Ceccardo il Vecchio – C’è poco da ridere … a Eleusi!

… la mia ricerca etimologica dà (fonte: Rocci):

μύ – voce onomatopeica per «dolore»
μύα – bua, u mimmille
μυάγρα – trappola
μυάω – torco, premo, serro le labbra
μυέω – inizio ai misteri
μύζω – mugolo, brontolo, sbuffo, sospiro, gemo
μύθος – parola, detto, motto
μυκάζομαι – muggisco
μύω – mi chiudo, sto chiuso, serrato, sto quieto, silenzioso

l’antica radice indoeuropea (*mu) ha il senso di serrare, legare, stringere con un nodo – chiudere un’apertura in modo da sigillarne il contenuto: così per es. la bocca che si Magritte-terapeutachiude dopo aver ingoiato un boccone (cfr. il movimento che essa fa – da aperta a chiusa – pronunciando AUM, sillaba sacra non solo della lingua indù, ma anche di quella partenopea)

già, la bocca – ché qui parla di «misteri» (eleusini)
proprio essa, la bocca che parlandone può solo profanare il suo «mistero»,
pensa un po’:
chi la tiene chiusa, chi la lingua la mantiene legata al Patto con l’Olmo Silente, dicesi [dalla stessa radice *mu] muto, e l’estremità del suo «legamento», la serratura, dicesi muso
la bocca funziona come una «trappola»: si chiude su ciò che inghiotte, cfr. la «porta a scatto» (le labbra sono Scilla e Cariddi?)

dicesi trappola un’apertura ingannevole: è davanti ai tuoi occhi eppure non la vedi, per es. una buca coperta di frasche e di foglie (preferibilmente secche)
dici trappola, dici μυάγρα, dici la (dolorosa) «serratura selvaggia», dici la tagliola che scatta ad Agra

Agra, il «luogo» dei piccoli misteri, porta scritta nel nome la sua identità selvaggia, acre, aspra:

ahi, quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte

chi in questo posto selvaggio penetra finisce per esserne «serrato», per trovarsi prigioniero d’un imprevisto agguato, accerchiato da ciò che credeva di circuire – posseduto dalla «pietra» intorno a cui circumambulava: sedotto da chi voleva sedurre, sennonché quando pareva quasi che c’era riuscito, era solo caduto in un’imboscata
il pesciolino danza intorno all’esca prima di abboccare all’amo: chi abbocca, chi cade in trappola è ipso facto iniziato ai «segreti», catturato nel gioco dei simboli, chiuso nel labirinto dei segni
ha voglia a guardarsi intorno, il neofita non vede la corrente delle parole che lo risucchia nelle onde dei suoi gorghi
il neofita non vede la trappola, perché la trappola si nasconde nel respiro del vento, tra i soffi e le parole: la trappola è il linguaggio che gliela tende

surreal-bocca

piccoli misteri, misteri che catturano i bambini piccoli e ciechi: essi hanno gli occhi ma non vedono la trappola, ce l’hanno dinanzi agli occhi, ma non sono così scaltri da non farsi sedurre dall’esca (che so? – il formaggio per i topi)

la prima trappola che il neofita incontra è ad Agra, in un posto selvaggio, che tutto pareva tranne che fosse l’imbocco del paese delle istanze di morte: anche se non è ancora stato espressamente chiamato in causa, noi sappiamo che è Ade, l’invisibile Signore dei morti, a tenderci l’agguato – che è Lui che ci parla in bocca, ogni volta che avanziamo una pretesa a proposito di non so quale esca
il neofita è adescato a scoprire, di botto!, la morte – a sbattere il muso in faccia alla dura realtà (piccolo doloroso mistero, selvaggio μύ)

