Haburi, a nome di tutti i bambini, è esposto – secondo i Warrau – a due tentazioni. O anche, se ti concedi a un imbroglio di tempi e luoghi linguistici, puoi dire che la sua immaginazione è aperta a un bivio: una via porta dritto a casa dell’Orco, l’altra conduce, attraverso mille peripezie, alla capanna della Strega. Il viaggio immaginario di ogni bambino, lo raccontano anche le nostre favole, può finire nella pancia di un Mostro cannibale e/o nella rete di malie che gli tende una Seduttrice (che altro è una ninfa, una fata, una sirena?).
Vale anche per noi ciò che i Warrau raccontano di Haburi. Vale anche per noi che non siamo, ahimé, più bambini né mai siamo stati Warrau: anche la nostra immaginazione di europei adulti del terzo millennio ha da attraversare tutto un inferno, per rimettere a fuoco la Circe che l’ha stregata e/o la Beatrice che l’ha ammaliata. Ha da farlo, s’intende, se vuole venire a capo di se stessa – a capo del filo di Arianna, altrimenti detta la Chiara Luce, la sola Guida che può trarla fuori dal labirinto del samsâra, fuori dalla selva oscura in cui è tenuta in ostaggio del suo proprio oscurantismo.
Detto in «europeo adulto», detto per esempio nel gergo di un Lacan, il mito Warrau suona all’incirca così: l’immagine che conta nell’immaginazione di un bambino, la sua alêthé, può prendere (e perciò è un «possibile» apprendista) la via dell’Odio e della Distruzione, prendere cioè la via che porta dritto al Reale, o viceversa imboccare quella dell’Amore e della Costruzione (di tutto un mondo delle «idee») che passa per i «geroglifici», i Segni, e le Parole – voilà: il Simbolico (Ermes, il guscio di tartaruga, la lira di Apollo).
Perché è nell’«apollineo», è suonando la cetra, è pizzicando le nostre corde vocali – che traduciamo in «amori» i nostri «possibili», e «amandoli» in chiave di violino ce li trascendiamo lassù, nella nostra tana sopra le nuvole, al riparo dalle seduzioni della Rana, lungi da questa Realtà che, i «possibili» di tutti i bambini, li macina per farne farina da impastare a suo piacimento.
E viceversa è nel «dionisiaco», è battendo i piedi a terra – che tocchiamo il fondo oscuro, mostruoso, della Natura di quei nostri «possibili» [peccati originali], e «mostrandoceli» così come Mamma Natura ce li ha insinuati nei bassifondi fantasiosi del nostro essere, ce li trasciniamo fin dove è possibile, ancora più giù, nell’altra tana, in quel «mondo inferiore» dove tutto ciò che Haburi da un buco avvista è selvaggina, preda da cacciare o da pescare, preda in ogni caso da catturare e divorare.
Apollo e/o Dioniso: due vie a cui è tentata di spingersi l’immaginazione di un bambino.
Stiamo parlando dunque di un viaggio, il cui viandante è il Possibile di un’immaginazione infantile. E stiamo parlando di un fatto strano che avviene durante lo strapazzo del viaggio: qualcuno «perseguita» la Mamma, una bestia feroce le sta alle calcagna, la Lingua nel Nome del Padre le vuole strappare il bambino, lo vuole mandare a scuola perché, dice, quel bambino appartiene alla patria potestà di una Tribù o di uno Stato.
E la Mamma che fa? Bussa alla porta della Strega. Finisce cioè per farsi scippare la maternità dalla prima Seduttrice che capita.
Ma cerchiamo di stare ai fatti, perché – come il Racconto racconta – il fatto strano è che
Wau-uta fece crescere magicamente il bambino sino a farne un adolescente …
Questo, signore e signori, è il Fatto – e chi lo fa, non a caso è una Fattucchiera. Signore e signori, ecco a voi la Rana. Da Lei e da nessun’altra, quando ancora eravamo bambini piccoli e ciechi, siamo stati affatturati.
Wau-uta, la Rana, è la Strega che ci ha stregata l’immaginazione da bambini – Colei che magicamente [qui Lacan direbbe: precocemente] ci ha fatto fare da bambini le immaginazioni degli adulti.
Haburi è un bambino, ha il corpo sessualmente acerbo di un bambino, e quella – la Strega – lo seduce (Omero dice: vuole solo farne un porco del suo porcile) iniziandolo alle forme adulte, sessuate, dei suoi, ancora erranti, desideri. È solo un bambino, ma la Rana sa fare questa magia: sa trattarlo già da adulto!
Ecco di che cosa stiamo parlando.
Stiamo parlando del Fatto in cui necessariamente s’incrociano, non solo Lévi-Strauss con Lacan, ma ogni viandante con tutti gli altri viandanti che, come lui, sono in cerca soltanto del capo del filo dei loro pensieri.
Stiamo parlando della «precocità» con cui la Natura ci strega a dispetto del nostro stesso corpo. In anticipo sulla pubertà e l’adolescenza. Wau-uta, la Fattucchiera ci ha fatti, rifatti e strafatti, che eravamo ancora bambini piccoli e ciechi. Eravamo dinanzi allo specchio, avevamo gli occhi, ma non vedevamo finché non abbiamo visto Lei, l’immagine che conta, l’immagine che ha aperto il conto e il racconto alle nostre immaginazioni, quella che ci ha detto: «io sono il tuo possibile: realizzami».
