Batradz pensò: «Così come sono adesso, un giorno troverò qualcuno più forte di me. andrò dal fabbro celeste Kurdalægon e mi farò temprare».
Andò dunque da Kurdalægon e gli disse: «Temprami, Kurdalægon!».
«No, mio sole! Hai l’aria di un bravo bambino e farebbe pena metterti al fuoco».
«È assolutamente necessario, Kurdalægon, te ne prego, temprami!».
Kurdalægon finì per acconsentire.
«Allora, brucia carbone per un mese; e per un mese accumula ciottoli».
Batradz bruciò carbone per un mese e per un mese accumulò ciottoli. Kurdalægon lo gettò allora nella fornace della sua fucina, versò su di lui ceste di carbone e, sopra, vi stese i ciottoli. Tutt’attorno dispose dodici mantici e soffiò per un mese.
Quando il mese fu trascorso, si disse: «Il figlio di Hæmyts, poveretto, è sicuramente calcinato, ritirerò le sue ossa».
Quando si avvicinò con le sue tenaglie, Batradz gli gridò: «Il fuoco non mi fa niente. Ti stai burlando di me? o che cosa succede? E poi muoio di noia. Portami una fændyr, così mi divertirò a cantare».
Kurdalægon gli portò la fændyr, lo coprì di nuovo di carbone e soffiò per una intera settimana. Ma ancora il fuoco non faceva niente a Batradz.
«Esci, Batradz, e va’ a uccidere dei serpenti-draghi. Ne faremo carbone, perché il carbone comune non ti scalda».
Batradz massacrò una quantità di serpenti-draghi. Li portò a Kurdalægon e ne fecero carbone. Si arrampicò nella fornace, Kurdalægon stese su di lui il carbone e soffiò.
Al termine di una settimana, andò a vedere Batradz.
«Sono caldo abbastanza – disse quest’ultimo. – Non espormi al vento e gettami in mare!».
Kurdalægon lo prese con le tenaglie e lo lanciò in mare.
Il mare cominciò a bollire e si asciugò: l’acqua era evaporata nel cielo. I pesci grossi, i pesci piccoli si dibattevano sul fondale scoperto. Tutto il corpo di Batradz fu di puro acciaio azzurro, salvo un budello, che non fu temprato perché il mare si era asciugato troppo in fretta.
Egli uscì e il mare tornò a riempirsi d’acqua, le onde irruppero, i pesci grossi e i pesci piccoli si rianimarono e tornarono a nuotare nel profondo.
Diventato uomo, Batradz rimase nascosto in cielo.
I Narti avevano l’abitudine di intraprendere spedizioni molto lunghe: duravano fino a tre anni. Fu così che una volta, guidata dai Narti più illustri, la valorosa gioventù del villaggio si trovava assente da più di un anno quando Mukara, figlio della Forza, fece dire agli uomini rimasti sulla collina: «I vostri avi pagavano ai miei avi un tributo di fanciulle. Da molti anni non l’ho richiesto. Mandatemelo, altrimenti verrò a prenderlo con la forza».
I Narti si disperarono: «Che fare? Mai abbiamo sentito parlare di quel tributo. Se lo paghiamo, i nostri saggi, quando saranno di ritorno, ce ne faranno pentire. Se non lo paghiamo, Mukara verrà e, poiché tutta la nostra gioventù è via, chi mai gli resisterà?».
Syrdon disse loro: «Poiché siete incapaci di immaginare qualcosa, consultate Satana».
Stavano ancora deliberando, quando sopraggiunse Mukara, figlio della Forza. Avanzò liberamente: non c’era alcuno che lo fermasse. Prese le fanciulle più belle e le spinse davanti a sé come un gregge.
Quando vide questo, Satana afferrò al volo un avvoltoio e gli disse: «Va’, presto, da Batradz e digli: “Se sei in piedi, non sederti; se sei seduto, affrettati ad alzarti e corri al tuo villaggio: lo troverai annientato”. Se porti il mio messaggio, ti permetterò di rubare qualche pulcino delle mie galline».
In quel momento Batradz era seduto nel cielo. L’avvoltoio volò fino a lui.
Appena ebbe udito il messaggio, Batradz si precipitò e piombò sulla collina dei Narti così velocemente, che affondò nella terra fino all’inguine. Si liberò e in un balzo fu davanti a Satana.
«Quale disgrazia vi ha colpiti, madre?».
«Una disgrazia quale la vostra razza non ha mai provato. Tutta la forza che puoi avere non sarà di troppo!».
E raccontò la cosa.
«Da che parte è andato?», chiese Batradz.
«Va’ sulla riva del mare, dove vivono i tuoi zii materni – rispose Satana. – E là, sulla riva, grida così: “Piccolo Tcheh, essi presto, ho bisogno di te, sono tuo parente … Indicami dove si trova Mukara, figlio della Forza!”. Tra cielo e terra non vi è segreto per quel piccolo uomo, è lui che ti dirà dove si trova il figlio della Forza».
Batradz non si concesse il tempo di entrare in casa e corse sulla riva del mare. Gridò con tutte le sue forze: «Piccolo Tcheh, sono tuo parente, esci, presto!».
Era un uomo svelto, quel Tcheh. Il tuono del grido di Batradz si sentiva ancora per la foresta, che già era accanto a lui.
«Tu mi gridi che sei mio parente, ma, fra i miei parenti, non ho mai visto nessuno che ti assomigli. Dimmi, com’è che siamo parenti?».
«Non è il momento di fare domande simili! Indicami dove si trova Mukara, il figlio della Forza».
«Ora ti riconosco! Sei davvero mio parente. Ti dirò dov’è il figlio della Forza, ma non arriverai facilmente fino a lui».
«Allora sii il mio messaggero e digli da parte mia: “Non obbligarmi a venire fin da te. Altrimenti, sappi che io sono Batradz, il narto che tu non conosci. E non pensare di poterti nascondere in fondo al mare: sono venuto per misurarmi con te, esci e vienimi incontro!”».
Tcheh era così leggero che in tre battiti d’occhio faceva il cammino di tre giorni.
Andò a dire a Mukara: «È venuto qualcuno a provocarti: un giovane imberbe, i cui occhi sono grandi come un’aia per dodici trebbiature. Ecco il suo messaggio: “Non obbligarmi a venire fin da te. Altrimenti, sappi che io sono Batradz, il narto che tu non conosci. E non pensare di poterti nascondere in fondo al mare: sono venuto per misurarmi con te, esci e vienimi incontro!”».
Mukara rifletté e disse: «Sarebbe un’onta nascondermi quando qualcuno vuol misurarsi con me. Ma, poiché si tratta di un narto, il giorno in cui i Narti si battono è il venerdì. Mi preparerò dunque per venerdì prossimo!».
Tcheh tornò a riferire a Batradz la risposta di Mukara. Che cosa poteva obiettare Batradz? Se ne tornò al suo villaggio e gridò: «Possiate perire, Narti! Sì, piuttosto che sentire l’affronto che l’asino nero vi ha fatto, preferirei vedervi tutti morti! Mi ha dato appuntamento per venerdì. Voi non vi batterete, ma, da lontano, guardatemi».
I Narti ancora non sapevano chi era Batradz. Si dicevano l’un l’altro: «Che fare? egli ci assomiglia, certo, ma dov’era fino adesso?».
Batradz capì il loro pensiero: «Ascoltate chi sono: sono un narto. Mia madre è una Bytsen e mio padre è Hæmyts. Finché non ero in età di fare le mie prove, sono vissuto nascosto. Ora, io mi batterò con Mukara, figlio della Forza. Abbiamo convenuto di batterci venerdì nella pianura di Hyz. Voi, salite sulla collina di Uaz e guardateci!».
Quando fu venerdì, Batradz si preparò. Fece uscire il suo cavallo e gli disse: «Ascolta, cavallo mio. Ci deve essere qualcosa che gli dà fiducia, dato che ha accettato il combattimento. Allora io, io ti lascerò pascolare vicino a me, senza levarti la sella. Durante il duello, quando mi sentirò troppo rovente, ti griderò: “Ehi, cavallo mio, cosa stai facendo?”. Subito, prendi lo slancio, buttati su di me e, con tutte le tue forze, col fianco, dammi un colpo tale che io mi ritrovi in mezzo al mare».
Giunto in riva al mare, egli grida a Mukara: «Eccomi, non nasconderti!».
Mukara sorge dal mare, e il duello comincia.
Si inseguono per montagne e pianure, senza che né l’uno né l’altro abbia la meglio. Si inseguono nella foresta, strappano gli alberi con le loro radici e ne fanno delle mazze: nessuno dei due è il più forte. Alla fine, Batradz riesce a condurre il suo avversario sulla riva del mare.
Là, mentre si battono, Batradz si sente rovente: «Ehi, cavallo mio – dice – cosa stai facendo?».
Il cavallo si slancia, si butta su Batradz, lo colpisce col fianco con tutta la forza che ha e Batradz si ritrova nel bel mezzo del mare.
Si raffredda, poi esce, gridando con voce terribile: «Aspetta, asino nero, eccomi!».
Mukara ebbe paura e si tuffò in mare. Sul fondo, vivevano i Kadzitæ, di cui Mukara era ospite.
Egli disse loro: «Sono inseguito da un cavaliere su cui potremo prevalere solo con l’astuzia, perché la forza non può nulla su di lui».
I Kadzitæ si misero all’opera e, sulla strada di Batradz, scavarono una fossa tale che non si sarebbe potuto udire un grido dal fondo all’orlo. Sopra vi stesero dei tappeti.
Mentre Batradz si avvicinava, ecco quel che decisero: «Che una parte di noi gli vada incontro facendo atto di sottomissione, e che gli altri portino presso l’orlo della fossa una quantità di massi e tronchi tale da poterla colmare».
Così, mentre gli uni preparavano i tronchi e le pietre, gli altri andarono incontro a Batradz: «Non opponiamo resistenza: ecco, abbiamo steso un tappeto sulla tua strada … vieni da noi».
Batradz avanzò senza diffidare e cadde nella fossa. Quale non fu la gioia dei Kadzitæ!
«Aspetta – gridarono – questa volta ti abbiamo preso!».
E cominciarono a rovesciare su di lui i massi e i tronchi d’albero che avevano preparato. Ma Batradz tenne la sua spada sopra la testa, col taglio verso l’alto, e tutto quello che gli gettavano, pietra o legno, si riduceva in polvere che cadeva in fondo alla fossa e si accumulava sotto i suoi piedi. Così egli si sollevava sempre più.
Quando emerse con la testa, gridò: «Aspettate, brutta razza, eccomi qua!».
A questo grido, quelli svennero. Il narto Batradz saltò fuori dalla fossa. Si precipitò nella torre, uccise subito Mukara, poi sterminò i Kadzitæ. Fece uscire le fanciulle e le giovani donne narte e le riportò alle loro case.
Quanto a lui, salì velocemente in cielo, e vi si nascose.
(Fonte: Dumézil, Il Libro degli Eroi)
***
Se Batradz è temprato nel fuoco della fornace del Fabbro … è perché egli è la Spada al servizio dei Narti. Né più né meno di quanto Excalibur lo sia al servizio dei Cavalieri della Tavola Rotonda.
Ora, questa Spada di Fuoco – di fuoco distruttivo, folgorante – cadde (o fu gettata) in illo tempore nel Mar Nero, che così ricevette il nome di Mar Rosso, nome che porta tuttora, dacché le sue acque si mescolarono al sangue dei Narti di cui era macchiata.