la trappola è nascosta e insieme evidente: nasconde le sue intenzioni, ma fa in modo di attirare l’attenzione su di sé
la trappola deve attrarre a sé, altrimenti il suo inganno non funziona: deve mostrare il formaggio per richiamare i topi
la μυάγρα deve essere dunque una «serratura aperta», buona cioè a includere i «curiosi» surreal-bocca-verticaleche come Epimeteo, ma nondimeno come Narciso, si azzardano a maneggiarla – alla lettera, è una μύ «selvaggia» che a sé attira la «selvaggina» iniziandola al linguaggio umano
la μυάγρα è il primo boccone amaro che il neofita ingoia, a sua insaputa: è solo un fungo, di cui ignora il veleno: un doping che promette paradisi, ma procura solo un μύ aspro e selvaggio in funzione di Significante Primo (o Nome del Padre)

il bambino non ingoia che un segno, un nome, appena un sintomo tradotto a parole, un qualsiasi «significante», ed ecco la trappola si richiude su di lui: è prigioniero anche lui del linguaggio e dei suoi giochi di prestigio
il neofita ad Agra cade nel primo tranello, senza nemmeno accorgersi di che si tratta: ha gli occhi e, a quanto pare, vede tutto, ma in realtà non vede che qualcuno l’ha visto e gli tende un agguato

la prima volta che il bambino si fa la «bua» scoprendosi coperto da ciò che s’illudeva di aprire, e lontano da ciò che credeva di avere a portata di mano, è quella volta di cui solo una cosa si può dire: che «c’era una volta», e che il posto in cui «ci fu», in gergo eleusino era detto Agra – Terra Selvaggia

ad Agra il bambino parla per l’ultima volta la sua vecchia lingua: strilla, mugola, brontola, urla, geme o sospira – per l’ultima volta parla al modo di tutti gli animali
e tuttavia, anche se lui non lo sa, nella terra immateriale dei suoi strilli sono gettati i semi del linguaggio umano: ad Agra da questi semi a caso a ciascun bambino spunta la prima «parola», il primo «significante», il primo «dente» della sua bocca neo-«umanizzata»

il bambino possiede dei μύ, i fonemi naturali dei suoi «atti di dolore»; le parole invece no, egli non le possiede, ma al più le detiene momentaneamente da quando le riceve in eredità ad Agra, per lasciarle a sua volta in eredità a Eleusi: forse
egli non ha che da trasportarle su una via crucis già tracciata

i fonemi di natura sono le foglie sparse nella selva di Agra:
coprono le trappole in cui i bambini devono cadere per «umanizzarsi»
le trappole non si vedono – si vedono però le frasche, si vedono le foglie che parlano!

**

Blake-selva-oscura

silenzio! – stiamo entrando nella selva: bambini, fate silenzio!
il «maestro» lo dice tanto per dire, perché i bambini non sanno tacere
ma proprio perciò, poiché non possono fare a meno di parlare,
malgrado l’invito alla prudenza del «maestro di cerimonia»,
nella trappola – nei denti affilati della tagliola simbolica
i bambini ci cascano lo stesso: basta che un μύ, appena un solo μύ gli scappi di bocca, che ecco: hanno passato il confine, hanno messo piede nel mondo dei simboli, sono venuti anche loro ad accampare le loro istanze di morte: aneliti incompiuti, desideri inappagati, sospiri interrotti dall’incontro di tre fiere feroci che parlano solo la loro lingua animale

intrappolati nella paura, piccoli misteri – misteri dei più piccoli

μυέω – inizio ai misteri, ovvero intrappolo qualcuno in un nuovo incipit, battezzo, istruisco, ne faccio l’anello di una catena simbolica a lui preesistente, fuori di lui già esistente, approfitto della sua ingenua «cecità» infantile per catturarlo nel linguaggio della polis

μύζω – sospirare, gemere, soffiare, mugolare, brontolare non sono che variazioni modali della lingua animale del bambino, sono «nomi divini», parole selvagge che non si apprendono a scuola, parole che nessuno ha coltivato: non sono parole colte, non sono grido-paint(non ancora) parole cucinate al fuoco di Prometeo – sono gridi selvaggi, gridi che a volte hanno un sapore così dolce da sembrare Miele
il Miele si assaggia crudo

è un semplice μύ – un ignobile misero squallido μύ il «territorio» che i maestri dell’iniziazione devono «coltivare», di un bambino selvaggio facendo un uomo colto, di un «grido animale» la materia prima delle parole della lingua colta, e come? – trattenendolo, temperandolo, frenandolo, modulandolo, dandogli un modo disciplinato, contenuto entro una certa scala, né più sopra né più sotto – perché sopra e sotto la scala, c’è di nuovo la selva selvatica e incolta: è dunque là, sul confine, che il neofita dev’essere sorpreso – sul bordo eccentrico di una pazziella da bambino, è là che si spegne con tre tinozze d’acqua gelida l’arrapamento di Cúchulainn, là s’intiepidisce il suo ardore, là si fa sbollire il suo bollore: insomma, cuocere a fuoco lento, e fidarsi che il pesce va cotto nella sua acqua!

a me pare che ce n’è abbastanza per dire che il «luogo» proprio del μύ è la bocca – che il piano a cui la trappola si serra sulla preda, è quello sonoro, acustico: che è il piano del «sentito dire», del «caos fonetico» in cui il cucciolo della nostra specie, nascendo, si trova a essere già immerso: se essere è essere in un mondo, il primo senso, il primo orientamento nel mondo è «a occhi chiusi», come dinanzi alla tenda di Pitagora: l’iniziando ne sta fuori, bisogna che percorra un certo sentiero perché sia ammesso dentro a quel «fuori»

**

La prima «tappa» del μύ è la selvaggia (Agra) «intrappolata» sul confine tra i suoni naturali e le parole che ne fanno suonare solo un’eco, appena l’eco vaga e approssimativa, nelle loro metafore: è tutta una lingua che il bambino deve deporre, è questo l’obolo che ha da pagare a Caronte, per avanzare la sua prima «istanza di morte», per venire a morire anche lui da «uomo colto», anziché furente di rabbia gridare un vaffanculo in faccia alla Morte.

surreal-bimba-morte
A un pitagorico non c’era bisogno di dirglielo: lo capiva da sé che il «nodo» della questione, che il cappio a cui lui pure era stato accalappiato, che l’anello a cui era inanellata la sua «professione di fede» era, insieme, il «segno» della sua «imbecillità», il sintomo della sua «infermità» [di Re Pescatore], ovvero nient’altro che quel μύ di un misero lamento, di un lascivo tormento, di un patimento o di un godimento, nella cui «onda» il suo balbettio d’infante s’era trovato a essere coinvolto: per informazioni rivolgersi a Dante, ultimo di paradiso.

Lo diceva pure Eraclito: siamo tutti portati via dalla corrente, tutti presi nell’onda emotiva dell’Esserci. Pardon – di Okéanos.
Se c’è una cosa che ci piacerebbe sapere, è dove la corrente ci travolse, uno per uno, tutti ignari pesciolini, ciascuno dominato dalla sua dominante selvaggia, dalla sua Eco senza corpo, da una risonanza nervosa del suo «corpo senz’organi», da un fremito, da un gemito, da un sospiro.

Un pitagorico non poteva non sapere che soffi strilli respiri e gemiti sono la materia prima di tutte le lingue di babele – che essere uomo è essere nel mondo parlato da ciascuna di queste lingue – nel mondo come esse se lo raccontano. Né poteva non sapere surreal-calamo-fiumequel che noi più non sappiamo, e di cui a stento riusciamo a sbirciare qualche frammento, e cioè che quel mondo, quel racconto è lo «spazio esistenziale umano»: quel luogo selvaggio dove l’Esserci umano tende una trappola a Se Stesso, alla sua «bestialità», alla parte di sé che ancora si aggira nella foresta, per cadere, per ingannarsi, per arrivare a fingere ciò che realmente è: un imbecille, un debole, un infermo.

Sul limitare della foresta il selvaggio μύ viene coltivato per produrre μύθος, favola, racconto, metafora, simbolo: il selvaggio diventa uomo, si civilizza, «ammuccandosi» una delle metafore in onda sulla frontiera delle Muse, ossia confondendo le sue emozioni con un «sentito-dire» a cui, passando di lì per caso, ha dato orecchio. Stava passando, a quanto pare addirittura in carrozza, per quella che Parmenide chiamava la «via di Polifemo», la via lastricata delle voci umane – così come le sente il bambino che ancora ne ignora il significato «colto».

