sono i giochi di società che lo fanno, e non fanno che questo. Sono la cattiva poesia, l’allegoria, o la musica «figurativa» a farlo, quando rimandano troppo facilmente a ciò che «significano», o non fanno che metaforizzarlo in altri termini. Sono le sciarade, gli indovinelli o i palindromi, in cui tutto si risolve nella scoperta della parola chiave.
E certamente c’è un piacere in questo détour, e a smascherare ciò che è nascosto, e la cui presenza segreta ci attira. Ma questo piacere non ha nulla a che vedere col godimento poetico, che è diversamente radicale, e non perverso: non vi si scopre nulla, non vi si esprime nulla, non ne traspare nulla. Non un indovinello, non un termine segreto, non un ostacolo al senso.
Il poetico distrugge qualsiasi tracciato verso un termine finale, qualsiasi referenza, qualsiasi chiave; esso risolve l’anatema, la legge che grava sul linguaggio.
Si può avanzare l’ipotesi che il godimento sia una funzione diretta di questa risoluzione di qualsiasi referenza positiva. Esso è, infatti, minimo là dove il significato si produce immediatamente come valore: nel discorso «normale» della comunicazione – parole lineare e piatta, che si esaurisce nella decodificazione.
Al di là di questo discorso – grado zero del godimento – è possibile qualsiasi tipo di combinazione in cui s’installa un gioco a rimpiattino col significato, una decrittazione, e non più una pura e semplice decodificazione. È il caso dell’anagramma tradizionale dove, dietro un testo manifesto, coerente o incoerente, giace un testo latente da scoprire.
Qui c’è uno sganciamento, un distanziamento dal significato, dal senso profondo della storia, détour mediante il significante, «dif-ferenza», direbbe Derrida. E tuttavia è pur sempre possibile, per qualche via, reinvestire la parola chiave, la formula che governa il testo.
Questa formula può essere subconscia (nel motto di spirito) o inconscia (nel sogno), ma è sempre coerente e discorsiva. Con la scoperta di questa formula, si esaurisce il ciclo del senso. E il godimento, in ogni caso, è proporzionale al détour, al ritardo, alla perdita dell’enunciato, al tempo perduto a ritrovarlo. È quindi molto limitato nei giochi di società, più intenso nel motto di spirito, dove la decifrazione è sospesa e dove si ride in proporzione alla distruzione del senso.
Il godimento è invece infinito nel testo poetico, perché qui non si può ritrovare nessuna cifra, nessuna decifrazione è possibile, ma solo un significato che metta fine al ciclo. La formula non vi è nemmeno inconscia (qui è il limite di tutte le interpretazioni psicoanalitiche), essa non esiste. La chiave è definitivamente perduta.
Qui è la differenza tra il semplice piacere cripto-grammatico (tutta la categoria della trouvaille, in cui l’operazione è sempre saldata con un residuo positivo) e l’irradiazione simbolica del poetico. O anche: se il poetico rimanda a qualcosa, è sempre a nulla, al termine nullo, significato zero.
È questa vertigine della risoluzione perfetta, che lascia perfettamente vuoto il posto del significato, del referente, a costituire l’intensità del poetico. […]
Nel poetico, né il dio è il soggetto, sia pure nascosto, dell’enunciato, né il poeta è il soggetto dell’enunciazione. È il linguaggio stesso che prende la parola per perdervisi.
D’altronde, il nome di dio è il nome del Padre: la legge (della rimozione, del significante, della castrazione) che questi fa pesare sul soggetto e, allo stesso tempo, sul linguaggio – questa legge, nell’anagramma, è sterminata.
Il testo poetico è l’esempio finalmente realizzato del riassorbimento senza residuo, senza traccia, di un atomo di significante (il nome di dio) e, attraverso questo, dell’istanza stessa del linguaggio e, attraverso questa, della risoluzione della Legge.
Il poetico declina questa morte del nome di Dio, e per noi, che non abbiamo più un dio, ma per i quali il linguaggio è diventato Dio (il valore pieno e fallico del nome di Dio è diffuso per noi attraverso tutta l’estensione del Discorso), il poetico è il luogo della nostra ambivalenza di fronte al linguaggio, della nostra pulsione di morte di fronte al linguaggio, della potenza adatta alla sterminazione del codice.
In un racconto di fantascienza (Arthur Clarke, I nove miliardi di nomi di Dio: in italiano, Le meraviglie del possibile), una confraternita di lama sperduta nel cuore del Tibet, ha votato tutta la sua esistenza alla recita dei nomi di Dio.
Questi nomi sono molto numerosi: nove miliardi. Quando saranno tutti detti e declinati, il mondo finirà, un intero ciclo del mondo.
Venire a capo del mondo passo dopo passo, parola dopo parola, esaurendo il corpus totale dei significanti di Dio: questo è il loro delirio religioso – o la verità della loro pulsione di morte.
Ma i lama decifrano lentamente, il loro compito dura da secoli.
È allora che sentono parlare di misteriose macchine occidentali, che possono registrare e decifrare a una velocità fantastica. E uno di essi va a ordinare un potente calcolatore all’IBM, per accelerare il loro lavoro.
Alcuni tecnici americani vengono sui monti del Tibet a installare e programmare la macchina. Secondo loro, basteranno tre mesi per venire a capo dei nove miliardi di nomi. (Lo humour di questo racconto è tanto più spassoso in quanto, se c’è una cosa che non riesce a inscrivere la morte, in cui la pulsione di morte è sbarrata, sono proprio i sistemi cibernetici).
Per quanto li riguarda, non credono certamente a una sola parola sulle conseguenze profetiche di detta contabilità, e poco prima della scadenza dell’operazione, temendo che i monaci se la prendano con loro di fronte allo scacco della loro profezia, fuggono dal monastero.
È allora, mentre scendono verso il mondo civilizzato, che vedono le stelle spegnersi a una a una …
Anche il poetico è risoluzione totale del mondo, mentre i fonemi sparsi del nome di Dio vi si consumano.
Quando la declinazione anagrammatica è compiuta, non resta più nulla, un ciclo del mondo si è concluso, e l’intenso godimento che lo attraversa non proviene da nient’altro se non da questo.
(Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte)