Baudrillard – Più è povero, più il poeta gode

rifiuti

La linguistica non fa che recuperare gli avanzi, i rifiuti, i segni usati, ma non consumati. È soltanto questo stadio del «rifiuto» che la linguistica recupera, lo stadio di un linguaggio funzionale, che poi essa universalizza spacciandolo per lo stato «naturale» di qualsiasi linguaggio.
Essa non immagina niente di diverso.

Come i romani e gli etruschi dividevano il cielo mediante rigide linee matematiche e in uno spazio delimitato, oltre che in un templum, scongiuravano un dio – così ogni popolo ha sopra di sé un simile cielo di concetti matematici ripartiti e, sotto l’esigenza della verità, intende ormai che ogni dio concettuale non sia cercato da nessun’altra parte che nella sua sfera.
(Nietzsche, Il libro del filosofo)

Così fa la linguistica: essa costringe il linguaggio in una sfera autonomizzata a sua immagine – essa fa finta di trovarla «oggettivamente» là dove l’ha inventata e razionalizzata di tutto punto.
Essa è incapace d’immaginare un altro stato del linguaggio, diverso da quello dell’astrazione combinatoria di un codice (la Langue) dotato d’una manipolatoria Bosch-bocca-spalancataindefinita della parole o, per dirla altrimenti, della speculazione (nel duplice senso del termine) in base a un’equivalenza generale e a una libera circolazione – ciascuno usando le parole a suo piacimento e scambiandole secondo la legge del codice.

Ma supponiamo uno stato in cui i segni linguistici siano deliberatamente contingentati (come il denaro presso gli ara-ara): diffusione ristretta, niente «libertà» formale di produzione, di circolazione né di uso.
O piuttosto un doppio circuito:
– quello delle parole «liberate», usabili a piacimento, circolanti come valore di scambio – zona del «commercio» di senso, analoga alla sfera del gimwali nello scambio economico;
– quello d’una zona «non liberata», sotto controllo, d’un materiale riservato all’uso simbolico, in cui le parole non hanno né valore d’uso né valore di scambio, non sono né moltiplicabili né proliferabili a piacimento – analoga alla sfera del kula per i beni «preziosi»: in questa sfera non vale affatto il principio di equivalenza generale, né quindi l’articolazione logica e razionale del segno di cui si occupa la «scienza» semio-linguistica.

Il poetico ricrea in materia di linguaggio questa situazione delle società primitive: un corpus ristretto di oggetti la cui circolazione ininterrotta nello scambio/dono suscita una ricchezza inesauribile, una festa dello scambio.
Rapportati al loro volume o al loro valore, i beni primitivi si riducono a una penuria quasi assoluta. Incessantemente consumati nella festa e nello scambio, rappresentano, col loro «minimo di volume e di numero», quel «massimo di energia nei segni» di cui parla Nietzsche, o quella vera società dell’abbondanza, la prima e l’unica, di cui parla Marshall Sahlins (nella rivista Les Temps Modernes, ottobre 1968).

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In essa le parole hanno lo stesso statuto degli oggetti e dei beni: non sono disponibili in qualsiasi momento per tutti, non c’è «opulenza» di linguaggio.
Nelle formule magiche, rituali, regna sempre questa restrizione che sola preserva l’efficacia simbolica dei segni. Lo sciamano, il vate, operano su fonemi o formule contate, codificate, limitate, esaurendole in una organizzazione massimale del senso.
Come la formula è pronunciata, nella sua esattezza letterale e ritmica, così essa incatena l’avvenire – non per quel che essa significa.

Lo stesso vale per il poetico, che si definisce per il fatto di operare su un corpus ristretto di significanti, e di mirare alla sua completa risoluzione.
Ed è proprio perché il poetico (o il rituale linguistico primitivo) non mira alla produzione di significati, ma al consumo esatto, alla risoluzione ciclica d’un materiale significante, che esso si dà necessariamente un corpus limitato. La limitazione non ha qui niente di restrittivo e di penurico: è una regola fondamentale del simbolico.
Viceversa, il carattere inesauribile del nostro discorso è collegato alla regola dell’equivalenza e della linearità – esattamente come l’infinitezza della nostra Mirò-pupoproduzione materiale è inseparabile dal passaggio all’equivalenza nel valore di scambio (è questo infinito lineare che alimenta, nello stesso tempo, in ogni momento del capitale, la povertà data e il fantasma d’una ricchezza finale).