Là dove il μύ diventa μύθος – là è il Nome del Padre [o della Madre, nel caso dei misteri di Eleusi]: in quel «dove» si salda ogni nuovo anello, ogni nuovo μύ della foresta, alla «lingua umana». Quel «punto di saldatura» è un certo posto, il posto dove ciascuno conserva il suo «segreto»: lo conserva nel castone dell’anello, in cui lui stesso si trova a essere incastonato in quanto «soggetto» che si assoggetta, «resto» o «sovrappiù» appeso alla Macchina Simbolica, al μύθος appunto.

Per capirci, abbiamo dunque una serratura (la bocca) che funge da trappola: attento a quel che dici! – appena lo dici, oplà! sei caduto nel mondo delle bugie e delle seduzioni, degli adescamenti e delle metafore: sei precipitato in una «buca» sul limitare della foresta, e giù – forse su, chi lo può dire? – sei affondato nel profondo da cui sorge il baratro-paintmondo dei nomi umani, e ogni μύ che dici è condannato d’ora in poi a stare al posto di ciò che dice.
Ogni nome presente è il sostituto di un assente. I nomi umani ti incatenano, novello Prometeo, a una certa «roccia». Animale, non gridare, perché non sarai più udito! Corpo, smetti di lamentarti e manda a noi un tuo portavoce che dica, nella nostra lingua, di che si tratta!

Attento a quel che dici! – tieni chiusa sta bocca! – trattieni il segreto! – non fartelo sfuggire! – è l’ultima volta che te lo diciamo nella lingua della foresta: se vuoi stare con noi, impara l’alfabeto e, mi raccomando!, scordammece u ppassate, simm’e Napule, paisà!

A Agra, caro cucciolo, tu incontri la tua prima «nuova città». Da qui inizia la tua iniziazione al viaggio nel labirinto dei simboli, nel Paese dei balocchi o delle meraviglie: chiamalo come vuoi, è il mondo del Discorso Umano. Il mondo delle parole, delle favole e delle chiacchiere. Il mondo fatto di voci, dove a vociare è sempre l’insieme delle emozioni umane che tra loro si chiacchierano una continuazione, e una continuazione non fanno altro che sopraffarsi e mentirsi reciprocamente coinvolgendosi nell’onda di uno Stesso Inganno, di un inganno che si richiude su se stesso per negarsi l’evidenza della trappola in cui è caduto e in cui, suo malgrado, continua a cadere da un «falso» all’altro, finzione dopo finzione, fallimento dopo fallimento.

Non è a un «serrare gli occhi dopo aver visto» che, secondo me, allude il verbo μύω – a me lascia pensare piuttosto a uno stare a bocca chiusa, a un trattenere un’incontinenza verbale, a contenere una certa loquacità selvaggia. Ahimé, quella loquacità che era voce diretta del corpo, il suo balbettio (l’ho detto e lo ridico: per informazioni rivolgersi al 33° di paradiso) che allora non mentiva, non fingeva, non simboleggiava. Quel balbettio animale, quel μύ della foresta era troppo sincero per essere umano. È quel più di sincerità, che la parola deve d’ora in poi trattenere: quel più di singolarità e di realtà, che non può essere tradotto in nessuna lingua. O meglio: che può essere tradotto solo tradendolo in una metafora, solo riducendolo e storpiandolo, nella forma e nel grado permessi dai meandri del labirinto umano.

groviglio-alberi-corpi

Ora, per non perdersi, un pitagorico suppongo che si affidasse alla guida della sua propria Musa, di quella che assieme a lui «musicò» l’ultimo μύ alla frontiera (ad Agra, amore mio, ricordi?).
Ti ricordi, Eco, di quando ci separammo – e io Narciso, di questa separazione mi presi la colpa? Io a quella colpa mi assoggettai, mentendo a me stesso. La mia prima bugia fu la prima lettera che scrissi sul mio corpo.