Io sono il tuo «bello naturale», io sono la Bellezza – non il nome, non il segno che in sua assenza, come quell’ormai mitico rocchetto di filo, sostituisce la tua Mamma. No, io sono Bellezza – l’Amata e la Disprezzata «reale».
Questo, senza parole, ma semplicemente mostrandosi, ci ha detto la Rana di giorno, la Bellissima di notte. E, senza verbalizzarlo, ma semplicemente incarnandolo, ci ha stregati.
Ci ha stregati semplicemente perché Lei, solo Lei, Afrodite, conosce il Trucco per cui un bambino s’immagina già adulto: è il Trucco della Seduzione. Piccola cosa, d’accordo, solo un pertugio da cui si spia però tutto un mondo di selvaggina.
Haburi è un bambino, ma la Strega, Mamma Natura, invece di fare ciò che fa una mamma, si comporta da Matrigna: invece di allattarlo lassù sulla Via Lattea, invece di trattarlo come un figlio, lo seduce, lo tratta da amante e ci vuole fare all’amore quaggiù in anticipo sullo sviluppo del suo corpo.
… affinché egli divenga più rapidamente il proprio amante, la rana accelera magicamente la crescita del bambino Haburi, e quindi ne allunga il pene.
Toccherà poi alle lontre «far tornare bambino» l’eroe, restituendogli la sua infanzia dimenticata e riconducendolo a sentimenti più filiali.
(Lévi-Strauss, Dal miele alle ceneri)
La Rana è Afrodite che s’affretta ad asservire l’immaginazione dei bambini alla riproduzione della Specie. Precocità, fretta, accelerazione, anticipo sui tempi, sfasamento delle stagioni.
Questo, signore e signori, è il Fatto. E la Natura è la Fattucchiera che «allunga il pene» ai nostri possibili infantili. Lo fa per dispetto, lo fa per vendicarsi del Sole, e di chiunque voglia «fare luce» sui suoi movimenti «perversi».
E Giaguaro-Nero, in tutto questo, dove lo mettiamo? Qual è la sua parte nella messinscena del Racconto?
La parte dell’Orco che si mangia i bambini, d’accordo – ma non basta.
È come se li mangia, in quale modo tentandoli e seducendoli: è questo che bisogna mettere a fuoco.
Anche qui il Racconto ci dà un indizio: al cospetto di Giaguaro, il bambino è tenuto a passare l’esame dei Segni e delle Parole.
Anzi, il Racconto è più preciso. Dice che a essere sottoposto all’Esame del Giaguaro, è il «padre soprannaturale» del bambino. E dice che questo padre il Giaguaro se l’è pappato, e che il padre non è più, e che c’è quest’altro che pretende di farne le veci, assecondando così la vocazione «vicaria» che è propria di ogni Segno.
È strano, non vi pare?, che l’Orco assassino in fondo non voglia altro che questo: vuole il bambino, lo vuole asservire ai suoi Segni, al suo Simbolismo di Stato, di Parrocchia o di Tribù.
L’esaminando deve dire al Professore, in ordine crescente, l’elenco di tutti gli animali della foresta, dal più piccolo al più grande, dal meno al più feroce deve numerare pari e dispari di una certa qual tabellina pitagorica, e guai a lui se sbaglia!
Perché qui è in gioco l’altra Seduzione, qui è aperta l’altra via alla nostra immaginazione infantile – la via al Simbolico, la via a un sistema ordinato di più Segni, la via alla Cultura, la via all’«apollineo».
Quando l’Orco si chiama, come nell’Odissea, Polifemo – comincia a diventarci un po’ meno oscuro il cosiddetto mito della Caverna. L’esame della Caverna lo passa chi sa districarsi nel Paese delle «molte voci» (questo significa Polifemo), chi quelle voci sa metterle in ordine e soprattutto sa che non deve fare la fesseria di dire per nessuna ragione il suo proprio nome.
Non è così che si tradisce Giaguaro? Non si fa scoprire quando, dormendo, chiama per nome il Morto di cui ha preso il posto? Non è questo il tallone di Achille di ogni Segno – di essere soltanto un cane in cui soltanto un pitagorico può giungere in un azzardo di follia a risentire l’eco di un Morto?
Quando lo Stato, non pago di aver ucciso il tuo «padre sovrannaturale», ti entra addirittura in casa e pretende di prenderne il posto, dimmi: come fai a non vedere Giaguaro dietro il suo paternalismo? Non vedi che, a uno a uno, Polifemo si sta mangiando i tuoi compagni di viaggio? Chi in un angolo della Chiacchiera, chi in un altro – tutti li ha ammaestrati a prendere alla lettera la loro tabellina pitagorica di verità e di certezze: come fai a non vedere che è centomila volte preferibile bussare alla porta di una Fattucchiera?
Perciò, ricorda!, tua madre ti portò a casa della Matrigna. Preferì consegnarti a lei, invece di vederti ridotto così: a suonare la cetra, a fare la serenata a una Bellezza Ideale.