Warrau – La freccia rotta

Kush-freccia

Un cacciatore sfortunato aveva due cognati che ogni giorno prendevano una gran quantità di selvaggina. Stanchi di nutrire lui e la moglie, essi decisero di sviarlo su una pista che conduceva all’antro di Giaguaro-Nero.
Alla vista del mostro, l’indigeno fuggì, ma il giaguaro lo inseguiva: così si misero entrambi a correre intorno a un enorme albero. L’uomo, che era più veloce, riuscì ad avvicinarsi all’orco dal di dietro e gli tagliò i garretti.
Giaguaro-Nero non poteva più camminare, e si sedette. L’indigeno prima gli tirò una freccia nel collo, poi lo finì col coltello.

I due cognati, che non avevano nessuna stima di lui, erano certi che egli fosse morto e se ne rallegrarono. Così rimasero molto stupiti del suo ritorno, e si scusarono di averlo abbandonato, adducendo a pretesto un malinteso.
Sulle prime non volevano credere che avesse ucciso Giaguaro-Nero, ma l’uomo insisté talmente che i cognati acconsentirono ad accompagnarlo sul luogo del combattimento, in compagnia del loro vecchio padre.
Quando videro l’orco, i tre uomini ebbero una tale paura che il vincitore dovette calpestare la carcassa perché il suocero accettasse di avvicinarvisi. Per ricompensarlo giaguaro-nerodella sua grande impresa, il vecchio diede al genero un’altra figlia, i cognati gli costruirono una capanna più ampia, ed egli fu proclamato capo del villaggio.

Ma l’uomo voleva anche essere proclamato gran cacciatore di tutte le altre specie di animali. Così decise di sollecitare l’aiuto di Wau-uta, la rana arboricola. Si mise alla ricerca dell’albero in cui essa abitava, e si trattenne sotto quest’albero chiamandola e supplicandola.
Il giorno stava per finire e la rana non rispondeva. Egli continuò le sue preghiere e, quando fu completamente buio, le accompagnò con lacrime e gemiti. Sapeva infatti molto bene che, se avesse pianto abbastanza a lungo, essa sarebbe discesa come una donna che in principio si rifiuta a un uomo, ma che, davanti alle sue lacrime, finisce per averne compassione.

Egli gemeva sotto l’albero, quando apparve un branco di uccelli disposti in ordine crescente di grandezza. Uno dopo l’altro essi beccarono i suoi piedi per renderlo abile nella caccia.
Senza che lui lo sapesse, Wau-uta cominciava a interessarsi a lui.
Dopo gli uccelli, vennero i topi in ordine di grandezza, seguiti dall’acouri, dal paca, dal cervide, dal maiale selvatico, poi dal tapiro. Passando davanti all’indigeno, ogni animale tirava fuori la lingua e leccava i suoi piedi per propiziargli un buon esito quando egli avesse cacciato la particolare specie a cui apparteneva l’animale.
Così fecero poi i felini, dal più piccolo al più grande, e infine i serpenti, che sfilarono strisciando.

Questo durò tutta la notte, e quando si fece giorno l’uomo cessò i suoi gemiti.
Si avvicinò un essere sconosciuto. Era Wau-uta, che portava una freccia dall’apparenza occhio-di-ranastrana: «Eri dunque tu a far tanto rumore questa notte tenendomi sveglia? Guarda piuttosto il tuo braccio, dalla spalla alla mano!».
Il braccio era coperto di muffa, e anche l’altro si trovava nella stessa condizione. L’uomo raschiò tutta la muffa, perché era questa la causa della sua sfortuna.

Dopo di che Wau-uta gli propose di scambiare le loro frecce; la sua era rotta in vari pezzi e riparata.
Provandola, l’uomo riuscì però a colpire una liana sottile che pendeva in un luogo lontano. Wau-uta gli spiegò che ricadendo la freccia colpiva sempre qualche preda: prima alcuni uccelli, andando dal più piccolo al più grande, poi un topo, un acouri, ecc. sino al tapiro; toccò quindi a felini e serpenti, in ordine di grandezza, proprio come erano sfilati gli animali durante la notte.
Quando egli ebbe percorso tutta la serie, Wau-uta aggiunse che poteva conservare la freccia a condizione di non rivelare mai chi aveva fatto di lui un buon tiratore. Dopo di che si lasciarono.

Il nostro eroe raggiunse la capanna e le due mogli. Divenne famoso come fornitore di carne affumicata, nello stesso modo in cui lo era già per il coraggio che aveva dimostrato uccidendo Giaguaro-Nero.
Cercavano tutti di scoprire il suo segreto, ma egli non voleva dire nulla. Allora i suoi compagni l’invitarono a una grande festa di birra. L’uomo si ubriacò e parlò.
Il mattino successivo, riacquistata la lucidità, cercò la freccia che gli aveva dato Wau-uta, ma al suo posto trovò solo la propria. E tutta la sua fortuna svanì.

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Di questo mito esiste una lunga variante kalina (gruppo carib della Guayana), che fa da cerniera tra la storia di Adaba e il nostro racconto. In questa variante, infatti, la rana protettrice è un cunauaru maschio, ossia della stessa specie e dello stesso sesso di Adaba. Ma, come qui, questo cunauaru fa la parte di protettore di un cacciatore sfortunato, sfuggito al giaguaro cannibale (anziché averlo ucciso); egli toglie dalle frecce del cacciatore la muffa malefica (come Adaba, e a differenza di Wau-uta, che scopre la muffa sul corpo stesso del cacciatore) e fa di lui un tiratore scelto (senza che vi si accenni a una freccia magica).

Il seguito del racconto ricalca la storia di Adaba: l’eroe ritorna tra i suoi, ma dotato di una natura di rana acquisita tra i batraci. Così, fa il bagno solo nell’«acqua delle rane» che si trova nella cavità degli alberi..
Per colpa di sua moglie, egli entra in contatto con l’acqua in cui si lavano le mani gli uomini, e a causa di ciò lui e suo figlio si trasformano in rane.

Il motivo degli animali disposti per ordine di grandezza persiste in questa variante, ma spostato: si situa infatti durante il soggiorno dell’eroe presso il Giaguaro cannibale.
Allorché questi l’interroga sull’uso che fa delle frecce, egli risponde che uccide animali, Kandinsky-arco-freccia-ZRTche elenca famiglia per famiglia, presentando le sue frecce una dopo l’altra e andando ogni volta dal più piccolo al più grande.
Man mano che la grandezza dell’animale citato aumenta, il Giaguaro ride più forte (cfr. Adaba che ride alla scoperta della muffa nelle frecce), poiché spera che il suo interlocutore arrivi infine a nominare il giaguaro e a dargli così un pretesto per divorarlo.
Giunto però all’ultima freccia, l’eroe nomina il tapiro, al che il Giaguaro scoppia in una risata che dura due ore, dando così all’uomo il tempo di scappare.

Affrontiamo il mito sotto questa angolatura.
Tutto il gruppo di cui fa parte evoca alternativamente o congiuntamente due tipi di comportamento: un comportamento verbale concernente un nome che non si deve pronunciare o un segreto che non deve essere rivelato; e un comportamento fisico nei confronti di corpi che non devono essere avvicinati.
Nel primo caso: non si deve pronunciare il nome dell’Ape o rimproverarle la sua natura, tradire il segreto di Wau-uta, dire il nome del Giaguaro.
Nel secondo: non si deve bagnare il corpo dell’ape o della rana con l’acqua di cui si servono gli uomini per lavarsi.

Si tratta, ovunque e sempre, di un accostamento malefico fra due termini.
Uno di questi termini è un essere vivente e, a seconda del carattere verbale o fisico del comportamento evocato, l’altro termine [con cui l’essere vivente s’intrattiene] è ora una cosa [con cui egli ha a che fare verbalmente], ora una parola [con cui è significata la cosa con cui entra fisicamente in contatto].
Si può quindi dire che la nozione di accostamento è assunta in senso proprio nel primo caso e in senso figurato nel secondo.

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Il termine attivamente accostato all’altro può, a sua volta, presentare due caratteri. Come parola (il nome proprio) o come proposizione (il segreto), esso è compatibile con l’essere individuale al quale viene applicato. «Ape» è proprio il nome dell’ape, «Giaguaro» quello del giaguaro.
Ma se si tratta di una cosa (nella fattispecie l’acqua), essa è incompatibile con l’essere cui viene accostata: l’acqua degli umani è antipatica sia all’ape sia alla rana.

In terzo luogo, l’accostamento dei due termini (che sia fisico o verbale) presenta, a seconda dei casi, un carattere aleatorio o ordinato.
L’eroe pronuncia il nome proibito involontariamente e per inavvertenza; le cognate [nella storia di Adaba] o la moglie [nel nostro racconto] non sanno perché è proibito loro spruzzare l’eroe. In compenso, nella variante kalina l’eroe enumera animali sempre più grandi, progressivamente e in ordine; ed è questo il solo caso in cui l’accostamento malefico è evitato.
La nostra combinatoria deve quindi ammettere questa eventualità [cioè che un «ordine verbale» possa scongiurare un rischio «fisico»], e deve altresì prendere in combinazione le conseguenze disastrose dell’accostamento che, però, qui si tradurrebbero in una congiunzione (il giaguaro mangerebbe l’uomo) e non in una disgiunzione (trasformazione della donna o dell’uomo soprannaturali in animale).

(Lévi-Strauss, Dal miele alle ceneri)

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Kandinsky-constructionFacciamo conto di situarci nello spigolo «immaginario» della mappa tripartita di Lacan: supponiamo di essere all’angolo tra il «simbolico» e il «reale», e che da qui possiamo andare o alla Parola o alla Cosa.
Da qui possiamo cioè aprire una nostra immaginazione a un «accostamento» verbale e/o fisico. Possiamo «nominarla» quella nostra immaginazione, ma possiamo anche «realizzarla» in un corpo a corpo. Possiamo, s’intende, fare benissimo tutt’e due le cose insieme. Ma il comportamento che ci è richiesto non è lo stesso: le istruzioni per l’uso cambiano dalle parole alle cose, dalle chiacchiere ai fatti. Cambiano i rischi a cui va incontro quel Possibile di cui è investita e travestita quella nostra immaginazione.

Lévi-Strauss, a nome della Filosofia Selvaggia, ci mette in guardia: non è la stessa cosa quando un essere vivente «si accosta» a una parola o a una cosa, a un Segno o a un Corpo.
Chi viaggia dall’immaginario al simbolico si può «accostare» a qualunque parola impunemente, salvo che a una, e può giocare con tutti i simboli, perché si tratta di giocattoli che non fanno male – tutti, però, tranne uno: tranne quel giocattolo che è il segreto da non tradire, il nome proprio di Colei da cui l’eroe riceve la «freccia magica», e i conseguenti benefici.

Su questa rotta, dall’immaginazione al simbolismo, non c’è Ignoranza. Il nostro «eroe» sa il nome di chi l’ha investito di un sapere speciale, conosce il segreto dell’Immagine a cui «deve» tutto, ne è anzi l’unico depositario.
Se errore l’eroe può commettere, è quello di tradirlo per distrazione, di farselo scappare di bocca in un momento d’ubriachezza – come un lapsus: del tutto involontariamente.
Egli non lo ignora: anzi quel Nome, quel Segreto, è l’inizio di tutto il suo sapere simbolico. È a quel Nome che egli orienta, come al Polo, tutto il suo mondo immaginario. Lo può nominare solo in presenza del Nominato, ma mai pubblicamente – perché il Nominato Segreto è fatto così: è permaloso, e per un niente, prende armi e bagagli e se ne va. Non Biegas-femme-fatalevuole in nessun modo essere «pubblicato». Questo Hæmyts l’imparerà a sue spese. Guai a divulgare la propria Rana!

