Scrive san Giovanni della Croce: «La natura umana, se nel Paradiso terrestre fu rovinata e votata alla perdizione assaporando il frutto dell’albero proibito, tuttavia fu da Dio redenta e riabilitata mediante l’albero della croce».
La croce è, dunque, il mezzo di redenzione dell’uomo. Essa sta nel mezzo della via che riconduce l’anima umana alla sua purezza originaria. Per giungere a questo mezzo è necessario inoltrarsi nella notte dell’anima che è, anzitutto, notte dei sensi. Croce e notte sono la via alla luce del cielo. Inoltrarsi nella notte è immergersi nell’oscurità, farsi inghiottire dal buio.
Tuttavia, ciò che s’immerge nella notte non è annientato; continua ad esistere, ma indistinto, invisibile e informe come la notte stessa, oppure sotto forma di ombre, di fantasmi e quindi gravido di minaccia.
Il nostro essere non è minacciato solo esteriormente dai pericoli in agguato nella notte, ma colpito anche interiormente dalla notte in se stessa che ci toglie l’uso dei sensi, ci blocca i movimenti, ci paralizza le energie, ci confina nella solitudine, riducendo anche noi ad ombre e fantasmi vaganti nel buio. La notte è quasi un presagio della morte.
È però solo su questa «soglia della morte» che è possibile udire l’eco del messaggio della croce. Anzi, più precisamente ancora, è solo dopo aver attraversato il deserto della notte, solo dopo, che l’anima umana comprende il senso di ciò che ha udito lungo la via. Solo dopo essa sa di aver appreso la «scienza della croce».
Infatti, solo l’anima che è finalmente giunta allo stato di riposo, solo l’anima che ha ridotto al silenzio i suoi appetiti grossolani, è capace di quel distacco che è la prima regola di questa «scienza».
Il distacco è la notte che l’anima deve attraversare. Come dice il salmista: «Nella terra deserta, impraticabile e senz’acqua, io a te mi presentavo nel tempio santo, per contemplare la tua potenza e la tua gloria» (Salmi, 62: 3). Solo l’anima che ha raggiunto uno stato di totale nudità, di vuoto e di povertà, staccandosi da tutto ciò che è mondano, solo quest’anima è in grado di passare dalla tenebra del mondo nella Notte mistica.
Gli appetiti mondani stancano e tormentano l’anima, la offuscano, la macchiano e l’indeboliscono, e soprattutto la derubano dello spirito di Dio, sfigurandola fino a ridurla all’istinto animale. Nel mezzogiorno di questo mondo essa si affatica a cercare la soddisfazione dei suoi appetiti, ma intanto non vede che questo mezzogiorno è così buio che mai ne uscirà un solo spiraglio di luce.
Viceversa, l’anima che si è immersa nella Notte e che si mortifica nella rinuncia alla luce apparente, l’anima che cade in preda ai dubbi e alle paure dell’annientamento della notte, dopo lungo e penoso travaglio giunge all’aurora di una nuova vita e vede se stessa avvolta di una nuova luce, di una luce che è della stessa materia della luce trasfigurante del Tabor.
La fede è, dunque, la via oscura della notte che conduce all’unione con Dio. Solo la fede dà la possibilità di sperimentare e assaporare Dio. Questa è la via stretta che soltanto pochi trovano (Matteo, 7: 14). È la via che conduce sull’alto monte della perfezione. È la via che può essere battuta solo da coloro che non sono oberati e trascinati in basso da nessun carico.
È la via della croce cui il Signore invita i suoi discepoli: «Chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; e chi perderà la sua vita per amor mio … la salverà» (Marco, 8: 34 ss.).
Prima di giungere alla vetta del monte, c’è però molta strada da fare e Dio vi conduce l’anima soltanto per gradi. Ma quando l’anima finalmente ha scalato il monte della croce, immensa è la distesa che si schiude davanti al suo sguardo: è il regno dello spirito che allora essa può finalmente vedere, e può vedere se stessa trasfigurata dalle quattordici stazioni della via crucis, dalle pene e sofferenze che ha dovuto affrontare per giungere lassù. Ora essa vede sotto i suoi piedi spalancarsi l’abisso della fede.
Anzi, più propriamente, quest’abisso l’anima ora lo vede in alto; ora l’anima comprende che la discesa nelle sue stesse profondità in realtà è stata un’ascesa, un’elevazione.
Sulla cima di questo Paradiso, al polo della sua stessa intimità, l’anima raggiunge infine l’Empireo. E qui una nuova notte l’avvolge, una notte differente dalla tenebra del nostro mondo. È la notte del Mistero divino, la notte dell’inconoscibilità della Fonte del suo, come di ogni, essere. Perciò, come dice il salmista, là l’anima se ne sta «nascosta, al riparo del Volto di Dio, dalle umane congiure» (Salmi, 30: 21).
In questo nascondiglio fondo e buio l’anima finalmente sta al suo posto, a casa sua. Sembrerà strano, ma è purtroppo un dato di fatto che l’anima ordinariamente non sta al suo posto. Esistono solo poche anime che vivono davvero racchiuse nel loro intimo e che attingono la linfa dal loro intimo. E ne esistono ancor meno che ci vivono e ci permangono in modo stabile e duraturo …
Dentro serti di spine si nasconde dunque la gioia vera dell’anima, il suo fine, il senso della sua esistenza.
Beato colui che, coronato di spine, fu crocifisso e messo a morte, perché a lui fu accordato il privilegio di risorgere, di «nascere una seconda volta dall’alto» (Giovanni, 3: 3) e di vedere il Regno dei cieli.
(Edith Stein, Scientia crucis)