Questo ancora si racconta sulle montagne del Caucaso. Si racconta, almeno tra gli Osseti, che la Spada giace tuttora in fondo al Mar Rosso, sicché, quando vedono il cielo lampeggiare a ovest, attribuiscono lo scintillio alla spada di Batradz che balza verso il cielo per massacrare gli spiriti impuri e i demoni. O più modestamente: per fare piazza pulita di tutto il sudiciume che insozza i nostri desideri.
La carriera di Batradz è segnata sin dalla nascita da questo marchio di fuoco – di un fuoco così «eccessivo», così «avvampante», che bisogna ricorrere a un «bagnomaria» d’urgenza, per strapparlo alla morte sul rogo della sua stessa vampa immaginale.
Così, per es., in una delle tante narrazioni, si racconta che, quando giunse a scadenza il tempo della sua gestazione «nella spalla del Padre», Satana, la sua «madre adottiva», salì al settimo piano della torre perché, appena «partorito», il neonato Batradz smorzasse subito i suoi «bollori», precipitando giù, al piano terreno, nei sette paioli colmi d’acqua che la Strega aveva preparato apposta.
«Come un uragano, riempiendo tutto di fiamme, il bambino, eroe dalle carni d’acciaio, si precipita e i sette paioli non bastano ad arrestare il suo slancio: si pianta nella terra fino alle ginocchia, reclamando acqua con grandi strilli».
Batradz è fuoco così distruttivo che distruggerebbe pure Se Stesso, se non ci fosse acqua, e poi ancora acqua, e acqua – tanta acqua! tutta l’acqua del mare – a dargli sollievo e accoglienza, a costo di prosciugarsi.
Batradz è sì fuoco, eppure, in quanto «figlio della Rana», non è la fornace, ma l’acqua il suo habitat «naturale». Sua madre, la Rana, come tutti i membri della stirpe di Donbettyr (di questo san Pietro «a testa in giù» di cui si narra sul Caucaso), «abita» in una Casa in fondo al mare.
È destino, dunque, che nei momenti «estremi» in cui l’accesso d’ira e la rabbia della sua folgore minacciano la sua stessa sopravvivenza, Batradz «ricada» nel suo «elemento materno», e che sciolga così il suo «furore» nel liquido amniotico delle sue mitiche immaginazioni «vittoriose».
Che torni «a casa», chez soi, da sua Madre – la Rana che ha sedotto suo Padre Hæmyts, che l’ha sedotto e abbandonato: abbandonato (ti ricordi?) solamente perché, come tutti quelli della stirpe di Donbettyr, come tutti i «pesci» che il mondo lo vedono sottosopra, la Rana è un po’ permalosa!
Bisogna, dunque, che Batradz trovi rifugio nelle «acque permalose» della sua Matrice – e che laggiù con Lei si riconcili ogni volta che il suo «fuoco» esagera, trascende, non sa più darsi un limite.
Solo l’acqua – tutta l’acqua del mare assieme, tutto Okéanos – può contenerlo: altrimenti, Batradz si perderà nella sua incontinenza!
Solo quando ciò accadrà, dice il Racconto, solo «annacquata», la sua Spada tonerà a riemergere dal mare in cui è precipitata. Solo allora Excalibur di nuovo affiorerà dal Lago.
Perché, se ancora non è chiaro, quella Spada è della Dama del Lago, è della Rana. Il Racconto dice che la Dama del Lago, la Rana, ha sedotto il Vecchio (Merlino, Hæmyts), dice che l’ha stregato con gli artifici della sua stessa stregoneria, fino a rinchiuderlo in una bolla di fantasia in cui farci all’amore.
E dice che, di tanto in tanto, dalle nebbie di questa fantasia – quando la Spada d’acciaio, la Spada di fuoco dell’Immaginazione, riemerge – è solo per venirci a dire che la Seduttrice ha messo al mondo un altro figlio della sua magia.
E che questo Figlio della Magia è più forte del Figlio della Forza!