Un mito tibetano racconta che dal Vuoto Primordiale scaturì una luce azzurra che produsse un Uovo, dal quale si schiuse l’Universo. Un altro mito narra che la Luce Bianca diede nascita ad un uovo dal quale uscì l’Uomo Primordiale. Infine, un terzo mito dà la seguente versione: dal vuoto nacque l’Essere Primordiale e questi irradiò la Luce.
Come si vede, secondo questi miti, sia il Cosmo sia l’Uomo Primordiale sono nati dalla Luce, e in fondo sono sostanziati di Luce.
Un’altra leggenda spiega com’è avvenuto il passaggio dall’Uomo-Luce agli esseri umani attuali.
Al principio, gli uomini erano asessuati e privi di desideri sessuali; avevano in loro la Luce e la irradiavano. Il sole e la luna non esistevano. Ma quando l’istinto sessuale si risvegliò, negli uomini si formarono gli organi sessuali, ma in essi la Luce si spense e il Sole e la Luna apparvero in cielo. […]
Secondo queste credenze la luce e la sessualità sono due princìpi opposti: quando prevale l’uno, l’altro non può manifestarsi, e viceversa.
Forse sta qui la chiave del rito tantrico del maithuna (l’unione sessuale con una «fanciulla» incarnante la Šakti). Il «cerimoniale» di questo rito è a imitazione del «gioco» divino, e perciò non si deve concludere con l’emissione del seme.
Se il destarsi della sessualità fa sparire la Luce, vuol dire che la Luce non può che essersi andata a nascondere nell’essenza stessa della sessualità, nel seme dell’uomo. E così, quando l’uomo compie l’atto sessuale accecato dall’istinto, cioè come qualsiasi altro animale, la luce gli resta celata. Essa si rivela – in una complessa esperienza d’illuminazione, di gnosi e di beatitudine – se l’unione diventa un rito o un «gioco» divino: cioè se, arrestando l’emissione del seme, si annulla la finalità biologica dell’atto sessuale.
Visto in questa luce il maithuna appare come uno sforzo disperato per ricreare la situazione primordiale, quando gli uomini erano esseri luminosi e si perpetuavano attraverso la luce.
Di questa «disperazione» non c’è però traccia nei testi tantrici: nessun yogin si propone coscientemente questo scopo. Si propone semmai di dare un’altra possibilità alla Luce interiore. Si propone di «sperimentare» la Chiara Luce della gnosi, della coscienza nirvanica – e questa è una giustificazione sufficiente per una tale audace pratica.
Ma in tutto un gruppo di credenze indo-tibetane – connesse sia col mito dell’Uomo Primordiale irradiante luce, sia con le ideologie e tecniche tantriche e alchemiche – si parla di certi yogin che hanno reso immortale il loro corpo.
Questi yogin non muoiono, ma scompaiono in cielo rivestiti di un corpo chiamato «corpo-arcobaleno» o «corpo-divino».
(Eliade, Mefistofele e l’Androgino)
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Siamo noi che «disperiamo», noi che fatichiamo a venire a capo di noi stessi. Perché per venire a noi stessi, a volte ci tocca venire a contatto con gli altri (e non solo coi monaci tibetani) tramite le nostre parole, tramite i geroglifici di cui ci armiamo per avventurarci nel loro mondo; altre volte invece sono gli altri (e non solo Eliade) che si trovano (per caso?) a fare da tramite tra noi e certe «parole», diciamo così, enigmatiche.
Nell’un caso sono gli altri – qui i tibetani – l’enigma da sciogliere; nell’altro invece il rischio è di finire dritti nel cul-de-sac delle parole di un libro – come, per es., qui di Eliade.
Primordiale – bella parola, non c’è che dire. Ma a quali «primordi» questa sua «bellezza» ci rinvia? Ai primordi del mondo, quando ancora il mondo non parlava nessuna parola, o a quelli della parola, quando la parola ancora non sapeva d’essere, essa, già da sempre il Mondo?
Cosa dobbiamo pensare quando il traduttore, per tradurci nel suo Tibet, tira il sasso e nasconde la mano? insomma: dov’è che ci vuole tradurre, quando di chissà quale oscuro ideogramma tantrico egli fa semplicemente un «vuoto primordiale» e, come se niente fosse, passa avanti?
Quel «vuoto» è un vuoto fisico o verbale? È un «vuoto» nelle cose, nei corpi, o nelle parole?
Disperiamo di venire a capo del nostro enigma – perché il nostro enigma è continuamente scisso tra le cose e le parole, e perché la nostra immaginazione è sempre al bivio tra la Realtà e i Segni con cui ce la simboleggiamo.
Perciò, non è tanto il Vuoto che è Primordiale – perché, come diceva la buonanima di Anassimandro, il mondo della nostra immaginazione è ovunque e sempre «pieno di dèi». Vuoto è, semmai, il Primordio: vuoto di realtà e di simbolismo, allo stesso tempo.
E così pure, non è tanto la Luce che è Primordiale: è semmai il Primordio a godere di una propria «luminescenza», a irradiare quella luce (hai mai visto il sorriso di un bambino ancora nella culla?) che, a quanto pare, è destinata a spegnersi o, comunque, a farsi catturare e imprigionare in una Realtà delle cose o in una Verità delle parole.
Le parole ci spiegano, o almeno questo presumono di riuscire a fare – ma le cose, intanto, ci impiegano.
E insieme: le parole ci prendono in una loro piega (del genere καλεῖν καλόν), ci tirano in un loro «gioco» di seduzione – ma le cose, intanto, soprattutto le cose «animate», e in particolare le «anime» della nostra Specie, esercitano su di noi una seduzione ben più potente.
Una seduzione così potente che ci riesce difficile prenderla per un «gioco». Chissà come mai, fa presto a diventare una cosa «seria», una specie di crimine «seriale» che ripete sempre la stessa Crudeltà.
Il nostro enigma è, dunque, preso in una doppia fascinazione: fisica e verbale.
Dacché il nostro Primordio è «catturato» in una seduzione, non c’è più Vuoto, non c’è nirvana.
Siamo pregati di non fingerci fuori da questo duplice inganno, e di non salire su nessuna cattedra a spiegare, nientemeno!, il Mondo agli altri.
È la nostra Immaginazione, la Luce – il Primordio.
La nostra Immaginazione non è che un organo della Luce. Un organo nato da un seme della Luce. Della Luce nascosta nel seme della nostra Specie. Di quella che Lucrezio chiama alma Venus: la Luce che «alimenta» seducendo.
Ogni seduzione è una «cattura immaginaria».
Così la Luce ci «feconda»: facendoci catturare a vicenda, un vivente nella vita dell’altro, un parlante nella parola dell’altro.
La nostra Immaginazione cattura ed è catturata. Sorride già a sei mesi, e quel sorriso è la parola di un’immaginazione che ancora è vicinissima alla Luce. Gode, trionfa e giubila scambiando smorfie con la sua propria immagine allo specchio: gioca a catturare e a farsi catturare dal proprio narcisismo.
È a questo gioco che noialtri disperiamo di poter ancora giocare. Noi sì, e i tibetani forse no. Forse essi ancora ci sperano, forse perché parlano parole che ancora li seducono talmente da dargli l’illusione di poter riassaporare quel Possibile là, quello balenato per un istante al loro occhio «monacale» dinanzi allo specchio, di poter rivedere la Chiara Luce della propria «monade» vestita appena, timidamente, dei primissimi colori dell’arcobaleno.
Se nessuna Bice ti seduce, tu non dirai mai d’aver visto Beatrice – né mai giocherai ad anagrammare il suo nome, a cercarvi una rima o un’assonanza.
Non giocherai mai all’amore, finché non capirai che l’amore è il «resto» di un gioco di parole, a cui è rimesso il destino postumo di un desiderio sorto da uno sposalizio con la Luce della nostra immaginazione.
Ovunque tu la porti una qualunque tua immaginazione, provi a spiegarla con le parole, o a impiegarla in una relazione reale – la porti nel Simbolico, o la spingi nel Reale – sarà sempre il Primordio a «riempirsi», sempre la Luce a «opacizzarsi», sempre l’Oriente a «disorientarsi».
Venire a capo di noi stessi – è rinvenire a quel Possibile, che fu punto e a capo il nostro Grande Rimosso. (Il bambino dinanzi allo specchio, a diciotto mesi, già più non ride. Che gli è successo?)
I tibetani, lasciamelo dire, non sono solo monaci, anzi forse non hanno niente a che fare coi nostri monaci. Ma se in qualche modo lo sono, sono monaci ingenui. Godono di quella ingenuità che noi abbiamo perduto nei nostri discorsi seri. Godono di quel modo ingenuo, infantile, poetico di entrare nel Mondo – di entrarci, come Dioniso, nascendo due volte – di entrarci per le due porte del ditirambo giocoso (Bice/Beatrice): nascendo alla Realtà delle cose, e nascendo ai Segni e alle Parole del Mondo simbolico.
Per venire a capo di noi stessi – non basta ahimé pensare il nostro Inizio.
Dovremmo riuscirlo a pensare in modo iniziale: così come lo pensava mentre lo viveva la nostra ingenuità, così come il nostro Inizio se lo scriveva nelle pieghe delle sue proprie «luci».
Perciò disperiamo. Perché ogni parola che scriviamo non fa più rima, neanche alla lontana, con una «cosa reale».
E io sono solo un logorroico che non si rassegna al suo ingenuo silenzio.
Nietzsche dice che uno dovrebbe parlare di una sua malattia solo dopo, solo quando l’ha superata.
Non credo che il suo avvertimento faccia al caso mio.