Hæmyts non pecca d’ignoranza, ma perché vuole far sapere agli altri quello che lui sa. Sulla pubblica piazza nessuno può mai «vedere» la sua Sposa immaginale. Vedono tutti soltanto una rana: solo un nome e un corpo. E là dove senza immaginazione si gioca solo coi Nomi e con le Cose, là dove il gioco si restringe tra il Simbolico e il (Corpo) Reale, là, come ci dice Lacan, là sì che regna sovrana l’Ignoranza.
Ed ecco: a seconda del racconto, o la moglie o le cognate dell’eroe non sanno che un solo spruzzo della «loro» acqua gli è letale. Esse ignorano che la loro seduzione finirà per far ricadere l’eroe nella sua «animalità». Dal rango immaginario in cui ha acquisito il suo sapere magico, quel sapere che fa la magia di dargli sembianze «umane», esse non sanno di farlo precipitare nel sudore e nel sangue della «carnalità».
Il loro sì che è un errore di Ignoranza. Offrendo il proprio Corpo Reale in cambio e al posto della sua Sposa immaginale, fanno regredire l’eroe nella Natura Selvaggia, nella natura senza tabù (di cultura).

Non è un dettaglio, non più a questo punto: è la «seconda» moglie quella che induce nell’errore, è la «seconda» Figlia del Sole la Donna Fatale a Soslan, è la «seconda» Isotta quella che tormenta Tristano.
Non la prima, non la Sposa Immaginale – ma la seconda, quella Reale, quella che ti bagna dell’acqua in cui si lava il Corpo – non quella che hai sognato per caso una notte danzare in un accampamento nel deserto.
No, la pericolosa è la Seconda, l’Aleatoria – quella che incontri per caso sulla via che stavi seguendo sulle tracce di un’immaginazione.

Questo secondo genere di accostamento, questo approccio «fisico» di corpo a corpo, Chagall-Adamo-Eva-ZRTrichiede dunque tutto un altro comportamento. Richiede di cautelarsi contro l’Ignoranza in agguato là dove i corpi giocano a fare l’uno il giocattolo dell’altro: sono sì corpi che si parlano tra loro, corpi che fanno uso di segni, ma essi ignorano il male che si fanno, l’uno all’immaginazione dell’altra, e perciò bisogna stare in guardia: un nome può voler dire mille cose, e una cosa può essere detta in mille modi diversi!

Lo spigolo «reale» sta tra l’ignoranza e l’odio: eppure, non c’è «cacciatore» che non debba correre il rischio d’incontrare il Giaguaro che lo divori. Se vuole sfamare anche solo la sua immaginazione, egli deve andare a caccia nel bosco. Deve avventurarsi nel contatto quotidiano con gli animali, con le prede reali, coi «corpi in carne e ossa». Le sue immaginazioni, lui le preda alla Realtà. E perciò si trova sempre esposto al rischio d’essere realmente divorato.
È bene che lui sappia che il giaguaro si chiama Giaguaro, che qualunque orco sia chiama Orco, ma non basta sapere questo per sentirsi al sicuro.

Si rimane ignoranti finché non si sa che quel Nome può essere pronunciato in tutte le circostanze, anche pubblicamente, ma mai in privato a tu per tu col Giaguaro.
Non nominare dunque il Giaguaro in presenza di un giaguaro. Non menare vanto della selvaggina che uccidi, perché il Giaguaro si irrita, si sente preso per il culo, se ti vanti di saper uccidere anche lui.
E viceversa, nomina quando ti pare e piace la tua Rana, ma sempre e solo in presenza di Lei. Non nominarla mai pubblicamente. Tu ignori in che razza di imbroglio ti vai a cacciare, né a quali vincoli assoggetti la tua immaginazione.