Perciò all’iniziando si dice: serra la bocca! – torna all’inizio della tua lingua! – ritrova la tua prima Musa! – e lasciati da Lei, solo da Lei, guidare fino alla casa di tua nonna nel bosco!
E chiudi gli occhi! – non farti sedurre dalla vista delle sirene, ma ascolta la loro voce! – ascolta solo quella … e ricordi? – ne fosti così sedotto che, quando te ne separasti, quando nelle corde della tua voce quelle tonalità vennero a mancare, un resto ti restò di quell’incantesimo.

Chiudi la bocca, e ascolta! Ascolta a occhi chiusi come quando ascoltavi da bambino le voci del mondo in cui ti scoprivi giorno per giorno a essere pure tu «evocato»! Chiudi gli occhi e prova a tornare al tuo sguardo antico, alla tua «cecità» di allora, all’innocenza della tua pupilla, della pupa che avevi negli occhi. Torna allo sguardo del Re, allo sguardo che guarda ma che ancora non vede niente. Allo sguardo ignaro e innocente!
E a occhi chiusi ascolta! – e affidati, come facevi allora, lasciati andare a un racconto di Meynier-Calliopecui, come allora, ignori la trama – torna, come allora, a sentire i toni di voce, e i timbri e gli umori del racconto!

Un soggetto «umano» sboccia dal suo bocciolo serrato – dal nome in cui è rimasto intrappolato, dal canto che l’ha incantato, dal segreto in cui s’è rintanato, dal celibato a cui si è condannato.
Nessun celibe è solo, ma sempre in compagnia del segreto che custodisce nell’organo in cui gli è nata la solitudine.
Il soggetto è di casa solo in quel segreto, solo nell’intimo di quell’organo. Il soggetto non è mai nascosto, ma è sempre sulla porta, a guardia del proprio segreto. Ogni soggetto è, a sua volta, una trappola per gli altri. Seduce per intrappolare la preda. Fa il mago, ma finisce sempre vittima delle sue magie. Domandalo a Narciso, se ancora gli conviene giocare a nascondino con la sua Eco incorporea!

Non te la prendere! Bambino, non sei tu il Mago, e non lo è nemmeno il tuo «maestro di scuola». No, il solo Mago è il linguaggio, è l’inconscio del linguaggio che parla in bocca a tutt’e due!
Perciò, bambino, serra le labbra e taci!
Hai una vita davanti, tutta la vita per apprendere solo questo: che sei solo uno degli infiniti segreti del linguaggio. Dei suoi trucchi e delle sue trappole. Della sua inarrestabile produzione di desiderio.

Da qui a Eleusi, ce ne hai di strada da fare! sapessi, Eleusi quant’è lontana da casa! sappi però che, in quanto «detentore» del segreto a cui ti assoggettasti ad Agra, tu sei una casa, la sua casa – e perciò, dovunque tu andrai, contro tutte le apparenze, tu da casa tua non ti sarai di un solo palmo allontanato.
Il «segreto» che detieni, quella è la tua casa: l’inconscio del linguaggio ti ci ha intrappolato. E quando dici io, tu non nomini che la sentinella che sulla porta monta la guardia. Dici il «sorvegliante», dici l’«escluso», che tutto preso dalla paranoia di tenere alla larga gli «estranei», è il primo a estraniarsi da ciò che succede dentro casa sua.

Forse giungere a Eleusi, questo vuol dire: scoprire d’essere da sempre seduti sulla pietra di quel dolore antico, di quel selvaggio μύ, di quel tic nervoso che, allora, ancora non era una parola. Non ancora una metafora, non ancora un anello della Catena Simbolica.
Scoprire d’essere sempre stati, tutta la vita, sulla soglia della propria casa – ci scommetto: non dev’essere una bella sensazione!
C’è poco da ridere … a Eleusi!

(Ceccardo il Vecchio, Opus imperfectum ad Mattheum)