Kerényi – Nemesi, Elena, l’offesa e la vendetta

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All’inizio, o quasi all’inizio, di quel grande poema epico che cantava gli antefatti dell’Iliade, i Kypria (i «Canti ciprii»), aveva luogo una scena mitica senza pari in tutta la letteratura greca. Essa si riferiva alla fuga della grande dea Nemesi. Zeus la insegue con brama amorosa, nel mare e nell’Okéanos, dove essa assume la forma di un pesce, e sulla terra, dove la dea gli sfugge sotto le sembianze di animali terrestri.
A questo punto s’interrompe la citazione che ci ha conservato parte della scena, mentre i compendi ci raccontano che alla fine Zeus raggiunse Nemesi nell’aria. Il dio in forma di cigno, la dea in figura di oca selvatica, animale di un mondo palustre primordiale, celebrarono le divine e animalesche nozze, il cui frutto doveva essere, per gli uomini, la più bella donna e il più grave destino: Elena.

Ove qui si rinunci a dare il rilievo più grande al momento più impressionante, cioè alle nozze stesse del cigno, nulla è più facile di constatare una ben nota storia di metamorfosi, o più precisamente, il motivo della «fuga magica», inquadrando così tutto il mito nel catalogo dei motivi fiabeschi.
La cartografia di questa fiaba, i cui eroi naturalmente soltanto in Grecia si chiamano Zeus e Nemesi, è stata abbozzata da Leo Frobenius. Essa abbraccia tutta l’Europa, l’Asia Pollock-dueanteriore e centrale, l’India anteriore, parti dell’Africa e dimostra tracce della diffusione anche nell’America nord-occidentale.
Si tratta di uno dei tanti esempi che per Frobenius dimostrano l’esistenza di un particolare mondo di fiabe europeo o continentale, distinto da quello oceanico o pacifico. Secondo una sua ulteriore osservazione, questo mondo di fiabe rivelava le maggiori possibilità di sviluppo sul suolo russo-asiatico, mentre in Occidente, al contrario, dava segni di impoverimento e di rarefazione.

Ciò vale anche per il nostro caso: i più bei paralleli per i singoli particolari del mito greco sulla nascita di Elena da un uovo o su quelle primordiali nozze di uccelli della palude si riscontrano presso i popoli ugro-finnici della Russia.
Il poema epico estone Kalevipoeg, composto nel sec. XIX dal materiale di antichi canti popolari e tradizioni, contiene un racconto sulla nascita della bella Linda, madre dell’eroe, da un uovo di gallina di montagna casualmente ritrovato.
È già stata rilevata la sua analogia con la nascita di Elena. Particolarmente affine al racconto estone è quella forma del mito greco, secondo cui Leda trova l’uovo in un luogo paludoso o boscoso.
Il motivo della «fuga magica» si ritrova in un mito cosmogonico del popolo siberiano dei Voguli. Il dio, detto «l’Uomo che sorveglia il mondo» [Avalokitešvara], ma anche «la bianca Gru», perseguita il dio nemico Pareparsec attraverso tutte le metamorfosi, finché in piume dorate di oca accorre a nozze con una sposa in candide piume di cigno, la Signora di tutti gli uccelli acquatici. […]

La Nemesi del poeta dei Kypria è la vendetta cosmica: essa lo è anche contro se stessa, quando il suo pudore verginale, il pudore di un giovane essere della natura, viene minacciato dalla brama divina.
La sua fuga e le sue metamorfosi dimostrano, secondo le intenzioni del poeta, la validità universale di lei quale ordinamento spirituale esistente che si può riassumere in queste parole: ciò che viene offeso, si vendica.
Tale ordinamento non si lascia sopraffare: Nemesi è se stessa al più alto grado e nel modo più eminente proprio quando e in quanto è essa stessa a subire un’offesa e a venire apparentemente sopraffatta. L’offesa moltiplica lo spirito della vendetta: Nemesi partorisce e rinasce in sua figlia, Elena. […]

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La figura della dea Nemesi, come la concepivano i Greci del periodo classico, sarebbe perfettamente incomprensibile, se noi volessimo avvicinarla partendo per esempio dal concetto della rappresaglia e non dalla realtà femminile primordiale, della femminilità primordiale di fronte all’irresistibile volontà maschile.
Questa tenace connessione tra la dea della vendetta e la natura selvaggia senza legge del mondo animalesco, è un fatto che dà da pensare. Essa fa intuire la femminilità di un mondo primordiale e, nello stesso tempo, definisce il posto ideale della dea ai margini spaziali e temporali del mondo. […]

La primordiale realtà della donna, concettuale e amorfa, oppure, ciò che è la stessa cosa, di forma ibrida e mutevole, in quanto essa rappresenta la femminilità non limitata alla specie umana – questo è quanto ci rimane, se noi prescindiamo dall’ultima stilizzazione spirituale dei Kypria.
Non è necessario che tale figura primordiale porti il nome di Nemesi. Le si potrebbe dare per nome una parola che significasse «fanciulla» o «donna» o «femmina», ma in un senso più largo di quello umano, pur senza abbassarla al puramente animalesco.

Ed è anche indubbio ciò che appartiene ancora assolutamente alla totalità naturale di questo essere. All’essere femminile appartiene il bambino – a questo essere però la surreal-donna-nidoforma più primordiale del bambino: l’uovo.
Le nozze degli uccelli sono seguite dalla deposizione delle uova, dalle quali nascono i gemelli divini: i dioscuri Castore e Polluce, e le donne fatali: Elena e Clitennestra.
Nella versione più nota del mito – al posto di Nemesi – appare una donna mortale, Leda: così si chiama, infatti, universalmente l’amata del cigno mitico – foneticamente corrisponde a lada, parola micro-asiatica che significa «donna» o «signora». Essa porta quindi effettivamente il nome che sarebbe stato adatto a quell’essere primordiale che in greco veniva chiamato, per un qualsiasi motivo, col nome Nemesi. […]

Nel mito di Nemesi la femminilità primordiale parla della propria natura già per il solo fatto che essa partorisce la sua figlia fatale, e precisamente la più bella e la più fatale di tutta la mitica storia universale: Elena. I Greci stessi comprendevano questo linguaggio simbolico: ne hanno dato prova, imponendo alla madre di Elena, che prima probabilmente si chiamava semplicemente la «donna», Leda, il nome Nemesi.
La parola «nemesi» esprime l’idea dell’ira giusta, ma qualche volta anche di quella ingiusta, che però è causata sempre o provocata da colui che ne verrà colpito. […]

Noi tutti conosciamo l’antichissimo insegnamento, secondo cui la sofferenza, come punizione, è venuta nel mondo per mezzo della donna. Esso, in formulazione mitica antico-orientale, sta all’inizio della nostra Bibbia.
Come si spieghino i singoli dettagli del racconto biblico sul Paradiso, non ci riguarda in questo contesto. Il momento principale è fuori ogni dubbio: il racconto ci narra che il comportamento tipicamente femminile della prima donna, per punizione collega inseparabilmente la miseria e la morte al destino umano.

E non è soltanto qui che noi incontriamo un antichissimo racconto che additi nella donna la sorgente della sofferenza terrena e, nello stesso tempo, concepisca ogni sofferenza come meritata. Anche i Greci avevano questa stessa singolare concezione Rafferty-Nemesidella femminilità e della sofferenza umana, espressa in forma mitica.
Non ci è tramandato un racconto antico-ellenico della creazione del primo uomo, ma abbiamo quello della creazione della prima donna, Pandora.

Esiodo ci racconta ripetutamente come essa – il bel male (καλόν κακόν) – è stata creata per punire l’umanità. Il genere umano è implicato infatti nella punizione del delitto di Prometeo, e la sua punizione è la donna, la sorgente più propria della sofferenza.
«Prima gli uomini erano senza sofferenza, fatica e malattia – raccontano Le opere e i giorni – ma la donna tolse il coperchio del pithos, per creare agli uomini gravi amarezze».

In quel vaso misterioso, il pithos, di cui Esiodo non ci racconta alcun particolare, erano relegati i mali fino a quel momento. Ora però, che l’uomo possiede la donna e gode della sua bellezza, egli ha anche i mali.
Voler far risalire questo insegnamento all’esperienza personale del poeta, sarebbe in contrasto con tutto lo stile della vita antica, che anche le cose più soggettive riconosce soltanto nelle solide forme tradizionali e che rispecchia soltanto esperienze antichissime.
Quando, nella Teogonia, Esiodo crede di dover motivare più estesamente perché la donna sia un male, egli tradisce soltanto quanto egli stesso, un greco del solido mondo di Zeus, sia già lontano da quella primordiale esperienza umana, dalla quale deriva l’insegnamento del mito di Pandora.

Su quell’esperienza primordiale che è alla base di ogni mito sulla natura della donna portatrice di sofferenza, gettano luce le recenti ricerche sulla confessione dei peccati.
Quest’uso, diffusissimo in tutta la terra, che i Greci autentici dei tempi storici respingevano con sdegno, in condizioni primitive appartiene alla sfera di dominio della Tlazolteotldonna.

Nel Messico antico – per citare qui un solo esempio – la confessione veniva praticata nel culto di Tlaçolteotl, «dea della sozzura», una forma di quella «Madre degli dèi» che, a sua volta, rivela un’impressionante somiglianza con la «Grande Madre» e «Signora degli animali» dell’Asia minore.
Nell’America antica e nell’Asia minore antica è la più femminile di tutte le dee – la natura femminile stessa elevata al grado di dea universale – quella che invita alla confessione dei peccati. E il peccato per eccellenza che viene confessato – dappertutto, non solo nel Messico – è il peccato sessuale, cui si associa un singolare senso di colpevolezza: ci si sente privi di ogni cattiva intenzione, eppure cause di conseguenze dannose che bisogna espiare.

Si possono portare numerosi esempi per questa specie arcaica del senso di colpevolezza e per la sua connessione con la vita sessuale. Frobenius mi ha fatto notare che in ambienti molto primitivi vi è una chiara connessione anche fra la confessione dei peccati e la caccia o, in generale il contatto col mondo degli animali.
Non tento di dare un’analisi. La connessione tra donna e punizione, ove la femminilità sia concepita nel suo carattere animalesco e in una sola unità col mondo degli animali, sembra essere un’esperienza primordiale. A noi basta comprendere che qui siamo di fronte a un’unità «naturale».
L’autentico simbolo della femminilità che la natura formava del proprio materiale, aveva nei suoi caratteri quel qualcosa di minaccioso e inevitabile che faceva dire ai Greci di un’epoca antichissima: questa donna primordiale, questa «Leda», è la Nemesi stessa.

(Kerényi, Miti e misteri)