Il significante che si raddoppia e ritorna su se stesso per abolirsi – è lo stesso movimento del dono e contro-dono, il donare e il rendere, reciprocità in cui si abolisce il valore di scambio e il valore d’uso dell’oggetto – medesimo ciclo perfetto che dà come risultato un nulla del valore, e su questo nulla gioca l’intensità del rapporto sociale simbolico e il godimento della poesia.
Si tratta qui di una rivoluzione. Ciò che il poetico compie microscopicamente su un valore/fonema, qualsiasi rivoluzione sociale lo compie su interi settori del codice del valore: valore d’uso, valore di scambio, regole d’equivalenza, assiomi, sistemi di valori, discorso codificato, finalità funzionali, ecc., mentre la pulsione di morte vi si articola per volatilizzarli.

Perfino l’operazione analitica si compie allo stesso modo: contrariamente alla scienza come processo di accumulazione, la vera operazione analitica è quella che annienta il suo oggetto, che ne viene a capo.
Il termine dell’analisi – non della sua finalità «costruttiva», ma la sua vera fine, è questa volatilizzazione del suo oggetto e dei suoi stessi concetti – o ancora: è l’atto del soggetto che, lungi dal cercare di dominare il suo oggetto, accetta di essere analizzato a sua volta, movimento grazie al quale si disfano irrimediabilmente le rispettive posizioni dell’uno e dell’altro.

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È soltanto a partire da questo momento che il soggetto e l’oggetto si scambiano, mentre nella loro rispettiva positività (nella scienza, per esempio) non fanno che edificarsi e fronteggiarsi indefinitamente.
La scienza è legata alla costruzione del suo oggetto e alla sua ripetizione come fantasma (come pure alla riproduzione fantasmatica del soggetto del sapere). Fantasma al quale è inerente un piacere perverso: quello di restituire continuamente un oggetto mancante, mentre la peculiarità dell’analisi, e del godimento, è di venire a capo del suo oggetto.

Il poetico è la restituzione dello scambio simbolico al centro stesso delle parole. Là dove, nel discorso della significazione, le parole, finalizzate dal senso, non si corrispondono, non si parlano (né, all’interno delle parole, le sillabe, le consonanti, le vocali tra di loro), surreal-trampolierenel poetico invece, una volta spezzata l’istanza del senso, tutti gli elementi costitutivi si mettono a scambiarsi, a rispondersi.
Non sono «liberi», né attraverso di essi è «liberato» un qualche contenuto profondo o «inconscio»: sono semplicemente offerti allo scambio, ed è questo stesso processo che è godimento.

Inutile cercarne il segreto in una energetica, in una economia libidica o in una dinamica dei fluidi: il godimento non è collegato all’effettuazione di una forza, ma alla realizzazione d’uno scambio – d’uno scambio senza traccia, senza l’ombra di una forza, avendo risolto qualsiasi forza, nonché la legge che è dietro alla forza.
Perché è opera del simbolico d’essere per se stesso la propria fine definitiva.
La semplice possibilità di tutto questo è una rivoluzione rispetto a un ordine in cui nulla, nessuno, né le parole, né gli uomini, né i loro corpi, né i loro sguardi sono ammessi a comunicare direttamente, ma devono tutti transitare come valori attraverso i modelli che li generano e li riproducono in una «estraneità» totale gli uni per gli altri …

La rivoluzione è ovunque s’instaura uno scambio che spezzi la finalità dei modelli, la mediazione del codice e il ciclo consecutivo del valore – questo scambio, sia pure quello, infinitesimale, dei fonemi, delle sillabe, in un testo poetico, o quello di migliaia di uomini che si parlano in una città insurrezionale.
Perché il segreto d’una parole sociale è anche questa dispersione anagrammatica dell’istanza del potere, è questa volatilizzazione rigorosa di qualsiasi istanza sociale trascendente.

Il corpo smantellato del potere si scambia allora come parola sociale nella poesia della rivolta. Di questa parola, non resta nulla ed essa non si accumula da nessuna parte.
Il potere rinasce da ciò che non è stato consumato in essa, perché il potere non è che residuo di parola.
Nella rivolta sociale si attua la stessa dispersione anagrammatica di quella del significante nella poesia, di quella del corpo nell’erotismo, di quella del sapere e del suo oggetto nell’operazione analitica: la rivoluzione è simbolica, o non è affatto.

(Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte)

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Sfronda le molte parole che ti vengono in mente,
non farne d’una cento, ma di cento una:
la parola è una perla e il poeta ne è il palombaro;
non è facile cosa afferrare una perla speciale!
(Nezâmî, Khusraw e Shîrîn)

Marshall Sahlins confuta la tesi secondo cui la vita dei nostri antenati nel paleolitico sarebbe stata di estrema durezza e povertà di mezzi. Egli, al contrario, sostiene che, nei popoli di cacciatori-raccoglitori, incontriamo la prima «società dell’abbondanza».
La loro abbondanza non è che la forma simmetrica inversa della nostra attuale «opulenza»: la loro «economia» fa del Primo della lista dei «senza niente», per es. di Coyote, il suo Demiurgo. È «mancante di tutto» ma si sente ricco solo se ha rubato ma, a volte anche, donato qualcosa. Si sente ricco perché tutto ciò che c’è da prendere o da dare è solo una fumata o una coperta per passare la notte sotto le stelle. Nient’altro.

Proprio perché dispone di un numero ridottissimo, oltre che provvisorio, di «beni» e, Dalì-albero-orologioinsieme, di «geroglifici» con cui nominarli, ci mette poco il nostro cacciatore-raccoglitore ad appagarsi.
La disperazione è figlia dell’«opulenza», e della Lingua che trova «giusta», anzi a volte «bella buona e giusta», la sua arrogante spartizione di cose, e di titoli che autorizzano a spartirle: la sola condivisione di cose e di parole che è capace di farci sentire insieme tutti «poveri», in quanto «mancanti» di una «mancanza» che non sta nelle cose, ma nelle parole con cui la Lingua fa di quelle cose dei «beni», dei «valori», dei «segni».

Nessuno di questi beni è però buono – perché è solo un frammento del Sommo Bene Trascendente. Nessuno di noi vale se non per quel valore che il Tutto Sociale gli appioppa. E nessun segno può significare agli altri, se non la sua «mancanza di senso», se preso isolatamente.
I mezzi, le parole di cui disponiamo, non sono insufficienti. Sono troppi!
È tutta un’altra cosa. È l’Opulenza che semina ovunque povertà!

I movimenti periodici delle arcaiche società di cacciatori-raccoglitori, scrive Marshall Sahlins, tutte le loro volontarie limitazioni della ricchezza e perfino della popolazione, tutte le riduzioni e costrizioni di cose e di parole, lasciano intravedere una filosofia di vita alla rovescia rispetto alla nostra.
Solo nel quadro di queste «costrizioni», essi colgono la possibilità di sentirsi ricchi, appagati – l’opportunità di estinguere ogni obbligo rispetto al mondo e a se stessi.

La ricchezza diventa possibile solo nella limitazione.
L’Illimitato è la Via Maestra alla povertà.
I cacciatori-raccoglitori, è vero, avevano pochissime cose e pochissime parole «preziose». Non più di una «perla» per ciascun poeta.
Quando tutto il suo lessico d’amore si ridusse alla sola Beatrice, solo allora Dante riuscì a trovare il cuneo per cui passare, il buco d’un geroglifico cuneiforme per cui introdursi nel paradiso della sua mente.
Quanto tempo perso a cercare altre parole – quando una vale per cento!

«Ben ti dovevi, per lo primo strale
delle cose fallaci, levar suso
di retro a me che non era più tale.
Non ti dovea gravar le penne in giuso,
ad aspettar più colpi, o pargoletta
o altra vanità con sì breve uso»
(Dante, Purgatorio, 31: 55-60)

Una sola perla fa tutta la ricchezza del palombaro: chi però ne vuole pure un’altra, e un’altra, e un’altra ancora – ah, se solo sapesse che ha perso un solo tesoro!
La povertà non nasce in una scarsità di beni, ma solo in un mondo sommerso dai rifiuti della sua Opulenza di cose e di parole.
Dovremmo tacere per i prossimi tre millenni, per restituire i nostri eredi alla Poesia che beatifica e fa godere il poeta mentre si annienta nella gratuità del suo verbale.